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Movimento e tempo in Aristotele (terza parte)

La critica di Aristotele alla reificazione del tempo


Continua la pubblicazione dei contributi di Franco Piperno dedicati alla questione del tempo e, in particolare, alla relazione sotterranea tra tempo comune e tempo scientifico. Questo rapporto era già stato indagato attraverso il racconto delle «due imprese di Pigafetta» (https://www.machina-deriveapprodi.com/post/le-due-imprese-di-pigafetta). Ora l’autore si rivolge alla fisica aristotelica per sviluppare una considerazione sulla nozione di tempo naturale, cioè fisico.


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1. L’«ora» come istante indivisibile e l’«ora» come presente

Il resoconto aristotelico del tempo come «numero del mutamento» non include la relazione temporale di simultaneità. D’altro canto un modo per venire al significato di «istante indivisibile» è tramite il concetto e l’annessa definizione di simultaneità; inversamente, data la nozione d’«istante», il «simultaneo» è ciò che accade allo stesso istante.

Anche in questo caso, soccorre l’analogia tra il punto e il segmento di retta – il punto geometrico, in se stesso indivisibile, di lunghezza nulla, non è un elemento ma piuttosto il limite del segmento; analogamente si possono individuare i concetti temporali corrispondenti. Tuttavia sarà bene avvertire che l’analogia va agita con prudenza; infatti, mentre la lunghezza di un segmento si presenta tutta intera alla volta, simultaneamente, l’intervallo temporale comporta che il suo inizio e la sua fine non siano simultaneamente presenti.

Nella Fisica, oltre alla nozione dell’«ora come istante» v’è un altro concetto che occupa una posizione di rilievo: l’«ora come presente persistente».

Questo temine aristotelico ha una sua preistoria significativa; esso, infatti, risale a Parmenide, Zenone e, massimamente, al dialogo platonico chiamato «Parmenide».

Lo Stagirita adopera nel testo tanto la nozione di «ora» come istante quanto quella di «ora» come presente. Nel Capitolo X del Libro IV quando esamina l’intrecciarsi degli attributi temporali nelle intuizioni comuni, si interroga sulla natura della parola «ora»; più specificamente, egli pone la questione se «ora» sia differente di tempo in tempo o sia sempre la stessa (218 a 8, 23).

Nel Capitolo successivo, lo Stagirita scioglie l’enigma affermando che, mentre i diversi istanti sono definitivamente irripetibili nel tempo, v’è qualcosa che temporalmente persiste e in qualche modo fonda addirittura i diversi istanti; questo qualcosa è persistentemente nel presente e divide – in coerenza, come accennato, alla filologia della parola tempo che indica l’azione di dividere – il passato dal futuro.

Aristotele argomenta la determinazione di presente persistente per analogia, ricorrendo, come d’abitudine, al movimento e al mutamento delle grandezze spaziali (219 a 9).

Come già suggerito da E. Hassey l’argomentazione aristotelica principale a favore della persistenza del presente appare in forma di presupposizione, ricorrendo alla fenomenologia dell’intelletto umano; detto altrimenti, noi percepiamo la differenza tra passato e futuro perché siamo dotati di unità di coscienza; ed è proprio questa che permane invariante durante il mutamento e permette di distinguere tra il «prima» e il «dopo».

Dispiegando i vari significati del «presente persistente» Aristotele finisce con l’identificarlo con il «prima» e il «dopo» nel mutamento. Qui il prima e il dopo vanno intesi come limiti del mutamento, separazione tra ciò che è già stato e ciò che deve ancora accadere; si crea così quella percezione illusoria del fluire in avanti del tempo.

Astraendo da ogni mutamento, particolare la nozione di «presente persistente» si da come un confine la cui collocazione temporale è posseduta da un irresistibile deriva verso il futuro.

A una lettura attenta del testo, appare come questa definizione di confine che si muove in avanti sia inadeguata.

