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Piccoli divi crescono. Lo sport universitario Usa nel labirinto del NIL


basket
Immagine: Angelica Ferrara

Dopo l'articolo delle scorse settimane sul caso Messi, Pippo Russo torna a scrivere delle implicazioni politiche e dei risvolti economici dello sport con un testo che questa volta si concentra sul panorama scolastico e universitario statunitense che si trova davanti ad un bivio particolarmente decisivo sul tema professionismo/dilettantismo degli atleti NCAA.

Una sentenza della Corte Suprema ha stabilito che gli atleti NCAA abbiano il diritto a sfruttare il proprio capitale immateriale, ovvero Name, Image, Likeness (NIL), favorendo gli unici (e decisivi) attori che finora non godevano dell'organizzazione «industriale» e della commercializzazione spinta della lega.

Questo fattore porterà, probabimente, alla ridefinizione del business che gira intorno al basket e, più complessivamente, alle università statunitensi.

L'articolo inaugura ufficialmente la sezione Agon, curata dallo stesso Pippo Russo.


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 Professionisti da subito. Lo sport scolastico e universitario statunitense è un modo che ci riesce difficile immaginare. E ancor più difficile riuscirebbe comprendere la questione del NIL, acronimo che sta per «Name, Image, Likeness» (Nome, Immagine, Somiglianza). Su questo acronimo si sta giocando un mutamento economico e culturale che va a ridisegnare l'equilibrio di potere fra gli atleti e le loro istituzioni di riferimento. Che sono un ibrido, perché al tempo stesso istituzioni formative e istituzioni sportive. Questa trasformazione dà il via libera a una precoce professionalizzazione che fin qui il mondo dello sport scolastico e universitario Usa aveva cercato di tenere fuori dalla porta. Con risultati discontinui e a costo di alimentare ampie contraddizioni e una patente ipocrisia. Da qui in avanti sarà necessario trovare un nuovo equilibrio. Per adesso non si può che registrare il tramonto del mito del dilettantismo, protetto come un totem dalla NCAA (National Collegiate Athletic Association) ma da qui in poi ridicolizzato dalla possibilità che gli atleti dei college e delle università possano lucrare sulla propria capacità di produrre immagine e comunicazione. Una svolta che per certi versi era persino necessaria, dato che fin qui il sistema dello sport scolastico-universitario ha ingrassato tutte le categorie di soggetti coinvolti tranne una, quella che maggiormente ne avrebbe diritto: gli atleti. Ma che per altri versi rischia di creare un nuovo Far West, oltre a scaraventare nel tritacarne soggetti troppo giovani per rendersi contro del circuito di interessi e appetiti in cui vanno a inserirsi.

 

