Esodo o diserzione?
- Gabriele Fadini
- 20 mar
- Tempo di lettura: 16 min
Per un confronto critico tra Franco Berardi Bifo e Antonio Negri sull’andarsene

I concetti di diserzione ed esodo, molto dibattuti in tempi più o meno recenti, sono al centro di questo articolo di Gabriele Fadini, attraverso un confronto tra le due principali figure a cui tali concetti sono associati, ossia Franco Berardi Bifo e Antonio Negri. Diserzione ed esodo, sostiene l’autore, non sono interscambiabili, per quanto condividano una medesima matrice. Il testo evidenzia anzi le differenze radicali che connotano la diserzione, che ragiona in termini sotrattivi, e l’esodo, che si muove nell’orizzonte di una proiezione. E tuttavia, conclude Fadini, si possono trovare delle importanti vicinanze tra le prospettive tracciate dai due concetti.
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A una prima analisi, diserzione ed esodo non solo sembrano poter essere termini e concetti interscambiabili ma sembrano condividere una medesima matrice, ovvero quella dell’abbandono di una terra di schiavitù, morte e distruzione per giungere in un altro luogo in cui vivere secondo i valori dell’ospitalità, della pace e della prosperità. E, in effetti, qualcosa di tutto questo riecheggia nei due termini che convochiamo in dibattito. Tuttavia, come vedremo, mettere in contatto la prospettiva legata alla diserzione di Franco Berardi Bifo con quella legata all’esodo di Antonio Negri (con Michael Hardt), porta i due concetti a cozzare l’uno contro l’altro nella faglia aperta da differenze insuperabili e, inoltre, si accompagna a una serie di «scontri» tra le due prospettive anche a livello di altre concettualità quali ad esempio l’antropologia, la «potenza», la militanza ecc.
Il presente testo cercherà, tuttavia, non solo di portare avanti un confronto serrato a partire dalle divergenze tra le due prospettive, ma anche di tracciare, nelle conclusioni, una «linea-di-fuga» che non significa assolutamente assimilare le due posizioni sotto la categoria della «fuga» quasi questa fosse il nome comune fra loro. Piuttosto, interpretando la linea-di-fuga in senso deleuziano-guattariniano (due riferimenti, loro sì!, comuni sia a Bifo che a Negri), ovvero come «assemblaggio» di elementi molto diversi tra loro, riteniamo che questa loro differenza possa essere non colmata, ma «convissuta» nell’essere entrambe forme di resistenza: resistenze differenti, ma pur sempre resistenze.
L’opera che mette a tema la questione della diserzione, tirando le fila anche di quanto in questa direzione già altri testi di Bifo avevano iniziato ad elaborare, è sicuramente Disertate.
Partendo dal titolo, incontriamo già quella che a nostro avviso è un’ambiguità di fondo. Più volte nel libro, infatti, il filosofo bolognese sostiene di non voler proporre un manifesto civile quanto più di stare rilevando quella che egli chiama una «tendenza», che egli definisce come un movimento volto appunto alla diserzione[1]. Tuttavia è allo stesso tempo vero che proprio nella parte finale del testo viene di fatto esplicitato un programma di azioni che caratterizzano la diserzione[2]. A nostro avviso si tratta di tenere assieme questa duplice anima del libro di Berardi: la diserzione come un dato di fatto e la diserzione come una possibile via politica, come un’azione di carattere etico.
Disertate esplicita il proprio pensiero muovendosi sull’orlo di un filo che viene lanciato dall’inizio del volume fino alla sua fine. La diserzione viene, infatti, inizialmente definita come una sottrazione da quella lotta contro le società della morte che non fanno altro che rafforzarsi mediante queste lotte stesse[3] e, per altro verso, la diserzione è sottrazione dall’essere, abbandono del primato dell’essere (umano) rispetto al divenire-altro[4].
Ciò che caratterizza questa doppia anima della diserzione è appunto quell’allontanamento che nasce dall’esperienza dell’impossibilità di una espansione potenzialmente illimitata della crescita sotto la pervasività della logica del capitalismo neoliberale e della finanziarizzazione integrale dell’economia che ha decretato il dominio finale dell’astratto sul concreto[5].
