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Lo spettacolo cosmico

Prime note su cognizioni e illusioni nel sapere astronomico


Roberto Gelini, Costellazione del Toro, acquerello, 2007


La strada che porta alla realtà: L’astronomia come canone dell’impresa scientifica

V’è, netta, un’impressione che colpisce lo studioso di storia dell’astronomia che abbia qualche rudimento dei metodi dell’epistemologia genetica. Nel mondo antico, la scienza degli astri ha raggiunto per prima un livello di precisione sofisticata che ancora oggi è negato a molte di quelle discipline che, dal punto di vista accademico, chiamiamo, con una valutazione generosa oltre misura, scienze. La ragione principale che spiega questa impressione è il legame arcaico, antropologicamente fondato, tra la vista, che è il nostro principale organo di senso, ed il Cielo notturno inteso come paesaggio etologico comune. Infatti, i fenomeni astrali visibili sono relativamente semplici; ed in ogni caso, assai più facili da studiare di quel che accade sulla superficie terrestre, nella vita quotidiana.

Gli antichi astronomi ignoravano la ragione di questa semplicità, ma noi oggi riteniamo che la Luna la Terra e tutti i Pianeti posseggano una rotazione intrinseca e percorrano le loro orbite a velocità quasi costante sotto l’influenza pressoché monopolistica di una sola interazione, quella gravitazionale prodotta dal Sole.

In conseguenza, i mutamenti del Cielo notturno risultano periodici: la Luna appare sotto le stesse forme o fasi; il Sole e le Stelle compiono la loro giornaliera rivoluzione attorno al Polo celeste; ed il Sole, poi, descrive durante l’anno una traiettoria che, come un sentiero, interseca sempre le stesse costellazioni, quelle dello Zodiaco - costellazioni che, a loro volta, sono forme prodotte da una illusione ottica, create arbitrariamente dall’osservatore raggruppando stelle che appaiono tra loro vicine solo dalla prospettiva della Terra. Perfino ad occhio nudo questi moti periodici possono essere studiati – e lo furono – con un notevole grado di precisione quantitativa, molto più grande di quanto avvenga, che so?, per il volo di un falco o lo scorrere dell’acqua lungo le rive di un fiume.

Vi è poi un altro motivo per il quale l’astronomia ha esercitato un ruolo preminente nella cultura antica e medioevale: essa forniva informazioni che né la fisica né la biologia erano in grado di dare. Infatti, già in epoca preistorica, l’arco descritto dal Sole durante il giorno soleva essere usato come un orologio, un calendario ed una regola per orientarsi, cioè individuare il cardo ed il decumano. Queste tre funzioni vennero poi fortemente potenziate con l’uso dell’ombra dello gnomone – il più antico artefatto astronomico, attribuito, dalla tradizione, ai babilonesi.

Lo gnomone, come è noto, è una asta rigida, piantata a perpendicolo su un terreno piatto ed esposto ai raggi del Sole. L’ombra muta secondo due ritmi, uno giornaliero l’altro annuale. Ogni giorno, quando l’ombra dello gnomone raggiunge la sua lunghezza minima, allora scocca il mezzogiorno; ed a mezzogiorno, a Babilonia, come a Luxor o ad Atene, l’ombra punta verso il Nord. E ancora, al variare della lunghezza dell’ombra durante l’anno, si possono agevolmente individuare solstizi ed equinozi: In più, dalla lunghezza dell’ombra a mezzogiorno del solstizio estivo si può determinare, con piccolo calcolo, la latitudine del luogo. Ecco: l’ombra, la cosa più fuggente e leggera che ci sia dato incontrare, viene messa al lavoro, fin dai tempi i più remoti, per marcare, a partire dal Nord, i quattro punti cardinali; e acquisire così l’orientamento, la potenza di scegliere il proprio cammino, lasciandosi guidare dal Sole; qui davvero imparare dal Cielo appare come facoltà del genere.

Ad Atene, sul finire del V secolo a.C., l’astronomo Metone, utilizzando con pazienza minuziosa lo gnomone, nota che le Hore, cioè le quattro stagioni, marcate dagli equinozi e dai solstizi, avevano durate apprezzabilmente diverse. La scoperta era destinata a sconvolgere l’astronomia per quasi due millenni; infatti, queste durate disuguali mostravano che il Sole non si muoveva lungo un cerchio a velocità costante durante l’anno. Ed è ancora a questa scoperta che va fatta risalire l’idea di Ipparco, il grande astronomo greco vissuto nel II secolo a.C., di introdurre gli epicicli, cioè dei cerchi più piccoli i cui centri si trovano su cerchi più grandi o deferenti in modo tale che il moto di un oggetto astrale di per sé non uniforme, risultasse dalla composizione di due moti uniformi - questa idea sarà ripresa due secoli dopo da Tolomeo e costituirà il meccanismo fondamentale del sistema geocentrico.


