Note su rifiuto del lavoro e amicizia
Nel rifiuto del lavoro era in ballo una domanda molto radicale che andava al di là di quella riguardante il semplice lavoro salariato. La domanda era: che cos’è la vita? E la risposta, ovvero una dichiarazione di guerra contro la noia e la tristezza, articolava resistenza e riappropriazione tecnica. A partire dalle analisi di Franco Berardi Bifo sul rifiuto del lavoro e sulla devastante risposta thatcheriana e neoliberale, in questo articolo Gabriele Fadini riflette su come riaprire le possibilità di nuove forme di vita in comune. Lo fa confrontandosi con il lessico religioso e con la teologia politica, con le analisi di Paolo Virno, Giorgio Agamben e Paolo Godani, per giungere a riproporre la questione del «rifiuto del lavoro come diritto a tutto in quanto esseri umani».
Immagine: Comunismo futuro. Progetto grafico Alvise Renzini Opificio Ciclope, feat. Franco Berardi Bifo
— Secondo i primi documenti diretti del Nuovo Testamento, le prime due lettere ai Tessalonicesi di san Paolo, l’Apostolo dopo aver predicato nella prima l’imminente venuta della parousia, ovvero il ritorno di Cristo sulla terra e l’instaurazione del Regno dei cieli, si trova di fronte a una comunità in agitazione e in preda all’ozio. Dalla lettura della successiva epistola sappiamo che la comunità di Tessalonica fu la prima nel contesto cristiano a esercitare il rifiuto del lavoro tanto da costringere Paolo a sancire una massima che sarà fatta propria (senza citarne la fonte) anche dallo statuto dell’Unione Sovietica, ovvero di una nazione dichiaratamente atea: «chi non vuole lavorare neppure mangi» (2Ts 3,10). Nel 1977 Franco Berardi Bifo figura come autore di un libro che raccoglie i numeri di una rivista dal titolo tipicamente «parusiaco»: Finalmente il cielo è caduto sulla terra. In esso il filosofo bolognese afferma il diritto di liberare la vita dal ricatto del lavoro salariato; il diritto cioè volto a introdurre nella necessità imposta come «naturale» dal capitale la possibilità di una società priva dello sfruttamento operato dal lavoro sulla vita, dall’uomo sull’uomo[i]. Questo significa, in altri termini, liberazione della vita dal lavoro: apertura di una possibilità immanente a un eschaton che sembra essere sempre di più insuperabile. 1. Nel suo Heroes. Suicidi e omicidi di massa[ii], Berardi descrive questo eschaton sottolineando lo sfaldarsi di ogni forma di etica che si definisce come prossimità dell’altro in forme di solidarietà in cui la percezione di una comunità, un territorio, un destino condiviso, è finalizzata alla ricerca di un futuro comune. A questa distruzione ci ha pensato, secondo il filosofo bolognese, il lucido progetto neoliberista volto a una deterritorializzazione costante della produzione e della stessa fonte del potere, in grado di produrre una precarizzazione individuale e sociale in cui proprio alla solidarietà si è sostituita la competizione sfrenata come forma generale delle relazioni e disincarnazione dell’altro ridotto alla mera logica della funzionalità. Ebbene, Bifo per riflettere radicalmente sul fenomeno che si trova a rilevare, guarda indietro di circa quarant’anni e si imbatte in quello che ritiene essere uno dei capisaldi programmatici di questa distruzione della solidarietà e del tessuto sociale comune da cui essa è intessuta e che essa intesse. Il riferimento è a Margaret Thatcher e alla sua dichiarazione secondo cui non vi sarebbe nulla che si possa chiamare società, ma solo individui in lotta per la sopravvivenza[iii]. Nel suo Futurabilità, Bifo parla proprio di una «morale thatcheriana» secondo cui le progettualità e i relativi mutamenti economici sono volti a cambiare l’approccio degli individui rispetto alla propria vita, in altre parole a cambiare il cuore e l’anima della società[iv]. Esplicitando il concetto, Bifo cita un breve passo di un’intervista all’allora primo ministro inglese in cui il progetto di dissoluzione del sociale appare in tutta la sua chiarezza: Non esiste una cosa chiamata società. Esistono gli individui, le famiglie e nessun governo può far nulla. La gente deve prima di tutto pensare a se stessa[v]. Concateniamo questa citazione con un altro passo, di estrazione completamente diversa, ma che contiene in sé un indice storico atto a