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Medusa, ovvero l'inguardabilità della fine


Ruggero Ruggieri
Foto di Ruggero Ruggieri, tratta dalla raccolta Urbs Urbis

Esce oggi il nuovo libro di MachinaLibro: Medusa. Figure politiche dell'apocalittismo contemporaneo di Agostino Petrillo.

Mai come oggi si moltiplicano i predicatori della fine del mondo. La catastrofe ambientale, facendosi prospettiva sempre più concreta, alimenta un’apocalittica che è sia colta sia popolare. Il libro propone un approccio critico al riguardo, e vuole mettere in luce i limiti e i pericoli di questa visione. Le filosofie della fine del mondo raramente sfociano in suggestioni etiche e politiche, ma sono per lo più ispirate a rassegnazione e passività. Una paralisi dell’azione che è simboleggiata dalla Medusa del titolo. Per sottrarsi alle retoriche del transumanesimo alla Elon Musk sarebbe necessaria una riscoperta della politica. Per farlo, l’autore spazia dall’incidente nucleare di Fukushima al cinema di Werner Herzog, passando per il Covid-19 e le filosofie americane della riconciliazione con la natura.

Pubblichiamo un estratto dal capitolo conclusivo.


***


Un lettore senza corpo

 Che legge silenziosamente. 