L’astronomia e la querelle tra antichi e moderni

Ma anche la nascita della scienza come oggi la intendiamo affonda le sue radici nel sapere astronomico. Infatti, la stessa epoca moderna ha il suo inizio simbolico con il libro di Copernico De Revolutionibus Orbium Coelestium – non a caso, come ha osservato la Arendt, quella parola rivoluzione assume il significato che tutti noi oggi le attribuiamo (significato che è l’esatto contrario di quello propriamente astronomico e che vuol dire «il ritorno di un oggetto al posto che occupava prima») proprio per via della aspra discussione e del rivolgimento concettuale che l’opera dell’astronomo polacco provocò nella comunità colta dell’epoca.

Del resto, l’astronomia ha per millenni fornito il canone del rapporto tra realtà e teoria – intesa quest’ultima come conoscenza empiricamente provata di quella.

La ricostruzione delle tappe più significative nella storia dell’astronomia occidentale, mostra come questo sapere sia non già la pittura fedele di un cosmo oggettivo, già fatto; piuttosto è una fagon de parler, un modo di interpretare il Cosmo; dove il criterio di realtà viene ricondotto alla potenza di spiegare o alla potenza di predire o ad entrambe.

Così, nel V Canto dell’Odissea, Calypso, che abita l’isola di Ogigia, dice ad Ulisse, suo prigioniero d’amore, che se vuol tornare ad Itaca converrà che navighi tenendo la Grande Orsa, che non si immerge mai nel mare, costantemente a sinistra.

Qui l’indicazione della ninfa si rivelerà una predizione vera perché la Grande Orsa indica il Nord mentre Itaca è collocata ad Est rispetto ad Ogigia, isola del mare siculo occidentale. La spiegazione del perché la Grande Orsa non scompaia mai dalla vista del navigante, cioè, come diciamo oggi, sia una costellazione circumpolare, è poi affidata al mito: la Grande Orsa è Callisto, una ninfa dalla pelle liscia; posseduta da Zeus con l’inganno, ma trasformata in orsa pelosa e colpita dal divieto di lavarsi nelle acque del Mediterraneo dalla moglie del dio, Hera sfrenatamente gelosa.

In questo passo del poema omerico si intravede una attitudine che diverrà una costante della scienza occidentale: quel che è sottoposto a verifica non sono le leggi bensì quel che esse rendono vigente – o come diremmo oggi, non le equazioni ma le soluzioni delle equazioni.


Alcuni passaggi esemplari dello sforzo del pensiero astronomico

Ciò che va considerato un fatto, un elemento di realtà cosmica, non è determinato dallo stesso cosmo ma bensì dalla maniera con la quale gli astronomi parlano del cosmo. Come ha osservato Bohr, la parola realtà è pur sempre una parola che dobbiamo apprendere ad usare correttamente.

Ipparco e Ticone, i più grandi osservatori del cielo nella storia dell’astronomia occidentale, vedono le Stesse cose celesti dal momento che entrambi percepiscono la volta stellata ad occhio nudo. Quel che è radicalmente differente è ciò che dicono e scrivono sulle osservazioni fatte, il linguaggio nel quale interpretano i loro risultati. Il linguaggio di Ipparco e quello di Ticone si diversificano proprio nelle convenzioni linguistiche non banali cioè nelle definizioni ovvero nelle misure. Analoghe considerazioni potrebbero farsi su Tolomeo e Copernico. In questo senso l’astronomia rinascimentale vive in un cosmo altro da quello antico, cambia il vocabolario e cambia il mondo.

Non diversamente nella vita di tutti i giorni è la lingua comune che ci dice cosa è reale e cosa non lo è. Valgano tre esempi:

a) Malgrado che nessuno l’avesse mai davvero vista, per millenni la volta celeste è stata considerata una semisfera realmente esistente, non un modello ma un fatto.

Per rendersi conto della potenza significante della sfera celeste basta osservare il cielo notturno per qualche ora e constatare come esso ruoti attorno ad un solo asse in senso antiorario, tutto insieme compiendo un intero giro in un giorno.