Dopotutto, il senso comune fa esperienza di limiti mobili, come sono tanto l’orizzonte quanto l’arcobaleno, ai quali sarebbe ben difficile attribuire lo statuto di cose permanenti. In fondo, i confini topologici di un oggetto, la sua forma, perché siano qualcosa di veramente permanente, devono, per Aristotele come per il senso comune, essere il confine di qualcosa che persiste nella sua collocazione in un luogo.

Qui, presumibilmente, Aristotele indica l’altra origine dell’eterno presente.

Così come il «prima» e il « dopo» in un particolare mutamento ricevono la loro identità dall’essere i limiti di quel particolare mutamento in atto; il «prima» e il «dopo» in quanto comuni a tutti i movimenti, acquistano determinazione dall’essere i limiti del mutamento dell’intero universo, della memoria totale di tutto il passato. Sicché il passato appare qui come se fosse qualcosa di persistentemente in sviluppo.

Quel che a noi importa sottolineare è che mentre in Parmenide il presente persistente sembra rivolto ad azzerare come falsa la nozione del divenire, in Aristotele assolve esattamente l’ufficio opposto: far posto alla realtà del divenire.

Infatti, il mutamento che è la forma fenomenica attraverso la quale il divenire ci appare, intanto può essere percepito in quanto vi sia qualcosa che persista invariate; e per contrasto, metta in rilievo il mutamento.

Bisogna tuttavia aggiungere che la definizione di presente come confine tra passato e futuro rischia di generare la falsa coscienza che il passato e il futuro siano reali così come lo è il presente – e questo risulterebbe in aperta contraddizione con la trattazione aristotelica.

A questo proposito lo Stagirita sembra aver messo in conto quel rischio e risponde anticipatamente alla relativa obiezione. Infatti, già in un passo dello stesso Libro IV (208 a 11) aveva avvertito che v’è una differenza concettuale tra essere limitato ed essere in contatto con quel che ci limita – come accade nelle teorie del calcolo differenziale dove il limite di una successione può benissimo essere estraneo alla successione stessa. Sicché, per concludere, il passato e il futuro possono essere i limiti del presente malgrado che nulla esiste che non sia nel presente.


2. Nota sul metodo aristotelico ovvero il ritorno al primitivo

La trattazione del tempo da parte di Aristotele può sembrare, all’innocente lettore contemporaneo, strana, per alcuni versi primitiva, anzi arcaica.

È quindi, particolarmente illuminante, capire che questo arcaismo è deliberatamente scelto dall’autore – e per il quale ha in serbo più di un buon argomento.

Il disegno di Aristotele è quello di ridurre le proprietà del tempo e del mutamento – almeno per quel che attiene gli aspetti topologici e metrici – alle corrispondenti proprietà dei luoghi e del movimento tra i luoghi; in altri termini gli attributi temporali vanno ricondotti alle corrispondenti qualità dei luoghi e dei movimenti che abitano quei luoghi.

La manifesta intenzione dello Stagirita è la formulazione pubblica di una teoria in grado di rispondere in modo tecnicamente perfetto alla questione di senso comune: «esiste il tempo?», che cos’è il tempo?»

Il metodo impiegato è quello dialettico o argomentativo-discorsivo: lo studioso, dopo aver riassunto le opinioni dei predecessori e i fatti empirici più rilevanti, esamina i materiali concettuali accumulati nelle intuizioni comuni; e perviene, tramite la critica razionale e la generalizzazione a fornire un’adeguata trattazione della questione, risolvendola in una o più definizioni.

Secondo Aristotele (Soph. Elenchi 11) vi sono concetti e modi di ragionare che sono comuni alle varie discipline e ai diversi saperi. L’idea dello Stagirita è che i campi dove si esercita la speciale conoscenza degli esperti ha dei confini lungo i quali gli «appropriati principi» che caratterizzano quel campo non sono pertinenti alla trattazione delle cose comuni.

La dialettica svolge in una maniera professionale o meglio tecnica, le cose comuni, con le quali le singole discipline degli esperti hanno un rapporto non-tecnico.