Un altro mondo

Quello dello sport Usa è un mondo a parte. Lo è nella sua manifestazione di vertice, quella delle leghe d'élite, caratterizzate dall'iper-professionismo e dalla pressione delle leggi dello spettacolo. E lo è nella sua dimensione NCAA, che accende passioni impossibili da comprendere se si rimane ancorati dentro la mentalità sportiva europea. Si tratta di due dimensioni che si trovano agli antipodi, ma che egualmente forniscono la cifra di diversità dello sport statunitense. Le leghe professionistiche d'alta competizione sono un fenomeno unico al mondo, con qualche malriuscito tentativo d'imitazione. Si tratta di leghe chiuse, uno strano mix di capitalismo famelico e pianificazione centralizzata di stampo socialista. È composta non da club sportivi ma da franchigie, che sono licenze concesse a una compagine proprietaria e gestite con una logica di iper-sfruttamento commerciale. Ma quelle stesse leghe obbediscono a una guida centralizzata che detta direttive ferree quanto a salari per gli atleti, suddivisione dei diritti televisivi, distribuzione dei giovani atleti in occasione della cerimonia annuale del draft (i migliori vengono destinati alle franchigie che nella stagione precedente hanno ottenuto il piazzamento peggiore, con lo scopo di generare un riequilibrio della competizione). Fra i principali elementi di analisi delle leghe professionistiche nordamericane c'è il rapporto peculiare col territorio. Che ha una dinamica top-down. La franchigia non è come il club sportivo di matrice europea o sudamericana, cioè un'espressione del territorio e della sua comunità (dinamica bottom-up), ma piuttosto si ritrova allocata su un territorio per scelta della compagine proprietaria (dinamica top-down). Questa può decidere di spostare la franchigia da un territorio a un altro per scelte di esclusiva convenienza economica. Ciò dà luogo al frequente fenomeno di franchise relocation e disegna una mappa che fa dello sport professionistico Usa un fenomeno metropolitano. Le franchigie si concentrano nelle principali metropoli del Paese e circa metà degli stati federati ospitano nemmeno una franchigia delle quattro leghe professionistiche tradizionali dello sport nazionale (Major League Baseball, National Football League, National Hockey League e National Basket Association). Quello che così viene disegnato è un sistema sportivo elitario, fortemente sbilanciato e iniquo in termini di rappresentatività territoriale, oltreché naturalmente proiettato verso una dimensione globale e de-territorializzata. Questo impianto, che poi è quello a cui si sono ispirati i primi architetti della Superlega del calcio europeo, sarebbe molto difficile da accettare al di fuori del contesto sportivo e culturale nordamericano. Ma da quelle parti va bene così, anche perché c'è un altro pezzo del sistema sportivo nordamericano che bilancia tali eccessi.

Il pezzo in questione è proprio la NCAA. Che mette al centro quella radice territoriale e comunitaria spazzata via dalle leghe professionistiche. La vasta rete del sistema formativo è un'innervatura che presenta anch'essa i punti di eccellenza e i punti di debolezza, ma che ha il pregio di essere più rappresentativa del vasto territorio nazionale e delle comunità locali. Lo sport dei college e delle università si trasforma così nella rappresentazione del paese profondo, espressione di un modello sportivo nettamente distinto rispetto a quello delle leghe professionistiche. E gli indici di partecipazione e consenso che vengono generati testimoniano la capillarità di questa passione. Quale che sia la disciplina sportiva, le gare di NCAA sono un evento locale di ampio richiamo. Ma attraggono anche un rilevante seguito televisivo, calamitano sponsorizzazioni, alimentano un'economia di cui gli stessi istituti di formazione si giovano per incrementare le proprie finanze. Si tratta di cifre che, ancora una volta, da questa parte dell'Oceano sono inimmaginabili. Una tabella pubblicata dal quotidiano «Usa Today», in cui sono stati messi in fila i ricavi e i costi dell'anno 2022, relativi di ciascun «programma», come in termini tecnici viene etichettato il sistema sportivo approntato da ogni college o università. In cima alla graduatoria si è piazzato il programma di Ohio State, con 251,6 milioni di dollari di ricavi e 225,7 milioni di dollari di costi. E i dati totali relativi al 2023, riportati da Espn, parlano di ricavi complessivi per 1,3 miliardi di dollari.

 