Le stelle girano nella notte come se fossero incastonate in questa sfera, in modo da conservare le reciproche distanze. Oltre alla sfera delle stelle fisse, detta ottava sfera, ve ne sono altre sette che rendono conto, con un ragionamento analogo, del movimento circolare del Sole, della Luna e dei Pianeti. La sfera celeste ha finito non tanto con l’essere accettata quanto con l’essere presupposta nel senso comune degli astronomi; come se, per la sua esistenza, non fosse neppure utile trovare argomenti dal momento che si presentava con l’evidenza di una cosa, di un dato reale, di un fatto empirico. Bisognerà aspettare il XVI secolo perché la realtà della sfera vada in rovina attraverso l’argomentazione demolitrice di Thyco.

b) Per millenni, nel Mediterraneo, venivano osservati due oggetti luminosi, per metà anno, all’incirca, Lucifero, Stella Mattutina, prima del sorgere del Sole, e per un uguale intervallo, Vespero, Stella Serotina, dopo il tramonto del Sole; nel V secolo a.C. tra i Greci sarà Parmenide il primo o uno tra i primi a spiegare che quei due oggetti luminosi erano in realtà lo stesso oggetto, Venere, che appariva al mattino o alla sera secondo l’orbita che descriveva rispetto alla Terra ed al Sole; abbiamo così che due elementi della realtà astronomica diventano uno solo; in conseguenza questa nuova informazione viene proiettata a ritroso e vengono reinterpretate in modo nuovo le antiche osservazioni e per esse gli oroscopi arcaici.

c) Quando all’inizio del secolo appena trascorso la teoria della relatività ha mostrato che la Fisica poteva dispensarsi dal concetto di Etere Luminifero; e di conseguenza, questo elemento di realtà, è passato bruscamente dallo stato di esserci allo stato di non esserci; una sorta di mancamento ontologico che

si è proiettato, per così dire, nel passato, mutando quindi la stessa realtà che era stata scoperta dalla fisica pre-relativistica. Ciò che abbiamo appena detto sull’astronomia vale, a maggior ragione, per la fisica contemporanea. Così come non c’è una via sicura per parlare del cosmo non v’è un unico modo garantito per parlare del microcosmo - anche qualora si tratti delle tesi qui sostenute, insomma, la teoria in fisica è solo una compressione delle informazioni che si posseggono sull’insieme degli esperimenti. Il beneficio di vedere la scienza non come rispecchiamento del reale, piuttosto come una creazione del pensiero collettivo, meglio comune, cioè del General Intellect – allo stesso titolo che un quadro, una scultura o uno spartito musicale – questo beneficio è quello di assumere l’unità e la responsabilità del pensiero del genere umano.


Il mito moderno ovvero il caso di Copernico

Nella storia del pensiero astronomico si intreccia la conoscenza esplicita o formale con quella presupposta o informale. Una tacita familiarità si combina con una astratta semplificazione.

Così nella cosmologia aristotelica la centralità della Terra non è un privilegio, non ne comporta la perfezione.

La Terra non è il centro ma è al centro. Il centro è quello della ottava sfera dove converge tutto ciò che è pesante. In questa cosmologia il sopra ed il sotto risultano ben definiti: sotto è la direzione verso il centro, sopra quella verso le stelle. Gli elementi costitutivi dell’universo sono terra, aria, acqua e fuoco – ognuno di essi ha un suo luogo proprio verso cui spontaneamente tende e dove è al riposo. Così la pietra cade in basso, verso terra, perché pesante: mentre il fuoco va verso l’alto, in direzione del cielo stellato, perché leggero. Questo modello spiega molte cose – oltre alla caduta dei gravi dà conto della sfericità ed immobilità della Terra – infatti, quest’ultima, per muoversi, avrebbe bisogno di un agente in grado di spostarla dal centro: e non v’è alcuna evidenza che un simile agente esista.

Vale la pena sottolineare, come osserva Khun, che, per Aristotele, la Terra è al centro dell’universo non già in quanto questo luogo rivesta una speciale importanza piuttosto perché essa è particolarmente pesante.

Del resto in molte interpretazioni medievali della cosmologia geocentrica, la posizione centrale della Terra nell’universo è considerata una prova non del privilegio bensì della distanza dal Cielo cioè della sua fallacia peccaminosa.

Così, nella Divina Commedia l’Inferno è posto nel centro della Terra; e i dannati, in coerenza con la dinamica aristotelica, non sono abbrustoliti tra le fiamme ma affogati nell’immobilità dei ghiacci. Ancora nel 1615, il cardinale Bellarmino, il grande inquisitore che accusa Galilei, sostiene che la Terra, proprio perché giace immobile al centro dell’Universo, è assai lontana dalle cose celesti.

