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Per la critica dell'economia politica dell'Università



Per una critica dell'economia politica dell'Università

È di recente uscito il libro di Krystian Szadkowski Capital in Higher Education. A Critique of the Political Economy of the Sector (Palgrave Macmillan, 2023). Si tratta di un testo di grande importanza per le riflessioni sulle trasformazioni dell’università e dell’istruzione superiore, in intima relazione con i mutamenti delle forme di produzione e di accumulazione del capitale. Partendo dalla tensione tra autonomia del sapere vivo e il tentativo capitalistico di catturarla, misurarla e metterla a valore, Elia Alberici offre una lettura del libro che ne evidenzia la decisiva rilevanza politica.

 

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Il testo di Krystian Szadkowski, Capital in Higher Education. A Critique of the Political Economy of the Sector (Palgrave Macmillan, 2023) è un’epica che narra lo scontro tra l’autonomia del sapere vivo e il continuo tentativo del capitale, di catturarla, misurarla e valorizzarla. Ma attenzione, il lettore non si aspetti l’eterno ritorno delle teorie sul capitalismo cognitivo degli anni Zero: il libro rilancia l’analisi in avanti elaborando con successo, come recita il sottotitolo, una vera e propria critica dell’economia politica dell’istruzione superiore.

Procediamo per punti nell’analisi del complesso e importante testo di Szadkowski, certamente destinato a porsi come punto di riferimento per chiunque voglia comprendere i meccanismi dell’accumulazione capitalistica nella formazione superiore al fine di sovvertirli. A nostro avviso, un punto centrale del testo – che lascia ben poco spazio a possibili obiezioni – riguarda la discussione sul perché l’università non possa essere paragonata a una fabbrica fordista e taylorista. Tale questione è gravida di conseguenze teoriche e politiche. Szadkowski ricostruisce la storia dei tentativi falliti di misurare il lavoro accademico nei termini tayloristici dell’output prodotto, a partire dai primi esperimenti novecenteschi americani e sovietici volti scoprire la legge scientifica della produzione di idee. Stato e capitale stessi riconoscono l’impossibilità di governare la ricerca attraverso il binomio taylorista tempo di lavoro e produttività. Si affermano, così, a partire dalla seconda metà degli anni Settanta gli indici bibliometrici, tra cui il JIF (Journal Impact Factor) per valutare e misurare il lavoro accademico, essenzialmente attraverso il conteggio della ricorrenza delle citazioni negli articoli scientifici. In questo modo, entrano in gioco una serie di fattori e di «apparati di misurazione», in primis, quelli organizzati dagli Stati nazionali (lo stato valutativo) tentano di valorizzare e misurare il lavoro accademico, attraverso i meccanismi di competizione per i fondi ma, anche, due facce della stessa medaglia, per il riconoscimento del prestigio.

Questi fattori agiscono sincronicamente assieme ai ranking globali delle università e ai meccanismi oligopolistici degli editori accademici, che impongono, con una logica simile a quella del capitale mercantile, le condizioni del sistema di pubblicazione dei risultati scientifici. Un ristrettissimo numero di case editrici accademiche controlla l’intero mercato delle pubblicazioni mondiali imponendo i più complessi e multiformi requisiti e parametri (Elsevier, Springer Nature e Taylor & Francis). L’autore assume la categoria di capitale mercantile poiché questi attori non organizzano direttamente la produzione. Infatti, potrebbe sembrare una puntualizzazione banale, tuttavia, bisogna tenere in mente come non siano questi capitalisti a mettere a lavoro ricercatori e ricercatrici nella pubblicazione degli articoli scientifici. Su un piano fenomenico questi lavoratori appaiono come dipendenti di strutture più o meno pubbliche universitarie (nel nord del mondo – puntualizza Szadkowski – nel sud, invece, la privatizzazione della formazione superiore è pienamente realizzata), tuttavia, con uno sguardo sistemico, si coglie come queste istituzioni pubbliche siano definitivamente poste nella trama dell’economia politica dell’istruzione superiore. In questo senso, lo sforzo teorico-politico dell’autore è ricostruire la complessa traccia della valorizzazione capitalistica nella formazione superiore: per fare ciò una griglia lettura eccessivamente rigida nell’uso delle categorie marxiane risulterebbe controproducente.

