Il tema del conflitto generazionale riappare di continuo nella vita pubblica italiana; più in generale, la «questione giovanile» è sempre presente nel pensiero occidentale, dall’antichità ad oggi. Nella società industriale, a differenza di quanto succede nella nostra epoca, l'età dell'essere umano risultava tripartita. Giovane, adulto, anziano corrispondevano, grosso modo, a tre fasi distinte della vita quotidiana definite dal rapporto con il lavoro socialmente necessario: formazione al lavoro, erogazione di lavoro, fuoriuscita dal lavoro. E così l’esperienza del vissuto conferiva agli anziani un peso maggiore di quanto, invece, spetta loro oggi, quando il sapere tecnico, specializzato posseduto è divenuto obsoleto per via dello sviluppo esponenziale dell'innovazione tecno-scientifica.
La questione che si pone è: «come è possibile, trasferire nel senso comune le acquisizioni del pensiero scientifico, in modo da rendere avvertibile sentimentalmente ciò che risulta dalla fatica gelida della ragione? Come è possibile questo versamento in una società dove la divisione tra lavoro manuale ed intellettuale, l'estrema frantumazione del sapere frustrano il bisogno di capire, di ricondurre ad unità il mondo ed incentivano l'idiozia specializzata?». Uno straordinario articolo di Franco Piperno, scritto nel 2013 e che recuperiamo per l’attualità delle questioni che pone.
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Nella vita pubblica italiana è riapparso, dapprima in forma discreta per poi farsi decisamente invadente, il vecchio tema del conflitto generazionale, quello tra giovani e anziani, ovvero tra il nuovo che avanza ed il vecchio che rifiuta d'andar via.
A ben vedere, niente è più vecchio del nuovo; nella nostra società il nuovo non si oppone alla tradizione piuttosto è la nostra tradizione, quella moderna appunto. Tutti o quasi proclamano l'insostenibilità del presente e si abbandonano, speranzosi o timorosi poco importa, al futuro; tutti o quasi vogliono cambiare fino al punto che i conservatori stessi, non ultimo il cavaliere Berlusconi, si propongono come rivoluzionari; una sorta di illusione cognitiva popolare si è sedimentata nel senso comune, un pregiudizio metafisico secondo il quale esiste una superiorità, dirò così, ontologica del nuovo sul vecchio.
Si noti che non si tratta qui di quei comportamenti «siciliani», quelli che nella lingua letteraria noi italiani chiamiamo «gattopardeschi» - manifestare la volontà di cambiare tutto per non cambiare niente. Piuttosto, siamo in presenza di una costellazione di concetti ben più potente che l'ipocrisia astuta delle antiche classi dominanti siciliane; concetti in relazione simultanea l'uno all'altro, come appunto lo sono le stelle che definiscono una costellazione. In altri termini, dietro l'ideologia del cambiamento, questa pulsione, popolare quanto psicotica, di cambiare tutto sempre, si celano i pregiudizi dei moderni, la mentalità moderna, la tradizione moderna che persegue «il nuovo per il nuovo» - in sotterranea sincronia con un gigantesco dispositivo produttivo costretto, dalla sua propria irrazionalità, a tentare, senza mai riuscirvi, di superare i suoi limiti, di creare di continuo il nuovo, nuovi mercati, nuove ricerche, nuove merci, di cui nessuno aveva avvertito prima il bisogno. Disagio mentale, accidia, vanità dell'esperienza vissuta, perdita del rapporto con il corpo e quindi con la natura, angoscia della morte sono i nomi di quei concetti lievitati, con la modernità, a sentimenti comuni.
Sul tema del conflitto generazionale, i ruoli dei giovani e degli anziani, la letteratura abbonda.
Non è difficile, a tal proposito, trovare trattazioni ed inchieste a partire dai poemi omerici.
Una raccolta di saggi dal titolo esplicito - Letteratura e conflitti generazionali a cura di D. Susanetti e N.Distilo, Carocci editore - esce in queste settimane in libreria e costituisce una occasione per affrontare lo studio di questo tema da parte di coloro, i giovani in primo luogo, che militano nelle insorgenze.
I ventidue saggi nei quali si articola il libro ricostruiscono i corsi ed i ricorsi del pensiero occidentale sulla, dirò così, questione giovanile.
All'inizio, nella tragedia greca, la contrapposizione tra vecchi e giovani appare nei termini primitivi, arcaici e perciò stesso più agevolmente interiorizzabili, del parricidio, la ribellione del figlio al padre.