Dilettanti solo loro

Queste cifre riferiscono di un movimento che ha un suo profilo industriale, messo a punto nel corso di oltre un secolo di storia per toccare livelli molto elevati di produttività. Ciò ha comportato la professionalizzazione di tutte le figure coinvolte. A partire da allenatori e dirigenti, che pur mantenendo un profilo anfibio fra sistema scolastico-universitario e sistema sportivo sono di fatto professionisti dello sport e guadagnano di conseguenza. Guardando ancora una volta i dati si scopre che il coach più pagato del sistema NCAA (Nick Saben, allenatore della squadra di football della University of Alabama) ha portato a casa nel 2023 oltre 11 milioni di dollari e che i cinque coach più pagati mettono insieme nello stesso anno oltre 53 milioni di dollari. Si tratta di cifre giustificate dal fatto che i successi del sistema sportivo scolastico vengono presentati come dimostrazione di efficienza del college o ateneo. E negli Usa l'offerta sportiva della singola istituzione educativa fa parte del pacchetto che ne rende competitiva l'offerta. Anche su questo si gioca la possibilità di attrarre nuove immatricolazioni, oltreché donazioni da fondazioni e sponsor. E va aggiunto che, a dispetto di ciò che i principi del sistema NCAA comanderebbero, le direzioni delle istituzioni educative operano regolarmente sul terreno dello scouting, cioè della selezione dei possibili talenti da reclutare per migliorare la competitività del proprio sistema formativo. Anche questo sarebbe proibito, ma tutti fanno e tutti sanno perché, in ultima analisi, le istituzioni formative agiscono su un mercato concorrenziale. Lo fanno con una mentalità da capitalismo maturo e famelico che dalle nostre parti è soltanto ai primi vagiti. Tutto nello sport NCAA è professionistico e capitalistico. Ma con un'eccezione, fino a poco meno di tre anni fa: gli atleti. Da loro si pretendeva che mantenessero uno stato da amatori, nonostante che fossero proprio le loro performance a generare il grande volume d'affari capitalistico. E nonostante molti di questi vengano reclutati grazie all'uso di convincenti leve strumentali (ai giovani per i quali si intravede un futuro sportivo di alto livello vengono promesse forti ricompense dirette o indirette, oltre a una certa tolleranza rispetto alla puntualità del percorso formativo), rimane invariato il diktat che essi mantengano uno status dilettantistico. Il paradosso sta tutto qui: in un sistema dello sport scolastico e universitario che si trova fortemente radicato nel big business, i soli cui si pretende di disconoscere il diritto a massimizzare economicamente le prestazioni sono proprio i protagonisti delle gare.

Ancora una volta è l'ipocrisia a strutturare questo feticismo dell'impegno amatoriale come virtù dello sport. E come sempre l'argomento usato per giustificare una posizione di così chiaro spessore politico è la necessità di salvaguardare un pezzo di sport dal rischio che i suoi ideali e i suoi valori etici vengano corrotti. Una rappresentazione ottocentesca del significato sociale dello sport, costruita appositamente per mantenerne alle attività dell'agonismo organizzato il rango di riserva di classe, di passatempo accessibile soltanto a soggetti affluenti in possesso di riserve sufficienti di tempo e denaro da dedicare a un'attività di puro svago. E invece il professionismo, anziché elemento corruttore, è stato la leva decisiva per consentire anche ai figli delle classi operaie la possibilità di sviluppare al massimo grado il talento per le prove fisico-agonistiche, oltreché il fattore che ha permesso di trasformare lo sport nel più grande fenomeno culturale di massa esistente. Ma nel caso degli atleti NCAA un altro elemento giunge a rafforzare la mozione per il dilettantismo. Riguarda il fatto che si parla ragazzi ancora immersi nella fase della formazione, e che dunque in termini formali non sono ancora entrati nel mondo del lavoro. Consentire loro di lucrare sull'attività agonistica, cioè di farne uno strumento venale, significherebbe riconoscere almeno in modo implicito uno status da professionisti. E li distoglierebbe in modo decisivo dallo status di studenti, che invece deve rimanere al centro del loro profilo da atleti NCAA. Per questo motivo dagli atleti dei college e delle università statunitensi si è arrivata a pretendere una «dichiarazione di dilettantismo» (amateurism certification), cioè che affermino di non intrattenere un accordo sportivo di natura professionistica con altri enti e che, soprattutto, non percepiscano somme in denaro a qualsiasi titolo per la loro attività sportiva. Si esigeva da loro che se ne stessero sigillati dentro una bolla di dilettantismo fuori dal tempo mentre intorno a loro il sistema e i suoi attori macina cifre da comparto industriale avanzato.