Szadkowski, senza perdere di rigore metodologico e analitico, ricostruisce queste complesse dinamiche, in cui viene riconosciuto un ruolo a fattori diversificati, tra cui quello del prestigio. Infatti, se la vulgata vorrebbe legare questo fattore alla competizione nazionale e internazionale, dunque, a meccanismi di potere apparentemente slegati dall’economia politica, l’autore dimostra come prestigio e performance vengano ricongiunti nelle dinamiche di valutazione e di misurazione. Gli allievi del sociologo Robert K. Merton (Jonathan e Stephen Cole), che possono essere considerati ideologi degli indici bibliometrici (Science Citation Index), istituiscono un legame diretto tra numero di citazioni, originalità intellettuale e prestigio. Vi possono essere numerosi argomenti volti a smascherare l’ideologia contenuti in queste riflessioni, tuttavia, all’autore preme mostrare come questi meccanismi, in ultima analisi, riducano l’eterogenea ricchezza sociale in una forma omogenea e quantitativa. Si tratta di una vera e propria economia del prestigio, adottata strategicamente in concerto dall’oligopolio editoriale, che, a sua volta, fa eco nelle gerarchie e negli indici nazionali e globali. In questo senso, si tratta di meccanismi che sono più vicini alla cattura del valore, rispetto alla sua organizzazione e produzione diretta (taylorismo), o, più precisamente, volti a misurare ed estrarre il valore socialmente generato. Infatti, il capitale si infiltra nella logica del riconoscimento accademico, attraverso i sistemi di controllo e disciplinamento della performance, perfino in assenza di proprietà privata.

Il tema della proprietà privata della conoscenza occupa una parte centrale del testo. Szadkowski argomenta efficacemente come l’approccio open source alla conoscenza scientifica costituisca una linea di sviluppo pienamente riassorbita nell’innovazione capitalistica, in altri termini, una forma di comunismo del capitale. I profitti generati da questa forma di accumulazione di conoscenza apparentemente libera, poiché i risultati della ricerca non vengono formalmente trasferiti al capitale – per inciso, la tassa conosciuta come APC (Article Process Charge) solitamente richiesta dalle riviste open source risulta semplicemente esternalizzata all’istituzione statale a cui il lavoratore della conoscenza è affiliato. Tuttavia, il capitale continua indisturbato a controllare il flusso delle pubblicazioni e a misurarne la performance, inserendosi nei processi che validano la produzione di conoscenza, dove il crescente ruolo dei dati, dell’intelligenza artificiale e della logica del capitalismo delle piattaforme possiedono un ruolo fondamentale. In questo senso, l’open source è pienamente integrato in questa trama della valorizzazione, conclude efficacemente Szadkowski.

Se queste approssimative riflessioni pennellano il campo in cui si articola il testo, il suo fil rouge è rappresentato dall’analisi dei segreti laboratori della produzione del valore accademico. Szadkowski, allora, si deve misurare con la querelle marxiana e marxista sulla produttività lavoro intellettuale. Nuovamente, una lettura non economicista che rifiuta di stare alle regole poste da chi vorrebbe ridurre lo sfruttamento alla misurazione del plusvalore si rivela assolutamente proficua. L’autore dimostra che i meccanismi di misurazione e di controllo delle istituzioni accademiche vanno considerate alla luce dell’economia politica della formazione superiore. Ancora una volta, allora, il capitale non organizza direttamente la produzione nelle singole istituzioni ma pone le regole del gioco per il funzionamento del sistema. In questo senso, il capitale «media attraverso tutte le attività calcolative e comunicative che stimano il valore del lavoro accademico e, infine, le esprime in una misura vuota, astratta e omogenea che permette al capitale di quantificare ciò che esso stesso considera valore» (p. 237). Questi processi agiscono nelle istituzioni pubbliche così come in quelle private, dentro le organizzazioni che affermano di perseguire il bene comune così come quelle orientate dal prestigio. Insomma, senza uno sguardo sistemico al settore della formazione superiore, come recita il sottotitolo del testo, sarebbe impossibile cogliere il funzionamento sincronico di queste dinamiche (classifiche nazionali e globali, indici bibliometrici, editoria accademica).

