La radicalità incatturabile di Bert Theis*
Pierina Barrai, Tre palme
«Lieber 10 Palmen als 1000 Eichen!»
Bert Theis
«Se guardo indietro, a quando è cominciata questa avventura del pensiero, debbo riconoscere che mai c’è stata in me l’illusione di averla conclusa. E neppure la speranza di concluderla. C’è stata sempre tuttavia la certezza che essa, qui e ora, ci obbliga alla lotta per realizzarla»
Toni Negri, Sul comune, 2014
«Qui l’avvenire è già presente, chi ha compagni non morirà»
Franco Fortini
L’arte è stata uno strumento chiave nella lotta. E la lotta è stata uno strumento chiave nella traiettoria politica e personale tracciata da Bert Theis nel corso della sua radicale esperienza estetico-linguistica, dentro e contro le configurazioni sociali del sistema artistico e le sue «strutture» di potere (produttive, ideologico-culturali, economiche). «È importante ribadire dunque che artisti ed educatori non sono attori neutri, né possono immaginare di essere i vettori di una particolare creatività e conoscenza relativa alle lotte» – sottolinea Silvia Federici in un testo dedicato alla produzione del comune nelle città[i] - o come il new genre public art [ii] sia servito molto abilmente a «costruire consenso, consolidare comunità e sedare conflitti»[iii]. È il potere che si serve dell’arte per legittimare le proprie forme di espropriazione e di cattura.
Quando penso ai rapporti, o alle divergenze, tra arte politica e attivismo, la diversa accezione terminologica è debitrice di alcuni scritti di Lucy Lippard. L’arte politica tende a essere «socialmente interessata», concerne ed esplora istanze politiche, senza che queste implichino un’azione diretta. Parlare di arte politica significa stabilire una categoria esemplare che spesso semplifica e depotenzia la relazione che queste produzioni hanno con i contesti che le originano, tematizzando il politico senza far riferimento ai mezzi e ai modi di produzione, ai cambiamenti del linguaggio e delle funzioni creative. L’arte attivista, invece, tende a essere «socialmente coinvolta»[iv], funzionale alla lotta, consapevole che, marxianamente, non si tratta di un problema teorico da risolvere. Si tratta di un nemico da abbattere. Se arte e attivismo sono stati storicamente posizionati in una egemonica opposizione e continuano a essere guardati come agli antipodi dentro il campo sia culturale che dell’attivismo, recentemente molte istituzioni artistiche (biennali, forum, festival, lavori artistici, mostre e conferenze) stanno operando un sabotaggio e uno svuotamento della radicalità, assumendo come oggetto d’esposizione la politica radicale, che spesso è semplicemente enunciata come puro regime di rappresentazione senza trasformarsi in spazio di soggettivazione reale. Si può ancora credere a un potere emancipatorio dell’arte e di ridistribuzione sociale della creatività, senza riabilitare le vecchie categorie moderniste dell’engagement? L’opposizione che separa espressione artistica e rivendicazioni attiviste è ideologica e serve a disgregare le condizioni di possibilità dell’arte come politica e degli artisti come agenti sociali, contribuendo alla concezione che la produzione simbolica non possa avere quegli effetti trasformativi, che solo l’azione diretta consente. Da Bert Theis – che sapeva sempre dove posizionarsi nella lotta, laddove altri sono costretti alla scelta – ho imparato a cogliere la complicità, non sempre inconsapevole, di questa «obbediente» macchina governamentale che è il sistema artistico, con la sussunzione (in molti casi) di un tipo di arte che contribuisce a consolidare l’economia creativa. Forse il cavallo di Troia è stata la prima opera d’arte attivista. Basata sulla sovversione, da una parte, e sull’empowerment, dall’altra, l’arte attivista opera sia dentro che fuori la fortezza assediata che è la cultura alta o il «mondo dell’arte»[v].