Per contrasto quindi il Cielo è sopra e più sopra si va lontano dal centro, e più ci si avvicina alla perfezione divina. Di conseguenza. Copernico, collocando il Sole immobile al centro dell’universo e la Terra in una orbita celeste, ha dato agli uomini una sorta di promozione ontologica, ponendoli nella perfezione dei cieli.

Quando e perché si è affermata, nella tradizione letteraria e nel senso comune, la rappresentazione distorta che vuole la rivoluzione copernicana artefice della detronizzazione dell’uomo dal centro dell’Universo? Le prime tracce di questa distorsione si trovano già a metà del Seicento; e nel tardo Settecento si può dire che questa erronea rappresentazione, grazie alla vulgata illuminista, è divenuta egemone ­– lo stesso Goethe scrive ad esempio: «Forse nessuna scoperta ha prodotto un più grande effetto sullo spirito umano di quanto abbia fatto l’insegnamento di Copernico. La Terra era stata da poco riconosciuta come sferica ed ecco che viene costretta a rinunciare al colossale privilegio d’essere al centro del Cosmo». Qui, sia detto per inciso, Goethe si adopera a propalare anche quella altra colossale distorsione secondo la quale l’umanità ha aspettato Colombo per apprendere come e perchè la Terra abbia la forma di una sfera.


Le aporie del sistema del mondo eliocentrico

A vero dire, il modello copernicano creava più problemi che soluzioni. Accettare il sistema del mondo eliocentrico non comportava solamente la sostituzione di una teoria astronomica con un’altra: piuttosto implicava che una intera serie di fenomeni fisici, considerati risolti, si ritrovassero d’improvviso senza spiegazione.

Così, gran parte della iniziale resistenza all’ipotesi copernicana proveniva dalla comunità degli astronomi piuttosto che dalle chiese cristiane. Si ponevano, infatti, per gli astronomi una lunga lista di inquietanti interrogativi. Vediamone alcuni: la Terra in movimento nel Cielo postulava un qualche gigantesco motore che ne causasse appunto il moto ma di cui non si scorgeva traccia; d’altro canto, se la Terra non era al centro del mondo ma orbitava attorno al Sole coma potevano definirsi sensatamente le due direzioni del sopra e del sotto; e ancora, perché mai gli oggetti pesanti cadevano verso Terra se essa non era al centro; e poi, come mai un oggetto lanciato verso l’alto ricadeva al punto di partenza se nel frattempo la Terra si era spostata; infine, se la Terra, che continuava ad essere valutata come l’oggetto più pesante nell’Universo, non era al centro voleva questo dire che il mondo era senza centro e magari infinito?

Accanto a queste obiezioni che noi oggi riterremmo di natura epistemologica vi erano poi quelle, diciamo così, astronomiche in senso tecnico. Ci limiteremo qui a riportarne due. Primo: il supposto movimento di rivoluzione attorno al Sole implicava che tra due stagioni opposte, poniamo l’inverno e Testate, la Terra percorresse immani distanze; di conseguenza le stelle dovevano presentare un fenomeno di parallasse, dovevano, cioè, apparire, ad un osservatore terrestre, d’estate sotto un angolo diverso che d’inverno; ora, malgrado le scrupolose e ripetute osservazioni che con Tycho Brache avevano raggiunto la precisione di pochi minuti d’arco, di questa parallasse non sera trovata non dirò una prova ma neanche un indizio. Secondo: ad imitazione della tradizione tolemaica, sulla base del modello copernicano erano state redatte delle Tavole astronomiche per prevedere gli eventi celesti come opposizioni, congiunzioni, quadrature, occultazioni, eclissi e così via. Ora, le Tavole copernicane non davano di certo risultati numerici migliori di quelli ottenuti con le Tavole tolemaiche; addirittura, in molti casi, erano decisamente peggiori; come, ad esempio per la famosa e funesta congiunzione tra Giove e Saturno del 1563, osservata da Tycho. L’evento si era verificato in un tempo diverso da quello previsto dai due massimi sistemi del mondo; lo sbaglio, per il modello tolemaico, era di un mese circa mentre, per quello copernicano, di soli dieci giorni – malgrado l’apparenza, il Terrore copernicano risultava di gran lunga più grave perché, mentre le Tavole tolemaiche erano state elaborate quasi un millennio e mezzo prima, quelle copernicane datavano meno di mezzo secolo.