Il padre, vecchio per antonomasia, non sempre è circondato dal rispetto dei figli; perché anche nell'antichità, quando i vecchi sono ancora pochi, vi sono tra di loro quelli che petulano, rimbambiscono e affliggono la vita degli altri; i vecchi inutili perché incapaci di ricondurre ad unità il tempo che pure hanno vissuto, di raccontarlo agli altri; con una constatazione non priva d'inquietudine, dobbiamo riconoscere che esiste, fin da un tempo immemorabile, una senilità alienata, mutilata dell'esperienza - «una inutile vecchiezza non è migliore di una sprovveduta giovinezza», per dirla con Isaac Babel dei Racconti di Odessa.
Nella nostra epoca, in Occidente, questi ruoli sono mutati rispetto alle società tradizionali. Il fenomeno più rilevante è l'accrescimento percentuale del numero degli anziani rispetto quello dei giovani, qualunque sia il criterio, purché ragionevole, col quale si definiscono le due categorie. Nelle proiezioni demografiche a venti anni il fenomeno è destinato ad un significativo incremento, indipendentemente dall'accrescimento, più o meno rilevante, della popolazione.
Il mutamento anagrafico sottende un sommovimento della temporalità, del sentimento del tempo, del tempo vissuto; nella società industriale del secolo scorso, l'età dell'essere umano risultava tripartita: giovane, adulto, anziano corrispondevano, grosso modo, a tre fasi distinte della vita quotidiana definite dal rapporto con il lavoro socialmente necessario: formazione al lavoro, erogazione di lavoro, fuoriuscita dal lavoro.Oggi, non è più così; ci si può ritrovare a doversi formare a sessant'anni o a godere, diciamo così, di una qualche forma di striminzita e provvisoria pensione a vent'anni. La durata della vita certamente si allunga, nel senso che la vecchiaia si dilata e per trascinamento procura una sorta di giovinezza virtuale; sicché a settanta anni si è un anziano ancor giovane mentre a venti ci si considera un giovane ancora ragazzo.
Inoltre, l'aumento percentuale del numero degli anziani fa perdere al vecchio quel che di singolare porta con se: l'aver molto vissuto, essere gravido d'esperienza. Insomma, i vecchi ormai tendono a sopravanzare numericamente i giovani, non sono rari come accadeva una volta; e ancora, il sapere tecnico, specializzato, che possiedono, era di già divenuto obsoleto prima ancora di fuoriuscire dal lavoro, per via dello sviluppo esponenziale dell'innovazione tecno-scientifica; mentre l'esperienza che hanno accumulato, nel bene e nel male, è del tutto superflua in un mondo dominato dagli esperimenti, dagli algoritmi e dalle verità statistiche della tecno-scienza. Valga un esempio per tutti: un ragazzo della scuola primaria, magari non sa scrivere ma digita sul computer assai meglio di quanto sappia fare, in generale almeno, la sua anziana maestra.
Il libro di Jean Améry Rivolta e rassegnazione - uscito in tedesco nel ‘68, ristampato da Bollati Boringhieri, in libreria da qualche mese -affronta a suo modo il conflitto generazionale, dal punto di vista di chi registra con precisione minuta quel progressivo, sordo, inevitabile decadere, incepparsi, andare in rovina del proprio e dell'altrui corpo, un malessere senza pausa generato dal caos che si espande dal corpo al mondo e viceversa.
Un titolo più appropriato al libro sarebbe stato Sulla alternativa tra crescere e andare in rovina.
Come è noto, Améry ha militato nella resistenza contro i tedeschi nel Belgio occupato; catturato dai nazisti, deportato ad Auschwitz, è uno dei non molti filosofi che abbia avuto occasione di familiarizzarsi con la fabbrica della morte, con il morire su scala industriale, con lo sterminio - e, quel che più conta, uno dei pochi intellettuali che sia sopravvissuto per caso a questa estrema esperienza, interiorizzandola nella scrittura.
Per dirla brutalmente, il libro è costruito attorno alla insensatezza del divenire vecchio: la riduzione inesorabile delle potenzialità del corpo, l'accresciuta fatica di vivere non aprono una fase nuova, anche se ultima, della vita umana: la saggezza esperienziale, la nobiltà della rassegnazione. No, questo ciarpame consolatorio non è consentito ad un intellettuale sopravvissuto ad Auschwitz, a chi ha visto la vecchiezza nel suo stato d'inutilità assoluta, nella paradossale trasparenza del Lager. Invecchiare è solo annunciare ed annunciarsi la morte, il vuoto, il nulla, la fine di ogni senso. I malanni senili sono solo richiami che ci ricordano l'arrivo più o meno imminente della morte: l'attesa della morte è questo morire ogni giorno chiamato invecchiare.