Altrimenti detto, Aristotele con il suo metodo dialettico affronta in maniera tecnicamente appropriata quegli aspetti dello studio della natura rispetto ai quali l’esperto di cose naturali si trova a maneggiare strumenti concettuali inadeguati.

La dialettica come disciplina si caratterizza quindi per la potenza argomentativa; si parte dagli endoxa, che sono, per dirla schematicamente, proposizioni che non possono essere provate; ma, se sono negate, precipitano la discussione in una condizione di evidente irragionevolezza.

Aristotele fa continuo riferimento a ciò che è comunemente detto o pensato, piuttosto che a presupposizioni metafisiche; la sua analisi si dipana attraverso considerazioni linguistiche ancorate ai modi discorsivi comunemente impiegati, insomma all’intelletto inteso come senso comune.

Rientra in questa prospettiva la convinzione – assai indigesta alla scienza contemporanea – che le verità essenziali della natura si trovino, per così dire, a livello superficiale, nel senso che non vi sono microstrutture o elementi primordiali, o forze agenti che siano inosservabili ai sensi umani, all’esperienza comune.

Il metodo dialettico dunque, coincide con la procedura dell’analisi filosofica, con la differenza che il primo serve a prevalere nel dibattito, mentre la seconda è rivolta ad accertare la verità.

In coerenza con la metodologia sopra delineata, lo Stagirita ritiene che sia concettualmente errato cercare di stabilire la natura specifica di qualcosa senza avere prima accertato che questo qualcosa esista realmente. La «Fisica» riflette pienamente questo approccio al reale; in particolare per quanto riguarda concetti come il mutamento, l’infinito, il luogo, il vuoto, il tempo (confronta 199 a 3).

A vero dire, non sempre lo Stagirita si attiene al suo metodo; ad esempio, nel Capitolo VII che è un po’ il nocciolo concettuale del Libro I, affronta il concetto di «divenire»; ma piuttosto che mostrare, in accordo col suo programma, che il divenire esiste, che le cose nascono e muoiono, egli assume, richiamandosi al Capitolo II (185 a 12-13) che tutto questo accada; e si limita, per così dire, a smentire gli argomenti del monismo eleatico, principale avversario della possibilità del divenire – sicché questi capitoli non sono solo un riepilogo delle opinioni presocratiche su ciò che esiste, ma un tentativo, per altro riuscito, di dimostrare che le considerazioni che avevano portato alcuni suoi predecessori a escludere il divenire sono malfondate. Così, quando discute nel Libro IV la nozione di spazio, dopo aver enumerato le opinioni correnti a questo proposito scrive: «Dobbiamo cercare di costruire la nostra disamina della natura dei luoghi in modo tale che i problemi siano risolti e le qualità comunemente considerate vere restino vere, e le oscurità del concetto di luogo siano chiarite» (211 a 7-11).

Per altro, ancora all’inizio del Capitolo VIII aveva affermato: «Ora dobbiamo mostrare che solo se la nostra analisi è accettata, le difficoltà espedite dei nostri predecessori saranno rimosse.»


3. La grande riduzione

Il grande disegno di Aristotele è quello di ridurre le proprietà del tempo e del mutamento – almeno per quel che attiene gli aspetti topologici e metrici – alle corrispondenti proprietà dei luoghi e del movimento tra i luoghi; in altri termini gli attributi temporali vanno ricondotti alle corrispondenti qualità dei luoghi e dei movimenti che abitano quei luoghi.

La fisica è concepita come la disciplina che si occupa del cambiamento, della nascita e della corruzione della carne. Essa quindi è collocata nel mondo sub-lunare che è il luogo del mutamento, mentre l’astronomia si occupa dei luoghi dell’invarianza, cioè dell’ordine immutabile dei cieli.

Il tempo è il numero del movimento; cioè in analogia la misura della distanza spaziale, il tempo è un movimento scelto cioè unità di misura, col quale misurare tutti gli altri movimenti.

Nel prima e nel dopo è riassunta l’esperienza comune secondo la quale gli eventi si succedono e non accadono tutti insieme. Questa è la radice antropologica del sentimento del tempo, della temporalità.