Del resto, il sistema copernicano non era certo meno complicato di quello tolemaico – entrambi impiegavano ben oltre trenta cerchi per ricostruire i principali fenomeni celesti ed entrambi risultavano imprecisi e non tenevano il passo con l’accuratezza delle osservazioni, grandemente accresciuta per le necessità della navigazione oceanica.


I vantaggi del sistema eliocentrico

Come abbiamo già notato, all’inizio, il sistema copernicano è conosciuto esclusivamente dagli astronomi – solo essi infatti avevano un interesse professionale, anche per via del loro essere facitori di oroscopi, a migliorare il calcolo delle orbite planetarie. Gli astronomi del XVI secolo adoperano il modello eliocentrico malgrado molti di loro lo ritengano ontologicamente falso – essi lo usano, infatti, come strumento di calcolo. La pratica di ricorrere ad un modello artificiale, ad una ipotesi ad hoc, per ricostruire movimenti complessi non era e non è certo nuova. Lo stesso Tolomeo aveva affermato che gli epicicli, così come gli eccentrici e gli equanti, non andavano considerati come realtà astronomiche ma piuttosto come trucchi matematici per menare a buon fine i calcoli - vale la pena ricordare qui, per inciso, che, ancora alla fine del XIX secolo, Planck introdurrà l’ipotesi della natura granulare dell’energia, ovvero la fisica quantistica, come una ipotesi ad hoc per risolvere le anomalie teoriche nel fenomeno della radiazione del corpo nero.

Bisogna, tuttavia, aggiungere che il sistema copernicano presentava di certo alcuni vantaggi; ma erano di natura qualitativa; anzi, a vero dire, propriamente estetici. Così, ad esempio, esso consentiva di chiarire naturalmente, cioè automaticamente, il perché di quel ben noto movimento retrogrado di Marte che, osservato dalla Terra, sembrava procedere a zig-zag. Inoltre, l’ordine delle distanze con il quale si succedevano i Pianeti trovava anche qui la sua spiegazione automatica. Queste sono alcune delle vere ragioni per le quali il sistema copernicano finirà con l’essere accettato dalla maggioranza degli astronomi. All’inizio i seguaci dell’eliocentrismo sono assai pochi; col tempo tuttavia il porre il Sole, immobile ed al centro, si rivelerà la chiave decisiva se non per risolvere almeno per aumentare decisamente le informazioni utili alla ricostruzione simbolica dei moti planetari. E qui incontriamo un passaggio tipico di ogni rivoluzione scientifica: all’inizio la nuova teoria non fornisce risultati migliori di quelli offerti dalla tradizione. La novità è accattivante per altri motivi, prima di tutto estetici. Se poi, col tempo, il nuovo modello si rivela fruttuoso nel risolvere rompicapi tecnici prima enigmatici, allora guadagna consenso nella comunità scientifica fino a imporsi.


L’astronomia e le leggi della natura

L’uso dell’astronomia per stabilire l’ora, il giorno e l’orientamento si è venuto affievolendo ai nostri giorni. Noi adoperiamo degli orologi atomici per scandire il tempo, e con questi strumenti siamo in grado d’apprezzare un’alterazione di un milionesimo di secondo nella durata del giorno.

In verità è mutata il significato stesso della parola secondo. Tradizionalmente quest’ultimo è definito in termini astronomici, viene denominato U.T. 1 – Universal Time 1 – e corrisponde alla ottantaseimilaquattrocentesima parte di un giorno terrestre. Tuttavia, a partire dal 1967, tramite un accordo intergovernativo, il secondo ha, per così dire, mutato natura; viene calcolato misurando le frenetiche vibrazioni di un atomo di cesio, è chiamato ufficialmente T.A.I. ed è definito come «nove miliardi centonovantadue milioni seicentotrentunomila settecentosettanta periodi della radiazione corrispondente alla transizione tra due livelli iperfini dello stato fondamentale dell’atomo di Cesio 133». Per decisione politico-diplomatica e senza alcuna consultazione pubblica i reggitori del mondo hanno sostituito il tempo astronomico terrestre con quello atomico. Il tempo della Terra, facendo riferimento al giorno siderale, è naturalmente comune, nel senso che è comprensibile dal senso comune, ereditato da una tradizione più antica che la storia scritta, generalmente umano e comunemente verificabile: mentre il tempo atomico è una invenzione tecno-scientifica del tutto recente, assai complessa, comprensibile agli iniziati ed accessibile solo ad una piccola frazione di questa casta – gli orologi atomici autorizzati a costruire il tempo ufficiale sono in tutto il mondo poco più di duecento.