Queste figure di Medusa 

Questi accenti spiegano

Il frizzante cadere della notte sull’Europa

E sull’Atlantico in fogli

Wallace Stevens



La maschera di medusa

Medusa con il suo spaventevole aspetto unifica in sé due diversi poteri dell’orrore: per un verso con la sua chioma di serpenti atterrisce e tiene lontano chi le giunge a tiro, per l’altro paralizza chi ha l’audacia di fissarla in viso, e ne impedisce l’azione. Quale metafora più efficace di questa per descrivere la modernità tarda e agonica in cui ci troviamo! La visione della fine terrorizza chi anche soltanto le si approssima, ma al contempo blocca la possibilità di reazione di chi osa guardarla da presso, impedisce di trovare vie d’uscita. Comprensibile chi volge la schiena e si allontana, pur di non affrontare il mostro. La possibilità di imbattersi nell’«orrore verde» induce alla fuga persino il coraggioso Odisseo, quando questi si avventura nel regno dei morti, di cui essa è custode [1]. Medusa induce una condizione in cui non la si può fissare direttamente, ma solo in maniera defletta, trasversale. Un gioco mortale si innesca tra lo sguardo che uccide e la denegazione dello sguardo dell’altro. Essa guarda, ma è inguardabile. D’altro canto ce lo ricorda anche una delle etimologie suggerite per il termine drago, drakon in greco, che avrebbe origine dal verbo derkomai, guardo fissamente. Lo sguardo del rettile ipnotizza, cattura, imprigiona, rende impotenti. Allo stesso modo la Gorgone pietrifica le sue vittime, potremmo dire, forzando la metafora, sottrae la capacità di azione e la vita politica ai corpi [2]. Eppure, secondo l’etimo, «medusa» è anche la protettrice, la custode. Il verbo medo in greco vale per difendere, custodire. Ma in che senso protegge, e con quale valenza? Secondo la genealogia che propone Esiodo nella Teogonia, la Gorgone è nipote di Gaia, la terra, e discende da una progenie di mostri dalla Terra generati, forse proprio per sua autodifesa [3]. Non a caso è anche potnia theron, signora degli animali [4]. Negli inferi l’«orrore verde » è al servizio di Proserpina, e ha qui il ruolo di difendere i confini del regno dei morti. Proprio in virtù del suo sguardo raggelante dunque Medusa trattiene, conserva, rinvia ad altro momento, ad altra epoca, sospende la scena in cui avviene l’incontro con chi vuole distruggerla fino a un ipotetico attimo futuro, in cui forse la pietra torna carne. In fondo, facendola pietra, mette tra parentesi, arresta la vita biologica, più che distruggerla. Così Medusa si pone simbolicamente come figura al crocevia tra due epoche e due maniere di intendere la natura. La lezione non potrebbe essere più chiara: l’immaginario della fine è anche l’immaginario della possibile sopravvivenza, che passa però attraverso la porta stretta del sottrarsi allo sguardo fatale. Di questo ci parla la gigantesca crisi politica e culturale che abbiamo provato a documentare in queste pagine, da Fukushima fino alla pandemia, passando per le raffigurazioni della fine stilizzate nella fantascienza sociologica del Novecento, e per le teorizzazioni apocalittiche della «Terra dopo l’uomo», serie di stazioni di passaggio che parlano tutte la stessa lingua. La dimensione apocalittica è effettivamente uno sguardo sul presente, ma uno sguardo che viene catturato e paralizzato dalla inguardabile prospettiva della fine. Certo si può rilevare che in tempi di crisi le fiction distopiche e apocalittiche conoscono una espansione e giungono quasi a sovrapporsi alla realtà. La paura dell’imminente fine delle condizioni di vita cui si è avvezzi, la sensazione incombente della rottura dell’equilibrio ecologico, e l’irrompere di fattori inattesi come la pandemia che destabilizzano l’ordine sociale, rimanda alle più antiche testimonianze letterarie dell’umanità [5]. E ancora oggi, nell’era della consapevolezza di una situazione di crisi globale dell’Antropocene, i generi della distopia e della (post-)apocalisse stanno vivendo un nuovo periodo di massimo splendore. È una produzione che si inscrive non solo in modelli e tradizioni letterarie consolidate, ma ha trovato spazio anche nella letteratura giovanile, in alcuni casi con un successo commerciale travolgente. E questi scenari di finzione dell’orrore, questa imperante Endzeitstimmung che spazia dalle scienze umane alla letteratura alle arti visive, ha prodotto un immaginario sociale dominato da un’atmosfera di fine dei tempi, dallo spettro dell’estinzione, ha probabilmente contribuito sia pure in maniera indiretta alla nascita di movimenti di protesta giovanili (dalle versioni più aggiornate del movimento antinucleare fino ai Fridays for future passando per Extinction Rebellion). Movimenti che però, nati sotto il segno dell’immagine paralizzante della fine, nati sotto lo sguardo di Medusa, appaiono impediti, goffi, incapaci di esprimere una ribellione che vada al di là di una esile dimensione infantile ben personificata dalla gracile immagine di Greta Thunberg, la Giovanna d’Arco della «crociata dei bambini». Figura che in fondo esprime tutto il pathos della difficoltà ad agire, della relativa impotenza, dell’attesa millenaristica e chiliastica della fine dei tempi, come con molta ragione sottolineò Giorgio Agamben [6].


[...]


Un tempo nuovo: fine di un'epoca?

Fino a quando la maschera di Medusa manterrà il suo potere di costrizione fisica? Quando si avvierà al termine questa epoca di paralisi dell’azione? Come si è visto l’apocalittica prevede strutturalmente fin dai suoi inizi un salto temporale e il dischiudersi di una speranza chiliastica, svela l’approssimarsi di un’epoca nuova [7]. Certo con tutti i limiti che certo presenta il concetto di «epoca». Hans Blumenberg, che ne ha analizzato e contestualizzato l’origine, afferma che: «la parola greca epochè significa l’arrestarsi di un movimento, poi anche il punto in cui ci si arresta o si inverte la direzione. Per lo scetticismo antico da questo significato fondamentale risultò l’uso di questo termine per designare il fatto di