Ascoltiamo le parole del filosofo: vivere col morire non comporta venire a capo, comprendere la propria finitezza; tutta la nostra vita sociale ruota attorno all'assurdo sforzo di evitare l'inevitabile: quanto più invecchiando moriamo, quanto più ci avviciniamo all'ultimo respiro, tanto maggiore è la disperazione con cui lottiamo contro una cosa alla quale dovremmo ragionevolmente rassegnarci. Ragionevolmente? Ci muoviamo in una sfera dove ogni ragionevolezza ha fine poiché si ha a che fare con la morte, l'anti ragione assoluta. Rassegnarsi vuol dire accettare la morte e questo comporta, conseguente ed immediato, il rifiuto della vita, il suicidio. Entrambe le ipotesi, conclude il filosofo, sono impraticabili.
Améry, conviene ripeterlo, è un sopravvissuto al Lager, alla verità paradossale del Lager. La sua scrittura, dove ciò che «non è straziante è superfluo», registra i dolori del corpo che invecchia quasi fossero scricchiolii di una macchina usata, troppo usata. Nessuna pietà, anzi, qualche volta, un compiacimento ostentato per questo andare in rovina.Il filosofo-deportato sfata puntigliosamente, come osserva Claudio Magris nella prefazione al volume, tutte le pretese filosofiche di dar senso alla morte, dimostrando con il ragionamento la natura irragionevole della morte, addirittura impensabile: l'insensato di cui nulla si può dire.
Améry compie il viaggio introspettivo nel corpo che si sfabbrica attrezzato di quella stessa sentimentalità che sottendeva il Lager, avendo in qualche misura individualizzato il nichilismo implicito nel regolare funzionamento del campo di sterminio; ma questo dispositivo nazista aveva un suo raccapricciante aspetto emancipatore -la razza ariana, la terra, il sangue- laddove il nichilismo del filosofo è solitario, singolare e perciò stesso estenuato. Malgrado che ormai con l'invecchiare il senso del mondo si sia dileguato, il sopravvissuto continua a persistere con ostinata inerzia in quelle stesse abitudini che hanno perso ogni fondamento razionale --senza per altro attribuire alcun merito a questa condotta, ad imitazione degli antichi stoici.
La morte, o meglio l'angoscia della morte, questa paura senza oggetto, lo scandalo della fine, la sua insensatezza crudele è un tema antico che Améry riprende apportandovi l'esperienza estrema del Lager.
Va da sé che vi sono modi e modi di concepire la morte, non tutti così cupi. Vi sono comunità dove la gestione collettiva del lutto si svolge tramite una festa che celebra nella morte il compimento di una vita: pianto e riso si convertono l'uno nell'altro, indistinguibili, come nel canto carnascialesco.
Vediamo ora come, pur restando in contatto col senso comune ma ponendosi al di là delle fedi religiose - use a consolare la perdita promettendo una riparazione nel futuro, nell'altrove assoluto - viene, nella comunità scientifica, riformulato razionalmente il fenomeno del morire.
Conviene avvertire, per evitare di cadere nello scientismo sprovveduto: qui, per noi, il pensiero scientifico non è considerato il paradigma della verità, la ricostruzione veritiera del mondo tramite i concetti delle scienze della natura. Piuttosto qui, per noi, lo sforzo del pensiero scientifico, il suo incessante procedere per accumulazione d'informazioni, viene indicato come esempio da imitare non per la sua presunta verità, non per quel suo svelare come è fatto davvero il mondo; ma per gli effetti, la facoltà che possiede di costruire concetti volti ad accrescere la comune nostra intelligenza del mondo - concetti di grande potenza semantica, concetti che, a volte, fanno nido, possono far nido, nel senso comune; e divenire emozioni, sentimenti.
Portando pazienza come si fa a Napoli, chiediamoci: perché noi cresciamo e poi moriamo?
Di primo acchito, anche senza ricorrere alle parole della biofisica, la risposta sembra ovvia: tutto si disfà attorno a noi, il disordine cresce spontaneamente; bisogna spazzar via la polvere giorno dopo giorno; la macchina ogni anno abbisogna di maggiori riparazioni; le buche sulle strade aumentano; la casa richiede una continua manutenzione-- il libro cade sul pavimento dallo scaffale dove lo avevamo riposto, mentre un libro che spontaneamente ritorni al suo posto balzando dal pavimento allo scaffale non s'è mai visto a memoria d'uomo.