L’eredità dell’arte attivista, secondo Gregory Sholette[vi], quando non è dissimulata è ridimensionata nel contributo ridotto della Critica Istituzionale. Questo processo di revisione è evidente nell’ultimo testo di Miwon Kwon che ha ricostruito una genealogia del site-specificity[vii], proponendo tre paradigmi: fenomenologico ed esperienziale, sociale e istituzionale, infine discorsivo, evitando l’impatto fondamentale della politica attivista per le pratiche post-Sessanta nella riscrittura dello spazio pubblico, nella definizione della sua natura e nei modi di produzione dell’arte contemporanea. Il sub-curatore Bert Theis, tra le soggettività plurali e insubordinate dei molteplici ruoli che ha rivestito – prima di tutto artista e militante, infaticabile organizzatore e raffinato intellettuale, pedagogo e docente, inflessibile filosofo e ironico utopista – aveva coniato un efficace inventario di termini critici, dei veri e propri concetti politici, per dare tensione e creatività alle narrazioni e ai focolai d’enunciazione dei conflitti in atto: audience-specific, dirty cube, dispersed center e soprattutto fight-specific che deterritorializzavano l’arte dai suoi luoghi abituali, attraverso un processo di soggettivazione che è, ancora oggi, una delle più potenti pratiche istituenti, critiche e molecolari che abbia mai intercettato. L’arte si impegna in una lotta precisa e non si limita ad illustrarla o rappresentarla. L’arte può essere costitutivamente una questione di collocamento e «contrapposizione» antagonista, tesa a fornire quel grimaldello indispensabile per rovesciarsi in contro-soggettività.
Occorre, tuttavia, sgomberare subito il campo da ogni fuorviante ambiguità costruita intorno a molte delle retoriche sull’arte pubblica attribuite al lavoro di Bert Theis (non è un discorso teorico ma di metodo politico, e dunque orgogliosamente di parte) per comprendere come la sua opera non c’entri nulla con la spettacolarizzazione dell’estetica relazionale, a cui spesso è stata avvicinata. Nicolas Bourriaud coglieva i sintomi di una tendenza in cui gli artisti, interessati a nuovi modelli di socialità con cui interpretare temporaneamente lo spazio, facevano dell’intersoggettività, della relazionalità e del coinvolgimento del pubblico una nuova forma di partecipazione e negoziazione valoriale[viii]. E nemmeno con quella dimensione in cui l’opera genera un’attitudine partecipativa, tratto tipico delle pratiche comunity-based, accompagnate da altrettante mistificazioni sulla democrazia e l’emancipazione, che corrispondono invece, a nuove forme di controllo diffuso, usate per neutralizzare le forze esistenti o potenziali di un territorio. Non c’è nessun trasferimento o decentralizzazione del potere in questione ma un lavoro spettacolare sul processo decisionale.
Quando Bert Theis, si affaccia sulla scena internazionale, con l’invito alla Biennale di Venezia del 1995, il Lussemburgo, come molti altri paesi extra-europei, dalla Cina all’Africa, non aveva un padiglione nazionale. Così costruisce una struttura temporanea, il Fake Pavilion, Potemkin Lock, il simulacro di un padiglione incastrato tra quello belga e quello olandese, non senza causare qualche incidente diplomatico o di «territorial pissing» come lo definiva Bert, «riflesso inevitabile per i burocrati della cultura quando l’arte è espropriata ai fini dell’autorappresentazione nazionale»[ix]. Ma una volta entrato lo spettatore si trovava in uno spazio ameno con sdraie per prendersi una piacevole pausa, ascoltando Potemkin Lock Venice Rap, una composizione sonora ottenuta mixando campionature originali di un’intervista radiofonica di Marcel Duchamp, che paradossalmente non aveva mai esposto alla kermesse veneziana. Bert Theis non aveva ricevuto nessun consenso dai proprietari dei padiglioni adiacenti, l’Olanda e il Belgio, nonostante fosse una clausola imposta dai direttori della Biennale e dalla municipalità di Venezia che avevano approvato il progetto solo a queste condizioni.