mettere un freno al movimento della conoscenza e del giudizio e al tempo stesso d’imporgli un’astensione per sottrarsi così una volta per tutte a ogni rischio di errore». Fermarsi e sospendere quindi il giudizio su di un momento storico, in attesa del profilarsi di condizioni diverse, stabilire dei punti e delle distanze. Prosegue il filosofo tedesco chiarendo le differenze concettuali nell’uso del termine: «Le distanze rispetto a punti definibili potevano essere utilizzate per la determinazione cronologica; ma, appunto, non questi periodi cronologici, bensì i loro punti di partenza erano definibili in senso stretto epochè» [8]. Nel pensiero antico le epoche sono punti di partenza, e tali rimangono, non abbracciano temporalità definite come avviene nella storiografia dei moderni: «nell’applicazione alla cronologia storica che presuppone uno schema di punti evenemenziali discreti e trascura le situazionalità comprese fra di essi in quanto depressioni prive di eventi. L’individuazione di periodi storici come unità complesse di eventi e di effetti, la preferenza data alla situazionalità sulle azioni, alle configurazioni sulle figure rovesciano nella storiografia moderna il rapporto genuino nel concetto di epoca: l’evento diviene una grandezza storica a causa della situazione che esso produce e determina». Perciò nel mondo antico un’epoca è un punto, un cominciamento, che non necessariamente determina quanto segue. E Blumenberg più oltre sostiene che in fondo un’epoca non comincia: «il tentativo di localizzare nella storia l’istante dell’originarietà primitiva, di indicare lo stadio larvale di ciò che verrà, è ambivalente. Certo, vi è in questo sempre un elemento di giustificazione per l’ultima modificazione, per l’esito delle cose che va nella nostra direzione, ma, al tempo stesso, anche un motivo di diffidenza nei confronti dell’affidabilità di una ragione che poté un giorno avventurarsi in tali percorsi tortuosi ed errati, non sfuggendo in tal modo al sospetto che anche la più recente delle sue autocertezze debba subire l’epoca e il successivo sguardo retrospettivo di una ragione nuovamente pervenuta a se stessa» [9]. Come dire che di individuare l’inizio di un’epoca può essere capace solo una ragione retrospettiva, che, come aveva già compreso Wilhelm Dilthey, procede spesso con gli occhiali appannati e deformanti del presente da cui guarda la storia. E allora forse quello che potremmo chiamare un cambio d’epoca è già in corso, noi non lo vediamo, attende solo di essere colto e compreso. Oppure come afferma l’ultimo Bruno Latour, l’Antropocene più che un’epoca nuova… indica certamente la fine di qualcosa, cioè di quella epocalità «illuminista» che più che alla materialità delle condizioni geofisiche dell’ambiente terrestre e alle nostre condotte di comportamento, è legata alle condizioni metafisiche dell’essere nel mondo, è «troppo umana». Per questa ragione tra l’Antropocene e l’Apocalisse c’è una coincidenza che va ben al di là della retorica della fine del mondo, perchè Antropocene e Apocalisse finiscono per coincidere e divengono così il segno rivelatore, il disvelamento di una Antropocalisse, dell’esplosione della macchina antropologica che ha caratterizzato gli ultimi secoli della storia [10].