Ogni cosa è soggetta all'irresistibile degradazione dell'ordine imposta dalla termodinamica, dal secondo principio della termodinamica:
in un sistema isolato, con lo scorrere del tempo, il disordine non diminuisce mai, anzi d'ordinario spontaneamente aumenta. Secondo questo principio, tra i più verificati sperimentalmente, noi invecchiamo e moriamo così come avviene per tutti gli esseri viventi, per tutte le cose nell'universo.
E tuttavia, ci sono delle cose, delle forme di vita che non muoiono, che permangono sulla scala dei milioni di anni; per esempio, le specie biologicamente intese; e tra esse, la specie alla quale apparteniamo, la specie umana.
La specie si nutre dell'ordine creato dalle piante che sintetizzano la luce del Sole, tramite la fotosintesi; ed evolve verso forme di vita via via più complesse, d'ordine superiore.
Ma, si chiede il senso comune, perché l'individuo non profitta della abbondanza assicurata dalla fotosintesi, abbondanza dentro la quale vive con un certo agio da milioni di anni la specie? In realtà, l'individuo profitta lui pure di quella abbondanza, ma solo per un corto lasso di tempo, troppo corto forse.
Nutrendoci dell'ordine che secernono le piante, noi manteniamo, dirò così, l'ordine funzionale del corpo. Attraverso la fotosintesi la pianta costruisce il glucosio; il bue lo mangia e usa l'ordine del glucosio per fabbricare una proteina bovina; noi, infine, quando mangiamo la proteina bovina ne rubiamo l'ordine per dar forma alla proteina umana. Gli scarti alimentari di questo processo sono espulsi dal corpo in uno stato, giustamente, degradato, dove l'escremento ha perduto l'ordine iniziale dal quale era partito.
Ma allora, si chiede ancora il senso comune, perché non consumare abbastanza ordine per vivere indefinitamente, per garantire al nostro corpo il suo ordine se non per sempre almeno per un tempo più lungo, per secoli piuttosto che anni?
Non v'è niente, nelle leggi che reggono i fenomeni termodinamici, che richieda la morte, la morte dell'individuo, la nostra morte.Ma a ben vedere, c'è una forma di vita, più complessa del corpo, di immane potenza, che lucra, che trae vantaggio dalla morte dell'individuo per assicurarsi un indefinito persistere nel tempo. Questa forma di vita è la specie; per essa, ogni morte d'individuo non è che l'espulsione di un escremento.
Infatti, una volta che l'individuo si è riprodotto un certo numero di volte, dando vita ad una progenie che può essere più complessa, in uno stato d'ordine superiore; una volta che questo sia accaduto, la specie trae maggior vantaggio evolutivo dalla procreazione della progenie piuttosto che dall'ulteriore procreazione del genitore che già si è riprodotto-- dunque il genitore deve morire; non già solo per accidente ma essenzialmente, per vecchiaia, per destino biologico.
Qui è all'opera non la legge termodinamica, quella del disordine spontaneamente crescente, ma la legge d'evoluzione biologica, il principio secondo il quale l'informazione, spontaneamente, non diminuisce col tempo, anzi d'ordinario aumenta.
La pressione evolutiva ha determinato la durata limitata della vita individuale, così come ha forgiato il fegato, sviluppato l'occhio, inventato la riproduzione sessuata, e tutti quegli altri elementi vitali per l'auto perfezionamento della specie.
Il dispositivo biologico specifico che assicura la durata limitata dell'individuo non è, per la verità, ancora noto; potrebbe ritrovarsi ficcato dentro le molecole DNA o magari rivelarsi un banale processo degenerativo per porre rimedio al quale non v'è stata alcuna pressione evolutiva; e questo con ragione, poiché un rimedio alla morte dell'individuo si rivelerebbe letale per la specie.
Va da sé che l'umanità non ha atteso Darwin per elaborare quel sentimento dell'invecchiare, del non essere più giovane, della perdita insomma, che mitigasse, se non estinguesse, l'angoscia della morte.
Abbiamo già ricordato l'esistenza di culture dove il lutto viene gestito collettivamente come una festa dionisiaca, durante la quale il tempo è sospeso, non v'è più né prima né dopo.