Attraverso queste riflessioni viene definitivamente proferita l’ultima parola su una visione eccezionalista della formazione superiore. Questo termine, proposto dall’autore stesso, connota quella visione che ritiene che le università e le istituzioni accademiche siano, per natura, radicalmente diverse dalle organizzazioni classicamente for profit, le aziende. Questo punto di vista assume aprioristicamente che la formazione superiore produca conoscenza per il bene comune, deducendo poi linearmente che le università non saranno mai contaminate dalle logiche del profitto tipicamente aziendali. Si tratta, potremmo aggiungere, di una visione fortemente idealistica della conoscenza e della formazione, che, per certi versi, gli attribuisce una connotazione necessariamente e innocuamente (!) emancipativa. In altri termini, questo punto di vista ritiene che, sempre e comunque, formazione e industria siano (o debbano essere) disgiunte. Nella penisola si potrebbe fare riferimento alle ideologie di sinistra sempre pronte a difendere la «cosa pubblica» e, quindi, perennemente indignate dalle intromissioni delle aziende nella formazione, sancendo definitivamente, così, la minima possibilità di comprendere come essa stessa operi come un’azienda. Szadkowski, riferendosi al punto di vista di alcuni ideologi delle grandi università angloamericane, si sofferma sull’altra faccia della medaglia di questa ideologia: negare l’incompatibilità tra profitto e formazione autorizza le università a impegnarsi in qualunque attività commerciale senza perdere la possibilità di avanzare una retorica imperniata sui valori accademici e sul prestigio della torre d’avorio. Insomma, sapere e formazione sono merci al pari di tutte le altre: questo testo è in grado di svelare e criticare i laboratori globali della loro produzione e circolazione.

Arrivati a questa altezza di questo breve scritto, vale la pena riflettere sulle coordinate teorico-politiche del testo di Szadkowski. Come già accennato, esse si articolano all’interno delle riflessioni sul capitalismo cognitivo soprattutto italiane e francesi, sviluppatesi tra il 2000 e il 2010. Nell’attraversare criticamente questo laboratorio teorico e pratico, l’autore finisce per offrirne un vero e proprio bilancio alla luce dell’attuale congiuntura. Nella complessa e lunga analisi relativa all’imposizione della misura nel lavoro accademico, Szadkowski prende in considerazione la tesi di fondo di questa stagione teorica: l’imposizione della legge del valore avviene sempre in modo posticcio e parassitario rispetto cooperazione del general intellect, che è già intrinsecamente e necessariamente autonoma rispetto ai rapporti di produzione. Le teorie del capitalismo cognitivo, continua l’autore, mettono correttamente in luce l’intrinseca sfuggevolezza della conoscenza e della formazione dalla legge del valore: tuttavia, si tratta di un processo di innovazione certamente aperto e in divenire all’inizio del millennio (quando quelle teorie venivano elaborate), mentre, oggi, completamente concluso e sussunto dal capitale. Il testo di Szadkowski, allora, può essere considerato proprio come la descrizione della misura astratta imposta dal capitale al sapere vivo nelle industrie della formazione superiore. Ma, si badi bene, non si tratta, come emerge dal volume stesso, di tifare tra l’irriducibile autonomia del sapere vivo o la legge del valore. L’autonomia del sapere vivo non è consegnata dallo sviluppo capitalistico stesso, al contrario, è la posta in palio dei processi di lotta e di organizzazione. Non si tratta, dunque, di sottovalutare o sopravvalutare i processi di accumulazione capitalistica, ma – ed è il quadro che ci offre Szadkowski – di descriverli e studiarli nella loro materialità, al fine di comprenderli per sovvertirli.