La politica dopo Medusa

Come sottrarsi alla paralisi dell’azione politica, alla sensazione che si siano raggiunti i limiti del possibile, come sfuggire alla visione paralizzante della fine, alla imperante Endzeitstimmung, dove individuare i semi dell’aprirsi di un’epoca nuova, o perlomeno, se non di un’epoca in senso classico, del tempo che viene dopo? Ancora la leggenda di dusa offre delle possibili soluzioni. L’eroe Perseo sconfigge Medusa non affrontandola frontalmente, ma individuandone la posizione in base all’immagine riflessa sullo scudo, opportunamente orientato da Atena. Così raccontava la storia, cogliendone perfettamente il senso riposto, Luciano di Samosata: «On voit Persée…, Méduse qui se fait couper la tête, et Athéna qui protège Persée. Il a osé son exploit, mais il n’a pas vu son acte, si ce n’est le reflet de la Gorgone sur le bouclier. Car il connaît le prix à payer pour la vue de la réalité [11]». Perseo conosce il prezzo da pagare per la vista della realtà! Come dire che l’immagine della fine non si può fissare direttamente, va aggirata, attaccata lateralmente, il che dischiude una metafora possibile dell’azione politica a venire. Ma c’è di più. In alcune versioni del mito Perseo riutilizza la testa mozzata di Medusa, il cosiddetto Gorgoneion, che conserva anche dopo la morte il suo potere paralizzante, e la usa per annientare i nemici che incontra sulla sua strada. Lo accompagna Atena, che per portare a termine l’opera usa la testa mozzata per «faire voir ce qui ne se peut voir, en l’occurrence une vacuité» [12]. La testa della Medusa svolge quindi fin dall’origine anche una funzione di «emblema apotropaico», che scongiura la catastrofe. In essa il male e allo stesso tempo il suo superamento si fondono in un’unica figura, dato che essa incarna l’orrore che allontana l’orrore, letteralmente allontanando o deflettendo i mali che impersona [13]. Ma Luciano di Samosata nella sua restituzione del mito coglie acutamente nel passaggio che abbiamo citato il nocciolo della questione: per distruggere completamente l’effetto dell’azione della Medusa bisogna ribaltare il principio di realtà su cui esso è basato. Di nuovo una metafora politica: il discorso sulla fine, se non ci se ne lascia pietrificare, può essere utilizzato contro il negazionismo, gli interessi dei petrolieri, e il capitalismo estrattivo, rivolgendolo contro di loro, attingendo alla sua spaventosa potenza come facoltà costruttiva e non distruttiva. Scrive a questo proposito Maria Zambrano giocando creativamente sull’ambiguità tra Medusa mostro semidivino e medusa di mare [14]:«La promessa di questa strana creatura annunciava forse un altro regno in cui sarebbe sussistito qualcosa del mare, o forse no, se s’intende con mare l’abisso nel quale la vita custodisce germi, embrioni, abbozzi di creature ancora ingenerate, e in cui dimorano insieme quelle impossibilitate a nascere, almeno in questo ordine di tempo. Esseri o progetti di esseri necessitanti un ordine inimmaginabile che li attende» [15]. Medusa è dunque anche potenziale generatrice di un altro ordine di esseri, non solo marini, dato che le acque amare sono un luogo in cui è possibile che la vita si sviluppi senza altro condizionamento che quello di essere un vivente. Il vivente, la vita, o quel che attende di diventare vita, riemerge dunque dalle profondità oceaniche e si propone in forme mutate. Metafora certo bergsoniana, che insiste sulla fertilità e ambivalenza della figura mitologica: «E non possedendo nemmeno l’ombra di uno scheletro, questa creatura corrisponde perfettamente alla pietrificazione prodotta dalla Medusa del mito, ugualmente lontana dallo scheletro e dalla carne. Si sarà liberata del terrore che la sua dea ispirava?» [16]. Figure del primigenio terrore abissale, figure di sogno. La figura di sogno che Medusa sintetizza è una figura di archetipica ambivalenza, in cui si fonde un «desiderio misto al timore» e nasce: «dal sogno originario che sparge un terrore e una speranza così spesso indecifrabili e possessivi» [17]. Un sogno dal potere «liberatore» dato che «procede dalle origini» e, nei rari periodi di calma che la storia concede, fa vedere quanto vi sia di nascosto nella «calma della veglia» [18]. Il futuro come catastrofe porta