Nel corso della storia dell'Occidente, i filosofi hanno trattato spesso la morte come un bene comune, comune alla specie, una sorella di tutti noi insomma. Talete, Epicuro, Lucrezio, Cicerone, Francesco d'Assisi, Dante, Montaigne ne sono degli esempi tra i più noti. Ma anche nella letteratura contemporanea si incontrano autori che sormontano, per così dire, il disagio dell'incivilimento, il giovanilismo vanesio, l'attesa spasmodica del nuovo, l'estraneità dalla vita e quindi dalla natura-- trovando nella scrittura stessa un modo di riconciliarsi con la senilità e la morte.
Scrive il poeta: morte non mi ghermire, ma da lontano annunciati, e da amica mi prendi, come l'estrema delle mie abitudini.
Claudio Magris, nella presentazione al libro di Améry già citata, osserva come l'ultimo Svevo, quello ormai anziano, tratti la senilità quasi fosse una fase la più vitale della vita individuale. Svevo dichiara sentenziando: la vita del vecchio è veramente selvaggia; e lo è, annota Magris, perché "priva la vita di ciò che essa mai ebbe o possa avere, la priva del futuro". Smessa l'attesa senza fine, la senilità si immerge nell'eterno presente, allo stesso modo di quanto accade al lupo, o in genere all'animale selvatico, per tutta la vita.
La vecchiaia è, può essere, «ozio svuotato di doveri, libertà dall'obbligo di auto illudersi, di credere alle proprie bugie, di attestare a se stessi e agli altri la propria accidentale capacità, il proprio effimero valore». La vecchiaia è quel tempo vissuto scadenzato dal bisogno di pausa, di riposo; bisogno tanto più docile e delizioso quanto più esente dalla stanchezza e dal rimpianto.
Riprendiamo il filo del nostro ragionamento e poniamoci una questione di strategia bio-politica. Come è possibile, trasferire nel senso comune le acquisizioni del pensiero scientifico, in modo da rendere avvertibile sentimentalmente ciò che risulta dalla fatica gelida della ragione? Come è possibile questo versamento in una società dove la divisione tra lavoro manuale ed intellettuale, l'estrema frantumazione del sapere frustrano il bisogno di capire, di ricondurre ad unità il mondo ed incentivano l'idiozia specializzata?
Come, nel nostro caso, individualizzare nella coscienza umana --in quella dei giovani insorgenti in primo luogo - il principio biologico dell'evoluzione?
Occorre qui sottolineare la rilevanza della questione, uterinamente connessa alla possibilità «ora e qui» di far emergere in noi quel che potenzialmente ci vive da tempo dentro: «l'individuo sociale», l'individuo dalla «coscienza enorme», all'altezza della specie.Val la pena, a questo proposito, ricordare, per inciso, che in Marx, al contrario di quel che crede la vulgata marxista, l'individuo non è figura virtuale generata dalla falsa coscienza; piuttosto, nella sua forma d'individuo sociale, è il punto d'approdo della prassi comunista, la sua realizzazione: dove mezzo e fine si confondono convertendosi l'uno nell'altro.
Abbiamo già notato come sia l'arte, il romanzo, la poesia, la musica il veicolo più potente per giungere al senso comune. Per esempio: il sistema del mondo tolemaico è divenuto nell'Italia medievale una concezione comune tramite la Divina Commedia.
Va da se che non possiamo limitarci ad aspettare che ricompaia un Dante nel nostro rassegnato orizzonte. Converrà quindi, nell'attesa, pensare a canali di interiorizzazione del principio di evoluzione dai risultati certo più modesti ma più agevoli da costruire.Per esempio, potremmo operare attraverso i riti collettivi, i funerali in primo luogo. Potremmo costruire una rete di cooperative che organizzano funerali alternativi, a prezzi popolari e di massa - riti dove la morte viene festeggiata per la potenza che essa assicura alla vita.Forse, messa su una piccola impresa di pompe funebri, potremmo compilare quella serie di moduli senza fine per richiedere i finanziamenti europei destinati alle imprese che nascono, alle «start-up» dionisiache...
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Franco Piperno ha insegnato Fisica presso numerose università italiane e alcune delle più prestigiose università del mondo e Struttura della materia e Astronomia visiva all'Università della Calabria. È stato protagonista presso il Comune di Cosenza dell'ideazione e creazione del nuovo planetario. È altresì noto per la sua partecipazione alle vicende politiche degli anni Settanta in Italia. Cura per Machina la sezione «sestanti».
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