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Note da Kassel. «Documenta XV »: per un nuovo (possibile) ekosistema dell’arte








Una nutrita compagine di attivisti, collettivi di creativi, associazioni impegnate in territori complessi e marginali sono stati coinvolti per la più importante mostra istituzionale quinquennale: «Documenta XV» a Kassel.

L’ultima edizione conclusasi il 25 settembre, è stata diretta dal collettivo curatoriale ruangrupa con sede a Jakarta – che ha progettato la rassegna come un ekosistema poroso, inclusivo, rizomatico, elastico, ponendo al centro urgenze di carattere planetario.

Immaginando questa grande esposizione come una macchina o meglio un ekosistema, «Documenta XV» ha posto in stato di stress il confine di ciò che è o non è arte e di ciò deve essere o meno esposto/collezionato in uno spazio tradizionalmente deputato alla fruizione dell’arte: il museo che, come è noto, è uno dei più incisivi dispositivi di controllo della società.

Come tale «Documenta XV» è un magistrale esercizio espositivo, culturale e di ricerca. Un saggio collettivo, comunitario, condiviso. Una grande narrazione dello stato attuale dell’umanità intera.


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La presenza maggiore di collettivi somiglia a una sorta di mappatura, un movimento che vede il riscatto di forme differenti di colonialismo, sfruttamento, estrazione predatoria, ricatto, temi su cui fondare il pensiero verso le complessità attuali che spaziano tra transfemminismo, ecosostenibilità, nuove forme di ambientalismo, cultura Queer, inclusività, processualità. La rassegna dà grande spazio a forme e modalità differenti di narrazione con una possibile lettura e circolazione di saperi a noi occidentali per lo più sconosciuti.




Le forme di rilettura hanno un background differente che conferiscono spazio-tempo a una voce – o meglio a un coro di moltitudini – che faceva molta fatica ed essere riconosciuta o quanto meno ricevere attenzione e aprire nuove discussioni circa lo statuto dell’opera, del progetto, del pubblico, della comunità, dell’attivatore, del contesto, della nozione di tempo, di socialità, di lavoro.

Azzarderei quasi a tirare in causa le tanto mie amate Taz (Zone temporaneamente autonome) che sono quasi un accampamento, una zona momentanea di sosta ma non fugace, quasi stanziale ma con tutti i segni di un post-nomadismo.




Si tratta di una serie di cupole declinate in risoluzioni formali tra materiale naturale e materiali di riciclo per dar forma a situazioni ibride tra accampamento di yurta, campeggio, o spazi per declinare un nuovo tempo sociale, tutto sapientemente calibrato dentro un frame da work in progress.

Le serate ricordavano un berlinese Tacheles o un rave party londinese da primi anni 90 con l’estasi ancora da smaltire. Insomma siamo sulla giusta strada!

I momenti assembleari una vera e propria orgia di saperi. Complessità e convivialità regnavano sovrane lungo tutto lo spazio-tempo attraversato, esperito.

Qui il Queer è declinato in modo magistrale. E mi godo il sound check in piazza per il party di apertura che propone uno spartito da new wave senza alcuna dimensione nostalgica da revival.

Gli artisti si occupano, vivono, attraversano problematiche e complessità dentro smottamenti economici repentini che riconfigurano costantemente gli assetti geopolitici del villaggio globale. Tali presupposti sono inter leggibili in quasi tutti i progetti presentati che diventano allestimenti di materiale di archivio degli stessi elevati a opera/traccia con tutte le smagliature, inclusioni e declinazioni di installazione, ambientazione, spazializzazione.




Un Mood che fa cadere diversi stucchi, piedistalli, apparati, categorie mettendo in campo formalizzazioni di un pensiero marginale, laterale, trasversale che ha trovato spazio-tempo per emergere: quello che spicca è solo una parte di un rizoma con connessioni e interazioni a volte dislocate in tutto il mondo.

Questa «Documenta XV» ha sancito la deontologia etica della democratizzazione dell’arte (intesa come sistema dell’arte) che qui in occidente tanto abbiamo teorizzato e caricato di declinazioni, escludendo modalità di pensiero divergente da quello borghese che continua ad alimentare e sostenere il vizioso e viziato giro dell’arte.

Queste progettualità si occupano di nuovi modelli di cura del patrimonio culturale, dei beni comuni, del «materiale fragile dell’umanità» da una prospettiva non occidentale e non borghese.



Mi piacerebbe azzardare che la grande visione di Toni Negri si è avverata: ho visto lo sciame inquieto dell’umanità attraversare gli spazi e i tempi di questa «Documenta XV».

Sciame inquieto per le tematiche evidenziate, per le urgenze fatte emergere, le voci sommerse e represse, per una parte di villaggio globale che richiede attenzioni serie e impellenti.

Siamo dentro questo clima di post pandemia e di guerra Russia-Ucraina dentro accordi e spartizioni di fette di mondo.

Credo che questo tipo di progettualità serva ad aprire spazi di critica in luoghi decentrati, marginali come forma di riscatto e di emancipazione dalla maglia del ricatto capitalista e omologatore.






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