formare, nei termini cari a Walter Benjamin, un «tempo-ora» (Jeztzeit) in cui un momento storico si rivela significato da un altro momento storico. Il testo a cui alludiamo è tratto dal romanzo di Elie Wiesel, La notte. Ci troviamo alla fine del romanzo, il giovane Elie è completamente dedito alle cure del padre sempre più prossimo alla morte. Vedendo Elie affannarsi nel rinunciare alle proprie razioni di cibo per lasciarle al padre malato e sofferente, il capo del blocco, dopo essersi sincerato su chi fosse l’uomo che il giovane era così dedito ad accudire, si rivolge a Elie in questi termini: Ascoltami bene, piccolo; non dimenticare che sei in un campo di concentramento. Qui ognuno deve lottare per se stesso e non pensare agli altri. Neanche al proprio padre. Qui non c’è padre che tenga, né fratello, né amico. Ognuno vive e muore per sé, solo. Ti do un buon consiglio: non dare più la tua razione di pane e di zuppa al tuo vecchio padre. Tu non puoi più fare nulla per lui e così invece ti stai ammazzando. Tu dovresti al contrario ricevere la sua razione…[vi] Ovviamente non ci interessa qui porre una equivalenza immediata tra le parole della Thatcher e quelle del capo blocco nazista, così come non è questo il luogo per indagare il rapporto tra l’essere-per-la-morte heideggeriano e l’espressione del capo blocco nazista: «Qui ognuno vive e muore per sé, solo», quasi ci fosse una costitutiva assenza di qualsiasi forma comune e collettiva da ciò che è, per il filosofo tedesco, la più propria possibilità dell’essere umano. Quello che ci preme di più ora, invece, è la sinistra corrispondenza tra alcune parole del nazista con quelle della Thatcher per come appaiono nella loro più stretta evidenza, alla luce di quella distruzione della solidarietà umana fondata sugli affetti e la sensibilità cui Bifo conferisce l’unica forma possibile di riconnessione di un campo sociale. 2. Paolo Virno, nel suo importantissimo libro Saggio sulla negazione. Per un’antropologia linguistica, parte dalla neurologia dei neuroni mirror, ovvero dalla dimensione in grado di anticipare le azioni altrui e per questa ragione di poter empatizzare con tutti in direzione di un «noi-centrismo» in cui non sono più i singoli a comunicare l’un con l’altro, ma al contrario si dà una sorta di «intersoggettività senza soggetti»[vii]. Ora, il linguaggio per Virno lungi dallo sviluppare irenicamente questa noi-centricità, è qualcosa che la mette fortemente in crisi. Se l’empatia originaria coinvolge anche l’uomo o la donna più spregevole, il fatto che quest’uomo e questa donna abbiano – a differenza di altre forme di vita – un linguaggio, fa sì che, mediante l’elemento negativo del «non», essi possano immettere una direzione completamente diversa rispetto alla rilevazione empatica. Il linguaggio, in altre parole, non civilizza l’aggressività dell’Homo sapiens, ma la radicalizza oltremisura, portandola a quel limite esterno che è il disconoscimento del proprio simile[viii]. A tal proposito, l’esempio portato da Virno è proprio quello dell’Ss che di fronte a un anziano in lacrime insieme mantiene l’empatizzazione neuronale verso di lui, trattandosi questi di un uomo, ma allo stesso tempo, utilizzando il linguaggio, può affermare che esso non è un uomo e che quelle lacrime non sono umane. È dunque il linguaggio il luogo in cui si dà la possibilità di uno scontro tra ciò che la nostra natura neuronale afferma e ciò che una posizione ideologica contro-afferma. Ed è, infatti, un atto linguistico che permette di reintrodurre la sfera pubblica come negazione della negazione. Apponendo cioè un «non» di fronte al «non uomo» pronunciato dal nazista si mette in moto quella dimensione kathecontica, ovvero quella forza trattenitrice che, per il san Paolo della seconda epistola ai Tessalonicesi, impedisce l’avvento dell’Anticristo e per il pensiero politico moderno il disfacimento dell’ordine sociale. Ora, per queste ragioni la contrapposizione più forte alla dissoluzione della società messa in opera dal capo blocco de La notte così come dalla Thatcher può avvenire proprio a livello linguistico. L’azione politica anticapitalistica e antistatale, scrive Virno, non ha alcun presupposto positivo da rivendicare, ma si impegna a sperimentare nuovi e più efficaci modi di negare la