con sé anche il suo superamento, se si opera una «riduzione» dell’apocalittica, riorientando l’esperienza del mondo, torcendo l’apocalittica nel senso dell’azione, ritrovando un nesso vecchio come la modernità, che in definitiva la subordina al parametro dell’utopia. Perché l’utopia è ancora l’obiettivo, deve essere realizzata, ma gli scenari apocalittici sono necessari per avviare i processi di cambiamento. Ha scritto efficacemente Roberto Ciccarelli: «L’idea di essere postumi – di essere arrivati dopo la fine e vivere nell’intermezzo tra il tempo che resta e quello che prepara l’Armageddon – nasce dalla conoscenza pratica del fatto che l’idea di liberazione è accessibile anche alla vita più disperante. La sua possibilità è il risultato di un’organizzazione politica diversa della realtà» [19]. Ma certo una politica dell’utopia che sia in grado di aggirare le secche di un presente terrorizzante, prendendo freddamente le mosse da una considerazione delle possibilità e delle difficoltà, distinguendo tra intelligenza politica e illusione, deve tenere in conto la fascinazione del nulla e della fine. Sottrarsi a questa potenza è tanto più difficile in quanto essa genera una sorta di malata malinconia, di morboso compiacimento per l’inattuabilità degli ideali di emancipazione e di riscatto. Esiste quindi una sorta di voluptas dolendi che, come si è visto nel caso delle filosofie dell’apocalissi alla Timothy Morton, rischia di prendere l’accertamento della catastrofe incombente come una verità assoluta e ineluttabile. Una radicale sfiducia nell’umanità, nella sua capacità di cambiare rotta, uno scetticismo sulla possibile soluzione della questione ambientale che finisce per rinchiudersi in posizioni sostanzialmente inutili se non addirittura retrive, che lasciano intravedere una sorta di malattia. Aveva sfiorato il tema i grande antropologo Ernesto de Martino: lo ha ricordato Vincenzo Cuomo, che nel riproporne gli ultimi appunti scrive: «tutta la prima sezione del brogliaccio di appunti di de Martino sulle «apocalissi culturali», intitolata paradigmaticamente Mundus – dal nome di un antico rituale romano – è dedicata a mostrare le strettissime corrispondenze, e, ovviamente, le differenze, tra il comportamento rituale e i comportamenti psico-patologici (fobie, delirio di negazione, paranoia di distruzione, mania, melancolia, catatonia, schizofrenia). I riti sono per de Martino – ma su questa tesi tutta l’antropologia culturale contemporanea concorderebbe – istituzioni culturali fondamentali, in particolare nelle società pre-moderne. Attraverso i riti le comunità umane compiono potenti esorcismi contro il rischio che il mondo catastrofizzi. Essi sono difese consistenti in una sorta di ripetizione socialmente controllata del rischio assoluto» [20]. E il lungo appunto sulle fobie nel lascito demartiniano prosegue soffermandosi sul «blocco» temporale e dell’agire di cui soffre il fobico: «Nel complesso, il divenire del fobico è inceppato. […] La difesa è impropria, privata, cifrata, senza orizzonte culturale, senza valore socializzabile […]. La difesa comincerebbe a diventare propria, pubblica, significante, ricompresa in orizzonti culturali, socialmente valorizzata e aperta a valori riconosciuti, quando il divenire si trasformasse da «sintomatico» in «simbolico» [21]. Questo salto dalla privatezza difensiva in cui è rannicchiato il fobico a un orizzonte condiviso, dal «sintomo al simbolo» è quel che politicamente manca al nostro presente. E pare oggi che questo sia non più una rara condizione individuale, ma l’orizzonte che impronta a sé i comportamenti collettivi. Le nuove «malattie dell’anima» di cui parlò Julia Kristeva nascono proprio da qui, da questo denominatore comune della difficoltà a rappresentare, a raffigurare: «par-delà les différences de ces nouvelles symptomatologies, un dénominateur commun les réunit: a difficulté à représenter. Qu’elle prenne la forme du mutisme psychique ou qu’elle essaie divers signaux ressentis comme «vides » ou «artificiels», cette carence de la représentation psychique entrave la vie sensorielle, sexuelle, intellectuelle et peut porter atteinte au fonctionnement biologique lui-même» [22]. Una impasse fatale di cui sembra prigioniera una intera generazione.