Oltre l’esperienza del prima e del dopo, il concetto di tempo s’accresce inglobando il tempo come misura, cioè appunto, la possibilità di misurare il cambiamento, direttamente esperibile nella vita comune tramite un movimento periodico appropriatamente scelto.

Il tempo è quindi un movimento di riferimento che fa da sfondo a tutti gli altri movimenti.

Va da sé che un tempo così concepito non ha alcun effetto – infatti ciò che davvero esiste, ciò che è dato ontologicamente sono i movimenti o i mutamenti. La misura di questi mutamenti è invece un artificio tecnico accessibile a tutti gli esseri umani solo che essi siano in grado di contare.

La corruzione della carne non è provocata dal tempo, il cui movimento periodico resta inalterato mentre la carne si corrompe. In altri termini, al carattere unidirezionale del tempo è un riflesso linguistico del processo di alterazione e mutamento che si svolge nel mondo sub-lunare. La definizione aristotelica mette in rilievo una natura del tempo, quella cronologica che si svolge lungo la dimensione «prima – adesso – dopo» come nella lettura delle lancette dell’orologio; il tempo cronologico, dunque, è una qualità del mutamento fondata sulla comune esperienza del contare. Una particolarità della misura del tempo è che non v’è niente che possa raffrontarsi con la misura spaziale – dove è possibile mettere l’uno accanto all’altro il metro e la lunghezza da misurare. Differenti mutamenti a tempi diversi non possono essere confrontati in presenza, nel senso che un intervallo temporale non direttamente comparabile con un’unità di tempo. Mentre due corpi distinti possono, almeno in principio, direttamente confrontarsi ponendosi l’uno accanto all’altro, questo non accade per le misure temporali.


4. Note conclusive: il presente permanente, la realtà del passato e quella del divenire

La teoria del presente permanente è concepita da Aristotele come la soluzione dell’enigma dell’«ora», confine fra passato e futuro: istante sempre uguale o irripetibile? (218a 8-30).

Il filosofo non dà una risposta diretta ma deriva la persistenza del presente per analogia con la persistenza dell’oggetto che muta.

Questo riposizionamento della questione permette di focalizzare il dubbio sulla realtà del passato attorno a un mutamento concreto, particolare, colto nel suo procedere.

Infatti, mettere in dubbio che gli stati precedenti del mutamento abbiano avuto luogo equivale a vanificare l’intero mutamento, dal momento che, per Aristotele come per il senso comune, nessun cambiamento può compiersi tutto insieme, all’istante. Altrimenti detto, essere in presenza di un movimento nel corso del suo farsi implica, come dato fenomenico, la realtà degli stati precedenti già attraversati dal movimento stesso.

Delineata così la soluzione dell’enigma, il passo successivo sarà quello di rifarsi alla rotazione della volta celeste come mutamento eterno, sempre uguale a se stesso. In questo modo, la realtà del passato è garantita dall’eterno moto dei cieli che fa da sfondo ontologico a tutto ciò che è già accaduto.

Il presente permanente è una maniera di affermare la realtà del mutamento in astratto prescindendo dalle particolarità di uno specifico mutamento.

Affermare la realtà del passato non equivale a considerare il passato realmente presente. Aristotele parte dall’accettazione fenomenica del divenire – sicché essere presente è a ogni istante realmente differente da essere passato; il presente, d’altro canto, persiste identico malgrado che i suoi contenuti mutino.

Infine, dire che il presente è reale non comporta che esso esista come totalità infinita – giacché si tratta di un’esistenza potenziale. Ne segue come corollario che il tempo e l’«ora» sono mutuamente dipendenti; dove v’è tempo v’è mutamento e l’ora individua questo mutamento.

Noi possiamo distinguere e contare le fasi della cosa che cambia e queste fasi corrispondono a differenti istanti; contarle significa contare i diversi «ora» – qui «ora» gioca il ruolo di unità astratta temporale.

Viceversa se v’è un presente permanente v’è qualcosa che cambia e quindi v’è tempo come numero del mutamento.