Dal 1997 in poi, con la partecipazione a Skulptur Projekte di Münster, molte delle sue opere pubbliche assumeranno la fenomenologia della piattaforma en plein air, anonima e anti-spettacolare, contraria sia alle logiche autoritarie del monumento che dell’ideologia modernista dell’utilità funzionale e assiomatica; critica anche verso la soziale plastik, diventava l’enigma della piattaforma/pedana/rampa, bianca e indeterminata, come la definisce Marco Scotini, una sorta di podio brechtiano per una «soggettività qualunque»[x], aperta a un numero illimitato di comportamenti e «sistemi di interazione sociale non focalizzata» (Erving Goffman). Philosophische Plattform – che riproduce le simboliche volumetrie dello stilobate dipinto da Raffaello nelle Stanze Vaticane, dove i sommi filosofi greci discutevano nella Scuola di Atene – era situata di fronte al castello del principe-vescovo di Münster, opera dell’architetto Johann Conrad Schlaun e ultimo espisodio del barocco in Westfalia. «La prima piattaforma filosofica al mondo», amava sottolineare Bert Theis, alla cui funzione epistemologica corrisponde un «valore concreto e pratico per il pubblico»[xi] perché si configura come un dispositivo aperto a una serie imprecisata di funzionalità orizzontali, non prevedibili. Molto di più di un «karaoke filosofico», uno stage vuoto (Bert racconta come Kasper König preoccupato che non si attivasse gli suggerì di organizzare almeno due appuntamenti settimanali, cosa che rifiutò) non era solo il luogo dove prendere la parola ma fu investita da molteplici e aleatorie attività: «economia del tempo, a questo si riduce, in definitiva, tutta l’economia», diceva Karl Marx[xii], qui si poteva anche perdere tempo, distendersi, camminarci sopra, usarla come pista di pattinaggio o attraversarla con la bicicletta, organizzare gare di ballo, concerti, rappresentazioni teatrali, raduni e feste di compleanno, e non ultimo lezioni di filosofia; si era formata addirittura un’associazione «die Freunde der Plattform» che si era battuta per non smantellarla e renderla una struttura permanente ad uso del pubblico.
«Marx va alla scuola della lotta di classe. Chi dipinge uno studioso solitario chino sui libri al British Museum, non ha capito nulla, o non vuol fare capire. I testi del Moro di Treviri vengono prodotti ascoltando il canto dei tessitori della Slesia, osservando partecipe le barricate del giugno 1948, organizzando in modo frenetico gli operai nell’Internazionale, provando in modo inquieto a dare indicazioni prima, a sostenere durante e a capire dopo la Comune di Parigi»[xiii]. Con l’azione Dialectical Leap Bert Theis, che da giovane aveva militato nella Ligue communiste révolutionnaire, aveva concepito il suo «independent sub-curator project» per Manifesta 2, che si tenne in Lussemburgo nel 1998, organizzando ogni weekend un viaggio di trenta minuti, con uno shuttle bus, profumato e accompagnato dal sound di percussionisti africani, proprio alla casa natale di Karl Marx, a Treviri, in altre parole, sottolinea l’artista, da Manifesta 2 al luogo di nascita dell’autore del Manifesto del partito comunista, dal Lussemburgo alla Germania, dalla città delle banche all’autore di Das Kapital, insomma dall’arte come punta avanzata del neoliberismo alla «rivoluzione contro il Capitale», per usare la celebre espressione gramsciana, senza mai perdere il tagliente, ma sempre gentile, senso dell’umorismo bertiano.
«Non c'è più ombra di dubbio: nel paradiso l'uomo nasce sdraiato, nudo sotto una palma», annotava nello stesso 1998, in occasione di Le dita della mano: dieci isolette bianche, costituite da pedane ombreggiate da una lussureggiante palma mediterranea, disseminate per il parco di Volterra, possono essere usate per distendersi, riposarsi, leggere, pensare, trastullarsi. Di fronte la maestosa fortezza-prigione, struttura del comando sociale, della vita sotto sequestro, del tempo sottratto, dove non entra l’arte. Come tutte le piattaforme di Bert Theis, possiamo sdraiarci, sognare o prendere il sole. Ancora un impiego improduttivo del tempo, ispirato a Paul Lafargue – marito della figlia di Marx – che nel 1880 iniziava il suo celebre pamphlet per confutare il diritto al lavoro (una critica a quella «strana follia che si era impossessata delle classi operaie delle nazioni in cui domina sovrana la civiltà capitalista, ossia l’amore per il lavoro») rivendicando invece il diritto alla pigrizia, all’ozio, al non fare niente come contro-politiche del tempo, nell’epoca, la nostra, del governo assoluto del tempo: così Bert Theis ci fa percorrere le forme spiraliche e curvilinee della Spirale Warburg (2000), assenti nella pianificazione modernista in favore di tracciati urbani rettilinei che «non fanno perdere tempo», o come esplicitato già nel titolo del suo intervento per la Biennale di Gwangju: It’s Hard Work to Be Idle (2002) ancora una piattaforma aperta, articolata come una terrazza pensile con palme esotiche e sabbia, una sorta di avancorpo, o meglio una «protesi architettonica» dell’edificio di accesso alla Biennale, che invitava alla disponibilità a restare inattivi, fare una pausa.