Ora accade che la scala del tempo atomico non sia in accordo con la scala del tempo terrestre, nel senso che quest’ultimo appare rallentare rispetto al quello. Sicché, di quando in quando, da Ginevra, i burocrati della International Telecommuncations Unioncorreggono il tempo della Terra sottraendole un secondo, detto leap second. Si noti che, per la scienza della natura, nessuna delle due scale temporali è più vera dell’altra: si tratta solo di una scelta meramente convenzionale, cioè linguistica – solo il perdurante pregiudizio della modernità ci spinge irresistibilmente a credere che il tempo atomico sia quello giusto, quello che scorre davvero uniformemente.

In effetti, il tempo atomico risulta più adeguato alle necessità dei sistemi di trasporto e di comunicazione planetari; e questo per via del fatto che la scala atomica è più fine, permette l’uso preciso di frazioni temporali enormemente più piccole di quelle consentite dalla scala temporale terrestre. Così, ad esempio, le compagnie telefoniche possono trasmettere, nel giro appunto di un secondo atomico, centinaia di migliaia di conversazioni in simultanea laddove il secondo terrestre ne consentirebbe solo qualche decina.

Nel correggere il nostro tempo, quello comune, con il leap second i mandarini di Ginevra riaffermano l’egemonia del tempo tecno-scientifico sul tempo astronomico; e questa egemonia, poiché la discrepanza tra le due scale temporali aumenta col tempo, arriva ormai fino al punto che v’è la proposta della amministrazione USA di abbandonare la correzione del leap second per affidarsi, interamente e definitivamente, al tempo atomico. Qui, un principio di precauzione dovrebbe avvertirci che noi non sappiamo cosa ci accadrà se dovessimo decidere di trascurare l’evidenza dei sensi e voltare le spalle a ciò che ci dicono gli occhi – questo disaccoppiamento avrebbe degli effetti imprevedibili sul tempo comune cioè sulla potenza della cooperazione umana.

Ma se la nostra Terra non cadenza più il tempo comune anche le stesse stelle hanno perso la loro importanza per la navigazione in mare aperto.

Perfino negli Istituti Nautici, i giovani ufficiali non apprendono più a tracciare la rotta utilizzando stelle, sestanti e cronometri – e questo con ragione, perché i satelliti per il posizionamento, ovvero i GPS, hanno reso obsoleta la navigazione celeste. E tuttavia, rimane un uso dell’astronomia che già le era proprio dall’inizio: essa continua a giocare un ruolo essenziale nella scoperta-creazione delle leggi di natura. Tralasciando l’astronomia antica, ricca di scoperte ed invenzioni, la fisica di Newton, cioè la forza di gravità, venne costruita proprio per spiegare il moto dei Pianeti.

Ancora: la proprietà degli atomi di emettere ed assorbire luce solo a certe frequenze, circostanza che nel XX secolo metterà capo alla nascita della fisica quantistica, questa proprietà, dicevo, era stata svelata dagli astronomi nel XIX secolo esaminando lo spettro della luce solare. Successivamente, lo studio certosino di quello stesso spettro permetterà ai fisici di scoprire elementi come l’elio che pure, a loro insaputa, era già presente sulla Terra.

Nelle prime decadi del XX secolo, la teoria della Relatività Generale fu messa alla prova negli spazi siderali: per prima cosa, comparando le predizioni della teoria con i movimenti osservati di Mercurio: e dopo raffrontando, previsione ed osservazione, per la deflessione della luce stellare causata dal campo gravitazionale del Sole.

Una volta conseguita la conferma della Relatività Generale, il ruolo di innovazione per la fisica fondamentale passa alla fisica atomica; e, a partire dal 1930, a quella nucleare e poi particellare. Attorno agli anni Settanta del XX secolo, dopo la formulazione del Modello Standard, il progresso della fisica fondamentale sembra rallentare considerevolmente – le sole scoperte negli ultimi decenni che vadano oltre il Modello Standard sono le eteree masse di varie famiglie di neutrini: e anche questa volta si è trattato di oggetti che ci sono apparsi per la prima volta nelle osservazioni solari.


Astronomia e cosmogonia

Nel frattempo, nella Big Science, quella che, organizzata in modo fordista, produce innovazione su scala industriale, la questione dell’Origine dell’Universo ovvero la Cosmogonia ha finito col proporsi come campo epistemico di convergenza, mutando la tendenza e sovvertendo la gerarchia nella ricerca fondamentale. L’obiettivo è ora quello di fondere i due grandi successi scientifici del XX secolo come la Meccanica Quantistica e la Relatività Generale, in una unica teoria, tipo, ad esempio, la cosiddetta Superstring Theory.