Il ragionamento di Bifo si pone sulla linea del fuoco in cui si incontrano-scontrano la promessa neoliberista di crescita illimitata e il limite rappresentato dall’impossibilità per la mente individuale e collettiva di fronteggiare il caos che da questo attrito tra tendenze alla dismisura e limite, si scatena. Un caos che viene risignificato come quel rompersi delle integrazioni simboliche che dovrebbero socialmente tenere a bada l’irruzione caotica che si esprime sotto forma di ansia e depressione singole e collettive e della frantumazione della solidarietà degli uomini tra loro e con il resto del loro ambiente[6].
Il marasma, per Berardi, è il concetto con cui si indica lo stato di confusione mentale in cui cadono le singolarità quando sono incapaci di governare gli eventi della vita e del mondo circostante esposto come esso è alla rapidità, complessità e proliferazione dei processi che intessono la fattura dell’esistenza di tutti[7]:
Stiamo avvicinandoci a una situazione in cui degradazione dell’ambiente, moltiplicazione dei conflitti e accelerazione degli stimoli info-neurali rendono impossibile conoscere in modo esaustivo e quindi decidere razionalmente. Stiamo entrando in una situazione in cui quanto più conosciamo tanto meno conosciamo perché quante più informazioni riceviamo tanto più difficile diviene compiere una scelta[8].
Come già in Futurabilità, testo interamente dedicato al tema della potenza, Bifo rivolge la sua critica ad un concetto di potenza che definisce astratto perché non tenente conto dei limiti in cui essa viene a darsi. L’azione dipende dalla libertà che viene a darsi nelle circostanze in cui essa si attua, e questa libertà a sua volta dipende da una potenza che però non è mai assoluta perché sempre emergente da un contesto segnato dalla finitezza e dal limite poiché avente a che fare con il modo in cui la condizione psico-sociale dell’uomo gli permette di agire[9]. Ed è bene ricordare qui che per Berardi le condizioni esistenziali, epistemiche o psichiche limitando la scelta la mettono anche in forma[10].
È evidente a Bifo che la dismisura della tecnica e dell’economia finanziaria che costituisce l’Umwelt in cui agisce l’uomo, determina una tale complessità da rendere assai difficile la scelta individuale che, non a caso, viene sostituita dagli automatismi appunto tecnologici[11]. La conoscenza non è più, come voleva Francis Bacon, uno strumento per accrescere il potere individuale e collettivo, ma al contrario quanto più essa sale con la correlata applicazione tecnologica, tanto più la potenza si fa minuscola.
Ma non solo, poiché Berardi parla della «barbarie», ovvero di quella condizione prodotta da quel sistema capitalistico il cui sviluppo non è più possibile se non a prezzo della distruzione della convivenza sociale fatta a pezzi dalla legge della forza che disintegra non solo, come abbiamo già visto, ogni struttura ma anche ogni possibilità soggettiva e collettiva del vivere sociale[12]. Detto tutto questo, non possiamo non sottolineare come poche pagine più avanti Bifo affermi che l’ingiunzione che prevale oggi nella sfera del semio-capitalismo neoliberale è quella che viene veicolata dallo slogan pubblicitario: consuma senza limiti. Godi senza limiti è, dunque, un’ingiunzione che ha un carattere patogeno così come tutta l’ideologia dell’illimitatezza[13]. Patologia che si declina come incapacità di elaborare l’esaurimento delle energie psichiche e nervose che hanno reso possibile la crescita capitalistica[14] da cui provengono quelle crisi di panico, di depressione e di predisposizione psicotica all’aggressività[15], alla rivalsa intesa come spirito di vendetta[16]. Il punto è che, come spiega bene il filosofo bolognese lungo tutto l’arco del libro e come aveva già fatto nel caso de Il terzo inconscio, la patologia non è inscrivibile all’interno di una categoria nosologica che possa esistere a se stante, senza relazione alcuna con la società in cui viene a nascere, poiché la malattia è il capitalismo e non la depressione[17].