5. Considerazioni sulla metafisica aristotelica del tempo

Il tempo è per Aristotele ontologicamente secondario rispetto al movimento; in particolare esso non esiste di per sé ma come predicato, misura di qualcosa – il movimento – che invece esiste di per sé.

Tuttavia, i processi temporali, che in qualche modo danno significato al tempo, sono reali nel senso che le cose accadono secondo un aspetto ricorsivo e seriale cadenzato dal «prima» e dal «dopo».

La concezione del divenire assume in Aristotele la forma di un passato – la memoria condivisa – che cresce continuamente in direzione del futuro, avendo la coscienza dell’ora come confine tra passato e futuro, e il presente persistente come totalità della memoria e dell’attesa.

All’interno del cosmo, a livello astronomico la relazione di prima e di dopo nonché quella di simultaneità – intesa come allo stesso istante – sono considerate reali e assolute; e la Stagirita ne tenta una definizione per analogia con le relazioni spaziali.

La simultaneità è intesa come «allo stesso istante» e ogni istante è considerato «ora» irripetibile. Gli istanti godono di una sorta di esistenza derivata come limiti degli intervalli temporali o equivalentemente come individuazione degli stati del mutamento.

Quanto al futuro, la posizione di Aristotele può essere agevolmente ricostruita ricorrendo a un altro suo testo de Interpretazione cap. IX.

Mentre è necessario che vi sia un futuro, nel senso che il mutamento continuerà a svolgersi (222b 6-7), il futuro in quanto tale è del tutto indeterminato nei suoi dettagli, e può essere considerato esistente solo potenzialmente; infatti non esistono gli oggetti futuri e l’aspetto futuro di un movimento in corso esiste solo potenzialmente.

Quanto al passato Aristotele è fortemente realista. Vi sono passi (217b 33; 218a 5-6) dove si dichiara apertamente scettico sulla realtà del passato; e comunque non dà una chiara risposta al problema.

Ciò che mette in forse il realismo di Aristotele rispetto al passato è la cattiva infinità di cui è gravido: infinite rivoluzioni degli astri, infinite generazioni di animali e così via.

In coerenza col suo finitismo Aristotele non può che attribuire un’esistenza potenziale a delle infinite serie di mutamenti. Per quanto indietro si rimonti nel tempo, v’è sempre un passato che precede; sicché il movimento esiste da sempre.

Queste affermazioni vanno lette attraverso il passo 223a-21-29 dove si sottolinea come se non fosse per la mente umana non ci sarebbe il tempo perché il tempo dipende dalla circostanza che le cose si possano contare; e contare è una facoltà della mente; e quindi niente può essere contato se non v’è una mente, o meglio se non è simultaneamente presente alla mente.

Ora il passato è giusto quella cosa che non può essere simultaneamente presente alla mente; se lo fosse la mente si troverebbe davanti a un’infinità attuale; e questo è impossibile, in base alla comune esperienza. Così Aristotele può, senza contraddirsi, sostenere, da una parte, che prima di un movimento v’è sempre un altro movimento; e dall’altra, che il numero totale dei movimenti presenti non è infinito perché questo numero non esiste.

I mutamenti passati non formano una totalità misurabile, così come la somma delle durate passate non è una quantità misurabile.

Del passato si può contare e misurare solo quella parte che è comprensibile da una singola mente a un dato momento.

Questa posizione non intacca il realismo rispetto agli eventi passati ma solo in relazione al loro numero e misura complessiva.

Il passato, o meglio il tempo passato, può essere detto infinito – aperion – ma solo nel senso qualitativo di «non avere limite».


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Franco Piperno è stato Assessore alla comunicazione presso il comune di Cosenza, dove si è impegnato nell’ideazione e creazione del nuovo planetario. È professore di Struttura del materia e insegna Astronomia visiva all’Università della Calabria. Ha insegnato Fisica presso numerose università italiane e alcune delle più prestigiose università del mondo. È altresì noto per la sua partecipazione alle vicende politiche degli anni Settanta in Italia.

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