Giunti al termine del volume, l’autore avanza la proposta dei commons quale forma di organizzazione della produzione di conoscenza e della formazione oltre il capitale. Szadkowski è certamente consapevole che ciò si può dare esclusivamente quale esito di un processo di lotta che apra una possibilità materiale della demercificazione del sapere. In altri termini, un movimento reale che abolisca gli apparati capitalistici di controllo, misurazione e cattura della potenza creativa del general intellect. Insomma, la produzione di un sapere e di una formazione che arricchiscano gli individui, contro il capitale che, al contrario, ne depreda l’intelligenza e le facoltà.

A questo proposito vale la pena concludere con un’ulteriore riflessione. Il lettore de Il Capitale di Marx potrebbe restare intrappolato nell’acuta descrizione dei meccanismi oggettivi ed economici di accumulazione capitalistica che, apparentemente privi di linee di fuga, dipingono il quadro di un sistema come processo senza soggetto, destinato all’eterna autoriproduzione. Allo stesso modo, anche al lettore di Capital in Higher Education che – lo ripetiamo – fonda, marxianamente, una critica dell’economia politica, viene richiesto di integrare questo testo nella dinamica di una specifica congiuntura storico-politica, per scongiurare quello stesso circolo vizioso. In altri termini, chi vuole sovvertire le università deve necessariamente imperniare la critica dell’economia politica della formazione superiore sul punto di vista di soggettività specifiche e storicamente determinate; in breve, deve fare inchiesta. Szadkowski ha rivelato i punti del sistema in cui il capitale è più debole, a questo punto, solo l’inchiesta e la conricerca possono davvero mostrare dove la classe operaia è più forte e più organizzata.

Questa riflessione ci consente di commentare brevemente un limite del volume. Si tratta, a nostro avviso, di un limite politico più che teorico e, lo abbiamo già ripetuto numerose volte, i punti di forza del testo eccedono di gran lunga quelli di debolezza. Tale limite riguarda il ruolo di studenti e studentesse nel sistema esposto nel volume. Infatti, quest’ultimi non contribuiscono in modo rilevante alla produzione di conoscenza nell’economia della formazione superiore, dunque, rivestono un ruolo più assimilabile a quello della fruizione di un servizio. In questo senso, è totalmente ragionevole che gli studenti non rivestano un ruolo centrale nel lavoro di Szadkowski, lasciando spazio al vero protagonista (al produttore), ovvero, alla figura del ricercatore. In questo senso, se con lo sguardo della critica dell’economia politica sembrerebbe facile dimenticare il ruolo di produttori di conoscenza (dunque lavoratori) agli studenti, è altrettanto ragionevole ritenere che tale divisione sia esito della gerarchia capitalistica. Ovvero, tale frattura dipende da un rapporto di classe che, come tale, può essere criticato e, auspicabilmente, sovvertito. Più di una volta abbiamo riflettuto su come l’aspirazione e la curiosità verso la ricerca, rilevata nella composizione studentesca, potesse contenere in nuce una critica, anche radicale, verso lo studio mnemonico e passivo, quella solitamente da fruitore di conoscenza. Certamente, tale critica implicita va organizzata concretamente, tuttavia, essa rappresenta, nei termini di questo testo, una potenziale rottura dell’organizzazione gerarchica e valorizzante dell’economia politica universitaria. Riteniamo che nel contesto della formazione superiore lo scarto dalla semplice contestazione o mobilitazione al vero e proprio movimento, vada individuato proprio nella possibile ricomposizione tra ricercatori e studenti, che rompa questa gerarchia fittizia. Allora, il nodo degli studenti resta una questione politica dirimente.

Questo volume ci offre le basi per intraprendere questo lavoro di ricerca politica, che è anche un compito pratico. Quali sono i particolari meccanismi, di un contesto storicamente determinato, con cui il capitale riduce il sapere vivo a sapere astratto (cioè, valorizza la potenza del sapere sociale)? Come si rompono? Insomma, Szadkowski ci offre la tela, ora sta a noi rimboccarci le mani per dipingerla: sovvertire l’economia politica di un sistema che ruba intelligenza e produce idiozia.



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Elia Alberici si è laureato in scienze storiche presso l'università di Bologna con una tesi sull'Operaismo degli anni Sessanta. Ha svolto attività di ricerca con il gruppo londinese «Notes from Below».

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