L’unico modo per distruggere questo sistema fondato sulla mobilitazione di tutte le energie sociali è, per Berardi, la diserzione che è atto sia strategico che etico. La diserzione declina il movimento dell’andarsene non come semplice abbandono del campo di battaglia ma come altra forma di lotta, di sovversione e di sabotaggio[18]. Preliminare ai punti in cui si articola in proposito la diserzione, va assolutamente osservato come per Bifo il punto centrale sia la delimitazione di un’etica non più prescrittiva ma fondata su principi quali la sensibilità, la simpatia, la compassione e l’empatia. Questa forma di etica sarà un’etica attenta al piacere dell’altro nella consapevolezza che il piacere dell’altro diviene il nostro piacere, dell’interesse comune perseguito sotto forma del massimo piacere per tutti gli esseri senzienti[19]. L’attuale accelerazione della mobilitazione nervosa sta distruggendo le reti della capacità della sensibilità empatica[20] ponendosi contro a ogni forma di quel socialismo che, per Berardi, ha offerto una prospettiva realistica di trasformazione dei rapporti di produzione e di scambio fondati sulla solidarietà piuttosto che sulla lotta feroce per la sopravvivenza[21]. Ragion per cui solidarietà è un altro modo di definire l’etica della simpatia che è manifestazione della sensibilità, della ricettività pre-verbale alla presenza dell’altro[22], intendendo appunto per sensibilità la capacità di cogliere ciò che non può essere colto a parole:
La sintesi vissuta di sensibilità e sensitività rende possibile la percezione dell’altro come continuità sensibile del sé esteso al corpo del pianeta, al corpo del genere umano, al corpo della città, del villaggio, della piazza, della comunità[23].
Detto tutto ciò, Bifo non nega la necessità di ricorrere alla potenza per avere la forza di disertare, ma definisce questa potenza come una forza capace di sottrarsi a tutti gli automatismi di guerra, del lavoro salariato, della competizione, della crescita indefinita che nutrono la macchina dell’accumulazione[24]. Una diserzione che è l’evoluzione positiva di quella disperazione negativa che può produrre per altro verso una psicosi aggressiva; una diserzione che è sopravvivenza ai margini di una società che si sta dissolvendo, una diserzione come autosufficienza nell’esilio dal mondo[25].
La diserzione è, dunque, un esodo senza terra promessa, poiché la terrà, il mondo sta letteralmente bruciando e non c’è un luogo in cui rifugiarsi. Ciò non impedisce a Berardi di elaborare una diserzione in cinque «atti»: diserzione dal lavoro, dalla «farsa» democratica, dal consumo, dalla procreazione, dalla guerra[26]. Punto che tiene in asse queste cinque diserzioni è la «rassegnazione» che per Bifo assume il valore di una ri-significazione totale dei significati del corpo singolo e collettivo[27], ovvero un atto di riscrittura dei segni e delle cose che i segni significano; la ricerca di un nuovo senso dell’esistere[28] e che si identifica, nel termine inglese resignation, con la diserzione dal lavoro[29]. Ma non solo, perché la rassegnazione fa rima con quella che Bifo chiama la Grande Contrazione, ovvero l’idea secondo cui in un pianeta limitato anche la crescita non può che essere limitata ed il destino di sopravvivenza del pianeta stesso non può che declinarsi in azioni come la drastica riduzione del consumo, la ridistribuzione della ricchezza, la frugalità nella produzione e distribuzione dei beni necessari[30].
Ora, la scommessa più convincente di Bifo lanciata al termine di Disertate risiede tanto nell’attendersi dell’imprevedibile quando tutto sembra ormai drammaticamente inevitabile, tanto nella psico-deflazione ovvero nella possibilità che la depressione disinvesta rispetto a se stessa per aprirsi alla diserzione come linea di fuga verso l’altro-da sé. La catastrofe, termine derivante dal greco kata-strophe, significa infatti originariamente «capovolgimento» in un punto nuovo, inedito, imprevisto, inimmaginabile cui corrisponde l’arte di saper decifrare l’intersezione tra innumerevoli proiezioni mentali attraverso tecniche specifiche come la poesia e l’insurrezione[31].