Note

[1] Cfr. J.P. Vernant, La morte negli occhi. Figure dell’altro nell’antica Grecia, Il Mulino, Bologna 1987, p. 16.

[2] Gorgo, la «spaventosa a vedersi», cfr. H. Geisau, Stichwort Gorgo, in K. Ziegler – W. Sontheim (Hrsg.), Der kleine Pauly. Lexicon der Antike, Bd 2, Stuttgart 1967, p. 852.

[3] Esiodo, Teogonia, Fondazione Lorenzo Valla/Mondadori, Milano 2018, p. 31.

[4] Cfr. Vernant, La morte negli occhi, cit., p.40.

[5] Cfr. V. Cuomo – G. Russo, a cura di, Apocalissi culturali, Mimesis, Milano 2017.

[6] Cfr. G. Agamben, Sulla fine del mondo, Blog Quodlibet, 18

novembre 2019, consultabile qui.

[7] Cfr. B.U. Schipper, Zwischen apokalyptischen Aengsten und chiliastische Hoffnungen. Die religiose Dimension moderner Utopien, in R. Sorg – S. Bodo Wuerffel, (Hrsg.) Apokalypse und Utopie, Wilhelm Fink Verlag, 2010, pp. 45-61.

[8] H. Blumenberg, La legittimità dell’età moderna, Marietti, Genova 1992, p. 493.

[9] Blumenberg, La legittimità dell’età moderna, cit., p. 508.

[10] Cfr. D.S. Corrêa – A.R.d P. Magnelli, L’apocalypse de Gaïa: la cosmopolitique pour l’Anthropocène de Bruno Latour, in Natures Sciences Sociétés n. 28, 3-4, 2020, pp. 314-322.

[11] Cfr. Luciano di Samosata, Oikos, citato in F. Frontisi-Ducroux, Encore la Gorgone, in Images re-vues. Histoire, anthropologie et théorie de l’art, n. 9, 2020, pp. 1-18.

[12] Frontisi-Ducroux, Encore la Gorgone, cit., p.17.

[13] «Literally warding off or turning away the evils it embodies», così sostengono in una bella pagina al riguardo M. Garber – N.J. Vickers, a cura di, The Medusa Reader, Taylor & Francis, New York 2013, p. 2.

[14] Medusa, sempre secondo Esiodo è figlia del vecchio del mare, Phorkus, primordiale divinità marina, cfr., L. Bloch «Phorkys (1)». In Ausführliches Lexikon der griechischen und römischen Mythologie, herausgegeben von W. H. Roscher, vol. 3.2, pp. 2431-2434, Teubner, Leipzig 1902-1909.

[15] M. Zambrano, Chiari del bosco, Bruno Mondadori Editore, Milano 2004, p. 119.

[16] Ivi, p. 120.

[17] Ivi, p. 121.

[18] Ibid.

[19] R. Ciccarelli, Una vita liberata. Oltre l’apocalisse capitalista, DeriveApprodi, Roma 2022, p. 67.

[20] V. Cuomo, Apocalissi simboliche. Il sintomo Sloterdijk, in Cuomo – Russo, a cura di, Apocalissi culturali, cit., pp. 189-214, 195.

[21] E. de Martino, Mundus, citato in Cuomo, supra, p. 196.

[22] J. Kristeva, Les Nouvelles maladies de l’ame, Fayard, Paris 1993, p.19.


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Agostino Petrillo è professore di Sociologia urbana al Politecnico di Milano. Ha diretto master internazionali. Tra i suoi lavori: La periferia nuova. Disuguaglianza, spazi, città (FrancoAngeli 2018), Un territorio orfano: l’arcipelago della Valpolcevera (con A. Torre, FrancoAngeli 2023), Atmosfere urbane (con T. Griffero, ETS 2024).


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