Altro episodio intorno alla discorsività informale e contestuale dell’indagine sulla natura audience-specific del suo lavoro, è stato Growing House (2004) alla 5° Shenzhen International Public Art Exhibition, dove nella sprawling cityasiatica, caratterizzata da conglomerati urbani che si sviluppano in modo accelerato e incontrollato, oltre che dalla feroce capitalizzazione dello spazio pubblico (come laboratorio politico sotto il controllo del capitalismo, in una delle megalopoli più popolose al mondo) non esistono aree non sottoposte a investimento economico-speculativo, l’artista ricava un’isola al centro di un parco, un padiglione con palme (ancora vegetazione tropicale), innestato su una piattaforma con copertura di cotone, ispirato all’antico modello insediativo nest dwelling, in cui le forme abitative crescono con l’evoluzione organica della natura.
Better ten palm-trees than a thousand oaks! La piantumazione successiva sarà un atto di resistenza (e di disobbedienza) contro il piano del comune di Milano di privatizzare lo storico quartiere popolare e operaio di Isola e smantellare il parco di via Confalonieri: ecco la prima palma clandestina piantata durante la mostra Art-Chitecture of Change a cura di Marco Scotini (2005). Nel bel mezzo di un violento processo di verticalizzazione che ha coinvolto l’intera area, dove era in atto una logica di tipo speculativo (edilizio, finanziario e di marketing) sullo spazio urbano, operando come indicatore di valore economico, l’espropriazione di libertà ha assunto il vocabolario delle industrie creative, dimostrandone l’impossibile esteriorità. In un tale contesto di egemonia dell’agenda neoliberale, nell’irreversibilità dei processi di gentrificazione rampante e l’invisibilità di soggetti socialmente svantaggiati, come possono ancora esistere condizioni di possibilità dell’arte nello spazio pubblico? Non c’è più posto per gli ideali, il campo è occupato dalla materialità dei rapporti di produzione, di forza e di lotta.
Crolla l’astratta nozione habermasiana della sfera pubblica come spazio democratico, unitario, pacificato e accessibile a chiunque, in cui tutti i cittadini, sollevandosi al di sopra del conflitto, si sentono universalmente rappresentati. Sappiamo che soprattutto le teorie femministe e postcoloniali sulle politiche della produzione di soggettività hanno dimostrato come lo spazio pubblico in quanto luogo protetto dal conflitto e dall’eterogeneità sia semplicemente fondato sulla censura delle differenze. Isola Art Center è stata un’esperienza di insubordinazione che ha generato una pluralità di modelli sociali insorgenti, di forze immaginative dal basso, funzionali alla lotta, di opposizione alla dominante edificazione della città e agli squilibri dei programmi politico-economici di trasformazione urbana. Non tanto «una dimensione capace di rovesciare l’apparato statale» ma piuttosto l’affermazione della triade (della macchina rivoluzionaria) di «insurrezione, resistenza e potere costituente»[xiv] capace di creare spazi di ingovernabilità e di rottura. I molteplici sforzi tra attivismo artistico e attivismo politico – continua Gerald Raunig – non mirano a istituzionalizzare la concatenazione; il potere costituente stabilisce possibilità al di fuori del potere costituito, sperimentando differenti modelli di organizzazione politica, forme collettive e modi di divenire, che resistono alla riterritorializzazione e alla strutturalizzazione[xv]. Bert Theis dopo la demolizione della Stecca aveva scelto la strada della diaspora come precarietà e della non-istituzionalizzazione, trovandosi spesso isolato, rispetto a tante figure del sistema dell’arte, ma continuando tenacemente a lottare, perché le sconfitte, così come le conquiste, non sono mai irreversibili.
L’origine etimologica della parola «radicale» è «radice». «Grassroots» non significa solo «movimento dal basso», richiamando la lotta di Bert con i movimenti popolari e le forme di autonomia e autorganizzazione (Out - Office for Urban Transformation, Isola Art Center, il giardino comunitario di Pepe Verde, l’occupazione di Macao fino alla fabbrica recuperata RiMaflow) ma anche che ogni filo d’erba ha le proprie radici. «Un artista può funzionare come un giardiniere pigro che taglia via le erbacce come azione temporanea. Oppure può andare sotto la superficie e trovare le cause. Il cambiamento sociale può accadere quando si strappano le cose dalle radici, o per collezionare metafore, quando si ritorna alle radici e si distinguono le erbacce dai fiori e dalle piante.. .e i cavalli di Troia dai quattro cavalli dell’Apocalisse». Bert Theis, che ironizzava sull’ozio come forza produttiva e antigoverno di un tempo liberato, non era un giardiniere pigro ma una figura della militanza, alle radici indisponibili di una contro-soggettività inaggirabile, che non aveva bisogno di imparare a «de-professionalizzasi», scrive Silvia Federici[xvi], per «coltivare un diverso tipo di creatività rispetto a quella solitamente associata all’espressione artistica. Questa è la creatività che si genera quando modifichiamo i nostri rapporti con gli altri, scoprendo nel potere della cooperazione il coraggio di resistere alle forze che opprimono la nostra vita».