Molte sono le occorrenze del tema dell’esodo nel pensiero di Antonio Negri, e per approcciarsi a esso in termini sistemaci avremmo bisogno, forse, di un’opera intera da dedicare a questo vero e proprio «lemma» della riflessione del filosofo padovano. Ciò non toglie che in questa sede sia possibile esprimere quello che è il significato, per certi aspetti, fondamentale che emerge dalla sua declinazione in certi ambiti.
Partiamo da un testo, forse, relativamente poco conosciuto per gli studiosi italiani, ovvero quella Triology of resistence in cui è riassunta quasi per intera l’opera teatrale di Negri. Alla fine della terza tragedia intitolata Cithaeron (testo scritto quasi come un’attualizzazione della tragedia greca Le Baccanti di Euripide) compare il concetto di esodo. Si tratta di poco più di una pagina che però è densa di significato. A parlare dell’esodo, a descriverne l’essenza, è Tiresia:
Non è la finalità del patto che è affascinante, è il movimento. Non è un ideale nascosto alla fine della corsa che ci spinge avanti, è la potenza che abbiamo costruito in noi stessi. Questo è quello che ci conduce in avanti[32].
Se per Bifo la diserzione non prevedeva alcun luogo in cui dislocare il proprio allontanamento, così per Negri il patto esodale non si configura come raggiungimento di una qualsivoglia terra promessa, ma ha un fine totalmente immanente al camminare, all’andare avanti. Vettore interno, cuore interno di questa immanenza è la potenza che determina il movimento.
La potenza, a propria volta, rimanda all’idea dell’essere come produzione: Negri (con Hardt) in Impero determina la produzione come essenza di quel lavoro vivo che cerca di rompere le coriacee strutture territorializzanti che lo imprigionano e la cui energia, la cui ininterrotta attività e il suo desiderio deterritorializzante spalancano tutte le finestre della storia[33]. Potenza è, dunque, desiderio ovvero forza di liberazione totalmente positiva che produce essere e rispetto alla quale il potere altro non è che organismo parassitario. Da questo punto di vista l’esodo non è partenza per un Altrove o per un Fuori ma è la scoperta fatta dalla potenza secondo cui più il capitale allarga le sue reti globali di controllo più potente diviene ogni singolo punto della rivolta. L’impero si presenta, perciò, come un mondo il cui centro virtuale può essere violato immediatamente da ogni punto che giace sulla sua superficie[34]. L’esodo è, dunque, l’intensificazione dello scontro la potenza e potere, tra lavoro vivo e astrazione, tra potenza produttiva e potere parassitario. E questo poiché la potenza della produzione è il limite del capitale: non è, cioè, solo il fattore che determina la crisi ma soprattutto il fattore che detta i termini e la natura della trasformazione e di conseguenza inventa le forme produttive e sociali che il capitale sarà costretto ad adottare in futuro[35]. Ne consegue che il potere capitalistico è sempre reattivo alla potenza produttiva e cioè che la potenza produttiva viene prima della messa in forma operata dal capitale: in altri termini che la resistenza viene prima del potere, ovvero di ciò cui resiste[36].
Per comprendere appieno come la resistenza esista prima del potere parassitario degli apparati di cattura del valore proprie del capitalismo, dobbiamo immergerci ancora nella definizione dell’essere come produzione creativa. Per Negri, infatti, la potenza di creare è segnata dalla dismisura. Già il singolo termine è rivelatore: ad una potenza smisurata non possono che opporsi le maglie misuranti del potere. A propria volta, se l’essere è potenza, ovvero creazione, nell’atto del creare la potenza non fa altro che tornare sull’essere per accrescerlo sempre di più. Più, dunque, la potenza crea più l’essere aumenta la sua potenzialità di produrre. E, allo stesso tempo, più l’essere è potente più sarà in grado di produrre e creare l’irriducibilmente nuovo.