negazione. Laddove ciò avviene efficacemente la lotta politica anticapitalistica assume la forma trattenitrice della deriva dissolutiva del tessuto sociale[ix]. Senza con ciò ripristinare l’empatia originaria dei neuroni mirror, ma stagliandosi sullo sfondo di un eventuale fallimento, questa lotta dipende per intero dalla potenza politica del linguaggio ed è il risultato sempre precario dei patti e delle insurrezioni che costellano la sfera pubblica[x]. Prima di procedere è tuttavia necessario soffermarsi ancora sul senso che Virno conferisce alla negazione della negazione. Essa, infatti, non va intesa come espressione di una fiacchezza psicosomatica, ma al contrario richiede intraprendenza, energie sovrabbondanti, persino caparbietà[xi]. La negazione della negazione costituisce un frammento di prassi: è l’azione con cui il parlante innova repentinamente il contenuto semantico sotteso tanto alla negazione semplice quanto all’affermazione diretta. Al pari di qualsiasi altra azione, la doppia negazione non va considerata vera o falsa ma riuscita o fallimentare[xii]. In essa, cioè, il contenuto veritativo è sottomesso alla realizzazione sul piano della pratica. E ancora, la doppia negazione è per Virno un microcosmo storico. Tra i due «non», in altre parole, esiste sempre una discrepanza temporale, una essenziale diacronia fondata sul fatto che la seconda negazione non elimina la prima negazione ma la sospende senza abrogarla[xiii]. Ed è proprio questa sospensione diacronica che permette alla negazione di farsi prassi. La negazione del comunismo, sostiene Virno, diventa anacronistica e a sua volta negata allorché il senso del comunismo ereditato dal Novecento e caratterizzato dall’idolatria dell’apparato statale o dall’esaltazione della fabbrica, viene trasformato alla radice da lotte di classe improntate a un civile disprezzo per il lavoro salariato e per lo Stato. La felicità della negazione del «non comunismo» è dunque assicurata da conflitti politici che, lungi dal ribadirlo, stravolgono il suo originario significato al punto di disinnescare la sua precedente negazione[xiv]. Da ultimo, Virno sottolinea come la prassi umana sia costituita in larga misura da azioni che consistono unicamente nel non fare qualcosa quali, ad esempio, l’omettere, l’astenersi, l’evitare, il rinunciare, il disobbedire ecc. Che si tratti di uno sciopero generale o di un gioco collettivo, il «non-fare» non solo si mescola al «fare» ma, in molti casi, è addirittura una condizione imprescindibile di esso[xv]. Le azioni negative, infatti, inoculano un «non ora» nel cuore della prassi come esibizione di una potenzialità; ogni azione affermativa, in altre parole, incorpora in sé come una condizione ineludibile, la sua eventuale omissione[xvi]. 3. Tutta l’opera di Giorgio Agamben è costellata da un tema che potrebbe apparire consimile a quello delle azioni negative. Nel linguaggio agambeniano l’azione negativa viene definita come «impotenza», ma non tanto come assenza di potenza quanto più come «poter non fare». Agamben estrae questo concetto di impotenza dalla riflessione aristotelica secondo cui ogni potenza è impotenza dello stesso e rispetto allo stesso[xvii]. In altri termini, ogni potenza è potenza di essere o fare qualcosa ma allo stesso tempo per essere completa deve anche poter essere potenza di non essere o non fare qualcosa. L’uomo è perciò il vivente che esistendo sul modo della potenza, può tanto una cosa che il suo contrario, sia fare che non fare[xviii]. Essere estraniati da questa impotenza, secondo Agamben, impedisce all’uomo di esercitare quella forma possibile di resistenza che si fonda sulla inattualità, ovvero su uno spazio di sottrazione o inoperosità[xix]. L’inoperosità non significa abolizione del quotidiano ma sua sospensione, poiché il semplice fare degli uomini non viene negato o abolito, ma sospeso e reso inoperoso per essere festosamente esibito. Il punto decisivo nel discorso di Agamben è che la festosità non semplicemente sospende ma disattiva ciò che viene esibito per consegnarlo a un altro possibile uso[xx]. Commentando il testo biblico a 1Cor 7, 29-32, in cui san Paolo scrive ai Corinti sulla prossima venuta della parousia invitandoli a vivere come non vivessero nelle condizioni in cui si trovano, il filosofo