 

Il capitale immateriale

Il colpo mortale contro questa architettura dello sfruttamento è stato sferrato grazie a una sentenza della Corte Suprema Usa. La sentenza è denominata Alston v. NCAA e è stata pronunciata a luglio 2021. Oggetto della controversia giunta al più alto grado giurisdizionale statunitense è il diritto allo sfruttamento del capitale immateriale prodotto dagli atleti NCAA: nome, immagine e somiglianza.  Tutti attributi del soggetto sui quali l'organizzazione dello sport scolastico e universitario ha lucrato nel corso dei decenni attraverso la loro commercializzazione nelle forme più disparate: figurine, cartoline, prodotti multimediali, fino ai videogames. Nello sport Usa questo versante dello sfruttamento commerciale dello sport si è sviluppato molto prima che in Europa e ha toccato lo sport NCAA con la medesima dinamica che ha contraddistinto le leghe professionistiche. Ma con la differenza che i professionisti delle leghe beneficiano dei ricavi di questa commercializzazione mentre gli atleti NCAA dovevano esserne tenuti fuori. Contro questo sistema si è mosso Shawn Alston, ex running back della squadra di football di West Virginia University, dove ha giocato negli anni fra il 2009 e il 2012. La sua carriera nel football si è praticamente fermata lì, poiché il tentativo di fare il salto nel professionismo non ha avuto un seguito. Quella parentesi della vita personale gli ha lasciato dentro un forte risentimento a causa della precarietà economica che il ragazzo ha dovuto scontare in quel lasso di tempo. Stentava a mettere insieme il denaro per comprare di che mangiare e vestirsi, a causa di un regolamento NCAA che permette di fornire agli studenti-atleti soltanto agevolazioni sui servizi legati alla frequenza ma non forme di ricompensa pecuniaria. Nel 2017 Alston ha intrapreso il percorso legale contro NCAA, dandogli la formula della class action e ponendo la controversia sul terreno della regolamentazione antitrust. Quattro anni dopo la Corte Suprema gli ha dato ragione: impedendo ai suoi tesserati di sfruttare gli elementi NIL la NCAA viola le norme antitrust, oltre a configurare elementi di ingiustizia distributiva poiché esclude dai benefici della ricchezza coloro che la producono. Fine dell'ipocrisia. Ma dalla sentenza in poi si apre la strada a un altro ordine di problemi.

 

La giungla normativa (e gli speculatori in agguato)

Se la vecchia disciplina su NIL aveva un pregio, questo pregio stava nella regolazione della materia sul piano federale. Venuto meno ciò si è lasciato spazio alla molteplicità delle discipline statali. Che hanno normato la materia in modo diseguale e con altrettanto diseguale efficacia. Avevano cominciato a farlo prima che la Corte Suprema emettesse la sua sentenza. Dopo il pronunciamento del 2021 l'attività normativa degli stati ha preso un'accelerazione. Con l'effetto di produrre un quadro molto variegato, per non dire disomogeneo. Una così disordinata varietà rischia di produrre numerosi effetti negativi, fra i quali se ne può individuare due di portata principale. Il primo è che si crei uno squilibrio competitivo, nella capacità di attrarre i migliori giovani talenti, fra le istituzioni formative degli stati in cui vige una legislazione più vantaggiosa e quelle degli stati che sono stati meno generosi nel regolamentare la materia NIL. L'altro grande rischio è che si scateni un mercato degli intermediari, qualcosa di analogo a quanto avvenuto nel calcio europeo dopo il pronunciamento della Sentenza Bosman (15 dicembre 1995). Allora la necessità che i calciatori professionisti gestissero da sé la carriera aprì un vasto terreno di caccia agli agenti. Questo meccanismo potrebbe innescarsi con impatto elevato a «n» nello sport scolastico e universitario Usa. E a esserne impattati sarebbero soggetti giovanissimi, che non hanno ancora avuto il tempo di socializzarsi alle malizie del mercato e del suo sottobosco. Ancora una volta, la dinamica è quella: concedere nuovi diritti significa anche esporre a rischi di tipo nuovo, specie se quei nuovi diritti mettono in diretta connessione col mercato. È un'amara verità che rischia di fare nuove vittime.


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Pippo Russo (Agrigento, 1965) è ricercatore di Sociologia dell’ambiente e del territorio presso il Dipartimento di Scienze politiche e sociali dell’Università di Firenze. Giornalista e saggista, ha dedicato diversi studi all’analisi sociologica dello sport. Ha pubblicato quattro romanzi, fra i quali la duologia dedicata a Nedo Ludi.

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