In quella summa del materialismo negriano cui sempre ritorniamo quale libro-officina, ovvero Kairós, Alma Venus, Multitudo, la forza dell’essere è ritenuta tale poiché costruisce sempre nuovo essere e lo fa tramite la potenza creatrice che si sporge sull’orlo dell’essere[37]. La resistenza altro non è, dunque, che il vero nel suo apparire come affermazione dell’essere insorgente nella lotta[38]. La potenza creatrice è attività ontologica in atto: in Negri non c’è spazio per lo schema aristotelico di «potenza e atto», ma spinozianamente la potenza è già sempre attualità. Il nome che il filosofo padovano dà a questa attualità è appunto produzione. Una produzione che è ogni volta dismisura[39] poiché si lancia nel vuoto che si apre di fronte ad essa. La produzione è, perciò, in eccesso rispetto a sé poiché slanciandosi oltre se stessa non incontra mai un confine o un limite costitutivo o insuperabile ma il vuoto in cui costruire sempre nuovo essere, potremmo dire in cui costruirsi rinnovandosi sempre nuovamente.
Questo punto è centrale per comprendere l’idea negriana di esodo. Il limite, che poi è il non-essere o il vuoto, non è correlazione dialettica rispetto all’essere. L’essere cioè non si costituisce nella relazione con il non-essere secondo quella logica dialettica che va da Platone a Hegel e secondo l’affermazione dell’assoluta finitudine del tempo e dell’essere arriva sino a Heidegger. Detta in altri termini, non vi è nel materialismo del filosofo padovano alcuna traccia di Aufhebung, di superamento che contenga in sé il negativo come ciò che viene superato, ma l’essere afferma se stesso in pura opposizione rispetto ad altro essere. In altri termini, la pura attualità della potenza afferma se stessa, produce nuovo essere e così rifluendo su di sé riproduce se stessa, sull’orlo di un non-essere che non concorre a definirla ma rispetto a cui – questo sì – si gioca la partita della sua sopravvivenza e della sua crescita. La potenza è dismisura poiché è attualità: il non-essere le è estraneo, mentre la misura è il tentativo di ridurre la potenza immanente dell’essere come produzione nelle strette maglie del potere come trascendenza parassitaria.
Se l’esodo, perciò, ha di fronte a sé, ovvero si costituisce secondo la promessa di una terra ed è condotto da un Dio, tutto ciò ha la pretesa di rappresentare una misura per la potenza smisurata dell’essere i cui limiti sono solo limiti storico-contigenti che possono sempre essere superati. Ora, dunque, l’esodo non è movimento estensivo quanto più movimnto intensivo; esso consiste nel divenire della potenza, è lotta contro la trascendenza capitalista; è disobbedienza, sabotaggio, pura affermazione[40].
Per comprendere un ulteriore aspetto della dinamica esodale, riteniamo essere utile rivolgere la nostra attenzione ad un altro lemma presente nell’opera Moltitudine, ovvero quello relativo al concetto di carne. Per Negri ed Hardt, la carne è sempre carne sociale, ovvero una pura potenza, una forza vitale senza nessuna forma particolare, un essere sociale costantemente volto a realizzare la pienezza della vita. Da questa prospettiva ontologica, la carne della moltidunine è un’energia che espande continuamente l’essere sociale e che produce in eccesso rispetto a qualsiasi normale misura del valore e sussunzione negli organi gerarchici di un corpo politico[41]. La carne è, dunque, la cifra del «mostruoso» come pura affermazione dei «mostri» attuali – Negri ed Hardt parlano dei «vampiri» per sottolineare il desiderio insaziabile del corpo degli altri –, ovvero di coloro che stanno ai margini la cui fenomenologia comprende gli emarginati dalla scuola, i devianti sessuali, le persone anormali, i sopravvissuti a famiglie patologiche e così via. Il desiderio è il tratto comune che tiene insieme questi mostri, ed il fatto che Negri ed Hardt vi ritornino nei termini della affermazione desiderante di sé, dipende dal fatto che la carne è elemento costitutivo del comune[42] ed il comune, a propria volta, è lo spazio in cui la produzione delle soggettività che si ingenerano ritornano sul comune stesso aumentandone la potenza di generare nuove soggettività e così via[43]. Il riferimento, a tal proposito, è l’idea di «corpo» presente in Spinoza secondo cui ogni corpo è composto di moltissimi individui che stanno insieme in termini di reciproca costituzione e in cui lo stare assieme costituisce la moltitudine, ovvero una composizione plurale ed aperta e mai suddivisa in organi ordinati gerarchicamente[44]. Spinoza quindi ha anticipato come ogni singola passione contribuisce alla comune potenza trasformatrice, dal desiderio all’amore e dalla carne al corpo divino, in grado di vedere le mostruose metamorfosi della carne non solo come un pericolo ma anche come una possibilità: la possibilità di creare una società alternativa[45].