Questo comporta una stretta cooperazione tra le osservazioni astronomiche e la cosmologia: cooperazione giunta ad un punto estremo: fino al punto, cioè, che può capitare di ascoltare un astrofisico dire, senza arrossire, che l’Universo è vecchio di 13,73 miliardi di anni, con un errore stimato di qualche centesimo in percentuale.

Si noti che siamo qui in presenza di una scienza non più sperimentale ma piuttosto estrapolativa. Infatti, un enunciato sull’età del mondo non è empiricamente verificabile in linea di principio – basta riflettere sulla circostanza che viene usata come unità di misura l’anno, definito dalla rivoluzione terrestre e supposto di durata costante, anche per le epoche cosmiche nelle quali la Terra era assente.

Per inciso, vale la pena ricordare che non è certo la prima volta che la cosmogonia si impone come orizzonte culturale di una epoca o di una civiltà. All’inizio del miracolo greco e della stessa lingua scritta c’è il testo di Esiodo Teogonia che è, appunto, una cosmogonia; anche la tradizione rabbinica si affanna, lungo i secoli, per stabilire quanto vecchio sia il mondo; e ancora nel XVII secolo, Barrow, il maestro di Newton, si vantava d’aver stabilito il giorno della settimana nel quale Dio aveva cominciato a creare il Mondo – si trattava, chi sa poi perché, di un anonimo mercoledì di seimila anni fa circa.

Sia come sia, fatto è chela nuova cosmogonia, quella scientifica per così dire, ha svelato che solo il 4,5% dell’energia dell’universo si presenta nella forma di materia ordinaria – elettroni e nuclei atomici. Ben il 23% dell’energia totale si trova fissato in particelle di materia oscura, fatte in modo da non interagire con la materia ordinaria e neanche con la radiazione – sicché gli astronomi sono avvertiti della loro esistenza tramite gli effetti distorsivi che esse esercitano sui campi gravitazionali della materia ordinaria. In ogni caso, la gran parte dell’energia dell’universo, precisamente il 72%, è energia oscura che non risiede nelle masse o nella radiazione ma piuttosto impregna di sé lo stesso spazio-tempo; e, tra le altre cose, provoca una accelerazione nell’espansione dell’universo.

Così, oggi, è la cosmologia che detta le questioni su cui si focalizzano le ricerche fondamentali e i relativi finanziamenti; in particolare, la spiegazione dell’energia oscura è il rompicapo con il quale è costretta a confrontarsi la fisica delle particelle elementari; e quindi la Big Science cioè i faraonici e costosissimi acceleratori, tipo LHC di Ginevra, divenuto da qualche tempo un protagonista delle cronache mediatiche.


Il tempo cosmico, questa illusione cognitiva

L’astrofisica contemporanea straripa ormai nella cosmogonia; e qui incontra con concetti fondativi tanto per la tecno-scienza quanto per il senso comune.

Vengono, così, scrutinate criticamente le idee di tempo, spazio e materia, con l’intento di ripulirle dalle illusioni cognitive. In particolare, per quel che spetta alla dimensione temporale, circola, nella comunità scientifica, l’ipotesi che il tempo terreste o gravitazionale rallenti nei confronti del tempo atomico – nel gergo dei fisici questa congettura, avanzata per la prima volta dallo scienziato inglese Dirac, viene indicata come «variazione temporale del valore della costante gravitazionale G».

Lo sfasamento tra i due ritmi temporali solleva l’interrogativo epistemologico sulla natura del tempo, se sia costrutto linguistico o fenomeno reale; cioè, cosa intendiamo comunemente quando parliamo di tempo e come possiamo esser sicuri che un secondo abbia esattamente la stessa durata del successivo.

In effetti, esistono diversi tipi di orologi che misurano o, meglio, costruiscono tempi non sempre in accordo tra di loro. Questi orologi sono, a ben vedere, caratterizzati dai movimenti che producono; si va dal pendolo al decadimento radioattivo, dalla rotazione della Terra ai fulminei salti quantici dell’elettrone nell’atomo. Si tratta, come si è visto, di scale temporali ugualmente legittime, nel senso che nessuna è più vera dell’altra – l’idea che esista un tempo reale e che questo sia per di più quello preciso è, l’abbiamo già notato, una illusione cognitiva della modernità, peraltro ormai invecchiata nell’opinione competente.

La scelta dell’orologio avviene non già perché vi sia un tempo reale al quale la natura obbliga d’attenersi; piuttosto, è dettata dalla convenienza, dalla adeguatezza comparativa tra la scala temporale ed il fenomeno osservato.