legge questo «come non» alla maniera di una revoca di ogni chiamata, una revoca messianica che non annulla né abroga ma sospende, rende non coincidente con se stessa ogni forma di chiamata. La condizione in cui ciascuno si trova non va annullata, né superata ma una volta messa in relazione con se stessa mostra l’inconsistenza di ogni identità che si pensi come identica a sé[xxi]. Ci troviamo di fronte, nel caso di Agamben, a quella che possiamo definire una fuoriuscita della potenza dall’atto, una eccedenza della potenza rispetto all’atto nei termini della sottrazione. Virno e Agamben coincidono nel vedere alla base di quell’azione rivoluzionaria in grado di creare l’autenticamente nuovo, la presenza di uno iato, di una frattura: per Virno tra negazione e negazione, per Agamben tra soggetto e soggetto. Per entrambi è la non coincidenza con sé, la presenza di una inattualità[xxii] e di una potenzialità, il tratto comune dell’essere umano e della sua costituzione antropologica. A tal proposito, Paolo Godani nel suo Sul piacere che manca. Etica del desiderio e spirito del capitalismo, commentando il concetto di inoperosità agambeniano sostiene che: È questa forse anche la condizione alla quale riusciremo a rispondere a un sistema sociale la cui domanda non è più di mettere a disposizione del lavoro una parte della nostra vita, lasciando per il resto qualche spazio al riposo e allo svago, ma di «valorizzare» cioè di asservire al lavoro secondo la logica del capitale umano, la vita in ogni sua attività e facoltà[xxiii]. Detto questo, Godani cerca di pensare alla possibilità di un piacere che non passi attraverso la mediazione simbolica del desiderio dell’Altro e afferma la pura coincidenza con sé del personaggio della commedia quale modalità in grado di smontare il teatro della nevrosi in cui si è sempre spettatori della propria non coincidenza con sé per affermare, allo stesso tempo, la necessità di pensare al godimento come il puro piacere di un personaggio da commedia che coincide senza residui e necessariamente con il proprio carattere[xxiv]. Ora, il piacere consistente in questa identificazione con sé fa sì che ciò che viene rifiutato, assieme alla servitù della schiavitù del lavoro, sia la prospettiva di una vita sottomessa alla logica strumentale dei mezzi e dei fini, la prospettiva di un’esistenza che sacrifica il piacere in vista di qualche realizzazione di sé. Questo rifiuto va compreso non come forma di rinuncia o di quietismo ma nella sua potenza di sovversione, perché afferma che la felicità consiste in un far niente che annulla le barriere delle gerarchie sociali nella sua stessa affermazione. E non solo come rivendicazione di un diritto all’ozio da parte di qualcuno a cui la società concede al massimo di battersi per un qualsivoglia diritto al lavoro, ma come affermazione di una forma di vita sociale incompatibile con l’ordine sociale esistente e con il tipo di umanità che esso vorrebbe produrre[xxv]. 5. Dall’ordine sociale eravamo partiti e all’ordine sociale arriviamo. Il breve percorso che abbiamo tracciato attraverso il concatenamento autoriale Virno-Agamben-Godani voleva in qualche modo dare risposta a quella lacerazione del tessuto sociale che avevamo rilevato essere alla base della lucida visione di larga parte di tutta l’ultima opera di Franco Berardi. Se per Virno si tratterebbe di negare la negazione come azione più alta della ricostruzione della socialità, per Agamben e per Godani la domanda capitale consiste nel chiedersi se sia possibile una comunità politica che sia ordinata esclusivamente al godimento pieno della vita mondana[xxvi]. Riflettendo sul significato del rifiuto del lavoro ai tempi della precarietà, Berardi nota che in quell’espressione che si era imposta negli anni Sessanta e Settanta, era in ballo una domanda molto radicale che andava al di là di quella riguardante il semplice lavoro salariato. La domanda era: che cos’è la vita? E la risposta, ovvero una dichiarazione di guerra contro la noia e la tristezza, articolava la resistenza anche come innovazione tecnica nel momento in cui questa rendeva possibile la riduzione del tempo di lavoro. Tuttavia, osserva Bifo, l’emancipazione dal lavoro non è un processo puramente tecnico ma presuppone coscienza politica e una profonda