Proprio perché la resistenza nella sua potenza generativa viene prima dell’oppressione esercitata del potere, l’andarsene dell’esodo, di nuovo, non è uno spostarsi nell’ambito di una traslazione spaziale o temporale, ma è espressione dell’auto-organizzazione della moltitudine in totale autonomia. Questo è quello che chiamiamo l’esodo intensivo e cioè lo staccarsi da quella relazione con il capitale parassitario che ne succhia l’energia evolutiva, per riconoscere che il desiderio della moltitudine è in grado di affermarsi come un tutto positivo. Andarsene non è dunque dislocarsi dal dentro al fuori, ma riconoscersi vettori di questo stesso Fuori, portatori nei propri corpi, nella propria carne ed in tutta la propria vita (bios) di un Fuori in cui appunto non si va ma che si diventa per esserlo e si è per divenirlo.
Concludendo. Riteniamo di aver dimostrato le differenze radicali che sono alla base dei concetti di diserzione ed esodo. Se la prima, infatti, ragiona in termini sottrattivi, l’altra si muove nell’orizzonte di una proiezione. L’esodo è sporgenza creativa sul limite del nulla, mentre la diserzione vede nella potenza assoluta del desiderio, che intenzionando l’oggetto verso cui tende allo stesso tempo lo ricrea, il rischio di divenire causa di tormento e motore crudele di tormenti senza fine e di sofferenza se sganciato dal piacere, ovvero da ciò che ne abbassa la tensione interna. La diserzione è dunque sottrazione da un’economia di accumulazione che spinge continuamente a desiderare ma nega la possibilità del piacere bloccando la singolarità sul piano dell’immaginario senza mai permettergli di passare al piano del reale che è appunto il piano del piacere[46], laddove invece nella dimensione esodale il desiderio appartiene proprio al piano del reale come moltiplicazione del proprio conatus. Se, quindi, l’esodo moltiplica, la diserzione demoltiplica[47].
Nel primo dramma di Trilogy of Resistence intitolato Swarm, un uomo ha un dialogo serrato con il coro a proposito dell’idea di farsi saltare in aria come gesto di ribellione di fronte alle ingiustizie del mondo in cui vive. Ciò che mette in crisi il suo progetto è l’esperienza della carne che è insieme evento della vita ed elemento in comune con tutti coloro che soffrono e tutti i ribelli rispetto all’ordine costituito. Se la carne è il comune, distruggere la propria carne significa immanentemente distruggere anche parte del comune, poiché la carne è il passaggio dall’Io al Noi[48]. Abbiamo già visto come per Bifo, l’etica materialista si fonda sull’amor per sé e sul piacere dell’altro[49] laddove amor di sé non è egoismo ma va inteso come apertura all’altro, comprensione dell’altro come continuazione ed estensione del sé[50]. Se la sensibilità è la facoltà di cogliere ciò che non può essere detto a parole, la sensitività è la facoltà di sentire la pelle dell’altro come piacere o come fastidio, dolore, indifferenza[51].
Siamo di fronte a un punto di vicinanza possibile tra la prospettiva berardiana e quella negriana. Nella diserzione le singolarità si muovono sull’abisso vivendo in solidarietà, nella compassione del gioire e soffrire insieme così come nell’innamoramento, e nella tenerezza. Nell’esodo, letto attraverso lenti spinoziane, la potenza di pensare da parte della mente è tanto maggiore quanto maggiore è la potenza di essere affetti da altri corpi. La gioia è l’incontro l’altro, il tessere relazioni con e tra gli altri, e se gioia è il nome di questo comune essere insieme, amore è il nome dell’essere stesso come afferma Dante, ovvero la capacità di generare nuove forme di convivialità, nuovi modi di vivere in cui affermare l’autonomia e le interazioni tra le singolarità del comune[52]. E non sarà forse che l'amore in cui consiste quella potenza dell'essere affetti di cui parlano Negri ed Hardt, possa in qualche modo avvicinarsi a quella percezione subsimbolica e prelinguistica dell'altro in cui si risolve la sensitività di cui parla Berardi? Crediamo che concludere con una domanda autentica, e cioè che non ha già una risposta pronta, non sia segno di «debolezza» del pensiero, ma via per una riflessione che arrischia quella linea-di-fuga di cui abbiamo parlato all'inizio per aprirsi al futuro e all’a-venire.