Geologi e astronomi hanno cercato di ricostruire l’età dell’Universo misurando i decadimenti radioattivi, la temperatura estrema delle Stelle, la velocità e la distanza di Nebule e Galassie.

Tutte queste stime convergono, l’abbiamo già ricordato, ad attribuire al Mondo l’età di tredici miliardi di anni o poco più.

Ma le stime sono basate sul tempo atomico; se, al contrario, cercassimo di stabilire quanto tempo fa ha avuto inizio l’Universo adoperando il tempo gravitazionale rischieremmo di andare incontro a inquietanti sorprese.

Facciamo un esempio. Supponiamo, seguendo Dirac, che il tempo gravitazionale rallenti rispetto a quello atomico; ed inoltre, ai fini di rendere il nostro esempio quantitativo e senza nulla perdere in generalità, immaginiamo che tra le due scale temporale esista un rapporto di tipo esponenziale talché l’orologio atomico raddoppi i suoi battiti rispetto all’orologio gravitazionale ogni cento milioni di giorni; infine, per comodità espositiva, poniamo che questo raddoppio non avvenga lentamente nello scorrere dei millenni ma piuttosto abbia luogo di botto e tutto insieme: alla fine di ogni periodo di cento milioni di giorni contati dall’orologio terrestre, l’orologio atomico raddoppi d’improvviso i suoi battiti. Allora, calcolando dal presente verso il passato, l’osservatore che usa il pendolo vedrà l’orologio atomico dimezzare periodicamente i suoi battiti. Vediamo meglio: il primo periodo di cento milioni di giorni sarà registrato in ugual modo dai due orologi; ma a partire dal precedente v’è, risalendo il tempo, ogni volta un dimezzamento dei giorni contati dall’orologio atomico rispetto al pendolo.

Sicché le due scale temporali, espresse in giorni, si presenteranno così: Orologio a pendolo: cento milioni + cento milioni + cento milioni.

Orologio atomico: cento milioni + metà di cento milioni + un quarto di cento milioni +...

La seconda serie, come si può agevolmente calcolare con una modica dose di matematica, converge al valore di duecento milioni di giorni, laddove la prima serie diverge all’infinito.

In conclusione, l’esempio ci mostra che, se utilizziamo un orologio atomico, troviamo una determinata età, mentre, se ci affidiamo al tempo gravitazionale, l’Universo non sembra avere inizio.

Come si vede, dopo millenni di teorie ed osservazioni, massima è la confusione tra Cielo e Terra; dunque, la situazione è ottima.


Bibliografia

J.B. Russell, Inventing the Flat Earth, Praeget, N.Y., 2001 M. Singham, The Copernican myths, «Physics Today», 12, 2007

T. Khun, The Copernican Revolution, Un. Press, MA, 1957 S. Weinberg, The Missions of Astronomy, «The N.Y. Review», 22, 2009. I. Lakatos, The Methodology of Scientific Research Programmes, Cambr. Univ. Press, N.Y., 1978 E. M. Rogers, Astronomy, Prin. Un. Press, N.J., 1998 Queste note sono interne ad una lunga consuetudine di interlocuzione – su ciò che è vero o reale e ciò che è convenzionale o linguistico – con Mario Alcaro; consuetudine che data, appunto, dai tempi del liceo, nella Catanzaro sonnacchiosa e bigotta di mezzo secolo fa.

Malgrado gli ambiti disciplinari, ovvero le presunte nostre competenze, divergano sempre di più nello svolgersi della vita accademica, noi, testardamente, non abbiamo mai smesso d’esperire tentativi inattuali di unire ciò che appare diviso, e viceversa – magari attraverso sortite barbariche di ognuno nei saperi dell’altro.

A ben vedere, ciò che davvero spartiamo è una fede, ben temperata, nell’unità del pensiero del genere umano: in altri termini, mi sembra di poter affermare che, per entrambi, gli interrogativi fondanti sono gli stessi che abitano il senso comune: ai quali il «lavoro intellettuale» ovvero l’attività simbolica deve fornire risposte, ogni volta che sia possibile, tecnicamente perfette.

Così, queste note sono qui per testimoniare il mio modesto sforzo di restare fedele, se non alle risposte, almeno alle questioni che una volta ci hanno reso amici.


*Sulle tematiche trattate in questo scritto, nel 2007 DeriveApprodi ha pubblicato di Franco Piperno l’opera Lo spettacolo cosmico. Scrivere il cielo: lezioni di astronomia visiva, con disegni di Roberto Gelini.

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