trasformazione delle aspettative psicologiche e culturali. Allorché, infatti, coscienza sociale ed evoluzione tecnica hanno cominciato a divergere, il risultato finale è che siamo precipitati nell’era della tecno-barbarie ove l’innovazione ha provocato precarietà, la ricchezza miseria, la solidarietà si è frantumata nella competizione isolata di singoli, il cervello connesso si è scollegato dal corpo sociale, la potenza della conoscenza si è scollegata dal benessere collettivo e non da ultimo l’accumulazione finanziaria ha finito per impoverire sempre di più la vita, per non parlare dell’imperativo ad una crescita incapace di guardare al disfacimento ecologico del pianeta. Il general intellect è ancora in azione, sostiene Bifo, ma è incapace di mettere in moto un processo di emancipazione sociale, pur nell’orizzonte di una cooperazione fra lavoratori cognitivi che esprime la creatività in grado di produrre arricchimento e miglioramento nella vita quotidiana[xxvii]. Su di un versante in cui il compito cui si è chiamati è di attraversare il deserto in cui siamo abbandonando la speranza e guardando la bestia negli occhi, Bifo guarda a papa Francesco non con un intento teologico politico, quanto al contrario come colui che ha ridefinito in termini etici e immanenti il rapporto tra verità e compassione – traducibile nel rapporto tra verità ed empatia – proprio a partire dalla comune esperienza di una percezione disperata del nostro tempo e del futuro. La cosa interessante è che il filosofo bolognese ci sembra vedere in Francesco proprio quell’istanza che era alla base del rifiuto del lavoro, ovvero una forma di nuova definizione radicale della vita nei termini dell’amicizia, della solidarietà e del piacere nel rapporto tra i corpi. Secondo Bifo, infatti, il pontefice argentino non è venuto a predicare un Cristo incarnato che imponga la giustizia ma per annunciare un Cristo che predichi amicizia e compassione, ovvero un Dio-madre più attento alla fragilità della creatura umana che all’ossessione paterna per la legge. È certo possibile leggere l’insistenza sulla compassione anche nel contesto della violenza finanziaria e dell’austerità europea che distrugge la vita e il futuro dei popoli, come critica all’egoismo delle popolazioni europee che rifiutano di accogliere migranti che fuggono dalla miseria e dalla guerra, spesso conseguenza dell’azione degli europei stessi. Ma, sottolinea ancora Bifo, non è questo il precipuo contributo di Francesco a una visione condivisa della situazione presente, quanto più l’affermazione dell’amicizia come capacità di trasformare la disperazione propria della mente intellettuale con la gioia propria della mente incarnata[xxviii].
6. Concludendo. Se la realtà odierna testimonia di come ogni concezione della potenza come veicolo di realizzazione della possibilità inscritta nell’immanenza non è in alcun modo infinita[xxix], anche per Bifo il compito della possibilità è quello «sottrattivo». Quando non c’è, infatti, più niente da fare l’unica cosa da fare è non prendere parte al gioco, non attendere alcuna soluzione dalla politica, non attaccarsi alle cose, non sperare, non smettere di essere ironico nel non credere a certezze e previsioni, non smettere di ribellarsi e disertare, non smettere di esercitare ciò che riguarda l’ironia ovvero l’indipendenza della mente dalla conoscenza e la natura eccessiva dell’immaginazione[xxx].
Un’immaginazione, aggiungiamo noi, che è sempre minoritaria nel senso che Deleuze e Guattari danno all’idea di divenire come divenire sempre minoritario. Non tanto perché la deterritorializzazione dalle costanti dominanti non sia stata fatta propria da quel capitalismo che lucidamente Berardi annuncia essere esso stesso venuto meno come visione del mondo soffocata dall’arroganza finanziaria e dalla precarietà del lavoro. Ma in un senso diremmo «teologico»: a essere deterritorializzato, infatti, non è l’uomo nella sua costante identitaria, ma Dio stesso. Non si tratta più di vedere nel carcerato, nel migrante, nell’umiliato Dio, ma scoprire che l’umiliato, il carcerato, il migrante sono Dio stesso; che essendo solidali con questi esseri-umano si è da ultimo solidali con Dio, che l’incontro con loro è l’unica esperienza condivisibile, immanente, del divino data a ogni uomo.