[1] F. Berardi Bifo, Disertate, Timeo, Palermo 2023, pp. 192-193.
[2] Cfr. Ivi, p. 201
[3] Cfr. Ivi, p. 10.
[4] Cfr. Ivi, p. 261.
[5] Cfr. Ivi, p. 23
[6] Cfr. Ivi, pp. 11, 13.
[7] Cfr. Ivi, p. 102.
[8] Cfr. Ivi, p. 103.
[9] Cfr. Ivi, p. 34.
[10] Cfr. Ivi, pp. 34-35.
[11] Cfr. Ivi, p. 36.
[12] Cfr. Ivi, pp. 70-73.
[13] Cfr. Ivi, p. 82.
[14]Cfr. Ivi, p. 91.
[15] Cfr. Ibidem.
[16] Cfr. Ivi, pp. 19-20.
[17] Cfr. Ivi, p. 150.
[18] Cfr. Ivi, pp. 14-15.
[19] Cfr. Ivi, p. 41.
[20] Cfr. Ivi, p. 44.
[21] Cfr. Ivi, p. 61.
[22] Cfr. Ivi, p. 87.
[23] Cfr. Ivi, p. 88.
[24] Ivi, p. 169.
[25] Cfr. Ivi, p. 99.
[26] Cfr. Ivi, p. 201.
[27] Cfr. Ivi, pp. 168-169.
[28] Cfr. Ivi, p. 197.
[29] Cfr. Ivi, pp. 194-195.
[30] Cfr. Ivi, p. 225.
[31] Cfr. Ivi, pp. 242-243.
[32] A. Negri, Trilogy of Resistence, Minnesota University Press, Minneapolis 2010, p. 117.
[33] M. Hardt – A. Negri, Impero. Il nuovo ordine della globalizzazione, Rizzoli, Milano 2000, p. 63.
[34] Cfr. Ivi, pp. 68-69.
[35] Cfr. Ivi, pp. 252.
[36] Cfr. Ibid.
[37] Cfr. A. Negri, Kairòs, Alma Venus, Multitudo. Nove lezioni impartite a me stesso, Manifestolibri , Roma 1999, p. 37.
[38] Cfr. Ivi, p. 38.
[39] Cfr. Ivi, pp. 45-46.
[40] Cfr. M. Hardt – A. Negri, Moltitudine. Guerra e democrazia nel nuovo ordine imperiale, Rizzoli, Milano 2004, pp. 392-394.
[41] Cfr. Ivi, pp. 224-225.
[42] Cfr. Ivi, p. 226.
[43] Cfr. Ivi, p. 221.
[44] Cfr. Ivi, p. 222.
[45] Cfr. Ivi, pp. 226-227.
[46] F. Berardi Bifo, E: la congiunzione, Nero, Roma 2021, pp. 164-165.
[47] Cfr. Ivi, p. 299.
[48] Cfr. A. Negri, Trilogy of Resistence, cit., p. 16.
[49] Cfr. F. Berardi Bifo, Disertate, cit., p. 69.
[50] Cfr. F. Berardi Bifo, E: la congiunzione, cit., p. 155.
[51] Cfr. Ivi, p. 154.
[52] Cfr. M. Hardt – A. Negri, Comune. Oltre il pubblico e il privato, Rizzoli, Milano 2010, pp. 377-378.
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Gabriele Fadini è dottore di ricerca in Filosofia e laureato in Scienze Religiose. Si interessa di temi che hanno a che fare con il punto in cui la filosofia si unisce ad altre discipline. Da questa prospettiva si occupa del rapporto tra psicoanalisi e filosofia, ma anche di teologia politica e teologia della liberazione. Collabora con riviste scientifiche tra le quali «Attualità Lacaniana».
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