Note [i] S. Federici, «Produrre il comune nelle città», in Reincantare il mondo. Femminismo e politica dei commons, ombre corte, Verona 2018, pp. 156-157. [ii] La definizione del new genre public art non era costruita su una tipologia specifica di materiali, spazi o linguaggi ma piuttosto sul concetto di audience, pubblico, relationship, comunicazione e intenzionalità politica, cfr. S. Lacy, Mapping the Terrain: New Genre Public Art, Bay Area Press, Seattle 1994. [iii] Gli artisti e il sistema dell’arte spesso sono attuatori ignari, a volte consapevoli, di una politica urbana finalizzata a processi di valorizzazione capitalistica a scapito di intere classi popolari. R. Deutsche, Eviction. Art and Spatial Politics, The MIT Press, Cambridge, MA 1996, p. 281. [iv] L.R. Lippard, «Trojan horses: activist art and power», in B. Wallis, a cura di, Art after modernism: rethinking representation, The New Museum of Contemporary Art, New York 1984, p. 349. O ancora «mentre l’arte community-based si basa sulla comunicazione e lo scambio, l’arte attivista si basa sul dissenso creativo e il confronto. Le pratiche community-based tendono ad essere affermative, assertive, mentre la maggior parte dell’arte politica rifiuta lo status quo» (Lucy R. Lippard, «Time Capsule», in W. Bradley – C. Esche, a cura di, Art and Social Change. A critical reader, Tate Publishing &Afterall, Londra 2007, p. 409. [v] Lucy R. Lippard, Trojan horses, cit., p. 341. [vi] Cfr. G. Sholette, News from Nowhere: Activist Art & After, a Report from New York City, in «Third Text», #45, 1999, pp. 45-62. [vii] Cfr. M. Kwon, One Place after Another: Site-Specific Art and Locational Identity, MIT Press, Cambridge, Massachusetts 2004. [viii] Una nuova retorica curatoriale pone l’enfasi sulla performatività, la temporalità e la flessibilità, indirizzando questi concetti all’esplorazione dei sistemi di mediazione temporanea della produzione artistica attraverso la diffusione di termini come «chiosco», «piattaforma» e «stazione»; «luoghi che raggruppano e poi disperdono» allo scopo di sottolineare il tentativo di creare comunità casuali. Sono termini che ricordano la vecchia ambizione modernista di modernizzare la cultura in accordo con la società industriale (El Lissitzky parlò dei suoi progetti Proun come di «stazioni tra l'arte e l’architettura») e che raggiungono la loro apologia con il progetto cumulativo di Utopia Station, a cura di Molly Nesbit, Hans Ulrich Obrist e l’artista Rirkrit Tiravanija, alla 50° Biennale di Venezia del 2003. [ix] «Conversation between Bert Theis and Carlo Dolci», in K. Bussman – K. König – F. Matzner, a cura di, Skulptur. Projekte in Münster, Verlag Gerd Hatje, 1997, p. 416. [x] Vedi M. Scotini, «The Platform Factor. Il podio della singolarità qualunque», in Bert Theis. Building Philosophy, Domaine départamental de Chamarande, Centre d’art contemporain, 2011. [xi] Ivi, p. 413. [xii] K. Marx, Grundrisse der Kritik der politischen Ökonomie, Quaderno I, capitolo sul denaro (parte II). [xiii] G. Roggero, Elogio della militanza. Note su soggettività e composizione di classe, DeriveApprodi, Roma 2016, p. 42. [xiv] Cfr. G. Raunig, Art and Revolution: Transversal Activism in the Long Twentieth Century, MIT Press, Cambridge, Massachusetts 2007. [xv] Ivi, pp. 65-66. [xvi] S. Federici, Reincantare il mondo, cit., p. 157. *Marx Among the Palms: The Uncapturable Radicality of Bert Theis», in Bert Theis. Building Philosophy — Cultivating Utopia, éditions Mudam Luxembourg, 2019, p. 34-45. © Mudam Luxembourg — Musée d'Art Moderne Grand-Duc Jean, 2019.
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