È questa la rivoluzione che il papa dell’amicizia e della solidarietà apporta e che lo rende così avverso a tanta parte della cristianità: una rivoluzione che sembra riecheggiare la definizione di «essere di sinistra» che dà Deleuze nel suo Abecedario allorché alla lettera di G di gauchiste egli afferma che essere di sinistra significa non smettere di divenire, ovvero di divenire-minoritari, di fare esodo dall’unità di misura vuota ma anche insieme di riconoscere che i problemi del terzo mondo ci sono più vicini di quanto non siano i problemi del quartiere in cui si abita[xxxi].
Ecco che quindi se ogni migrante morto in mare è Dio esattamente come ne La Notte Elie Wiesel vede Dio nel bambino appeso alla forca del campo di concentramento che lotta per mezz’ora prima di morire[xxxii], la possibilità è riaperta non in maniera semplicemente dialettica ove la notte dell’impossibilità è più buia, ma ogni qual volta in cui riceviamo, senza sapere perché, la grazia di poter essere affetti dall’incontro con la sensibilità di colui che costantemente pone e ripone la domanda: perché il nulla della distruzione invece dell’essere della creazione, del godimento, del rifiuto del lavoro come diritto a tutto in quanto esseri umani?
Note [i] Cfr. F. Berardi Bifo, Quarant’anni contro il lavoro, DeriveApprodi, Roma 2017, pp. 17-19. [ii] Cfr. F. Berardi Bifo, Heroes. Suicidio e omicidi di massa, Baldini & Castoldi, Milano 2015, pp. 212-213. [iii] Cfr. ivi, p. 214. [iv] Cfr. F. Berardi Bifo, Futurabilità, Nero Editions, Roma 2018, p. 131. [v] Cfr. ivi, p. 132. [vi] E. Wiesel, La notte, Giuntina, Firenze 1980, p. 107. [vii] P. Virno, Saggio sulla negazione. Per un’antropologia linguistica, Bollati Boringhieri, Torino 2013, pp. 11-14. [viii] Cfr. ivi, p. 22. [ix] Ibidem. [x] Cfr. ivi, p. 176. [xi] Cfr. ivi, pp. 181-182. [xii] Cfr. ivi, p. 195. [xiii] Cfr. ivi, p. 192. [xiv] Cfr. ivi, pp. 193-196. [xv] Cfr. ivi, p. 181. [xvi] Cfr. ivi, pp. 188-189. [xvii] Cfr. G. Agamben, Nudità, Nottetempo, Milano 2009, p. 67. [xviii] Cfr. ivi, p. 68. [xix] Cfr. ivi, p. 154. [xx] Cfr. ivi, p. 159. Su questi temi si veda anche G. Agamben, Il tempo che resta. Un commento alla Lettera ai Romani, Bollati Boringhieri, Torino 2000. [xxi] Cfr. G. Agamben, Il tempo che resta, cit. pp. 29-31. [xxii] Sull’inattualità si veda anche P. Virno, Il ricordo del presente. Saggio sul tempo storico, Bollati Boringhieri, Torino 1999. [xxiii] P. Godani, Sul piacere che manca. Etica del desiderio e spirito del capitalismo, DeriveApprodi, Roma 2019, p. 123. [xxiv] Cfr. ivi, pp. 131-137. [xxv] Cfr. ivi, p. 142. [xxvi] Cfr. ivi, p. 146; e G. Agamben, Mezzi senza fine. Note sulla politica, Bollati Boringhieri, Torino 1996, p. 90. [xxvii] Cfr. Berardi, Futurabilità, cit. pp. 181-183. [xxviii] Cfr. ivi, pp. 112-116. [xxix] Cfr. ivi, p. 29. [xxx] Cfr. Berardi, Heroes, cit. pp. 237-238. [xxxi] Cfr. G. Deleuze, Abecedario di Gilles Deleuze, DeriveApprodi, Roma 2005. [xxxii] Cfr. E. Wiesel, La Notte, cit. p. 67.
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