Un racconto di quattro futuri
Nonostante le apparenze e ciò a cui siamo da lungo tempo abituati a pensare, il neoliberalismo si sta sgretolando. Questa è l’ipotesi di base del saggio di Christopher Newfield, che analizza questo processo concentrando la propria attenzione sulle trasformazioni del sistema universitario. Indipendentemente dagli interessi che li muovono e dalle conseguenze concrete che avranno, sostiene l’autore, le azioni riformiste a cui sono state costrette varie amministrazioni statali, tra cui quella americana, offrono al mondo dell’istruzione superiore l’opportunità di integrare le critiche ancora necessarie all’università neoliberale, razzista e coloniale con piani prospettici volti a una ricostruzione radicale. Si disegna così un campo di battaglia, al cui interno Newfield tratteggia quattro possibili futuri. Quale di questi futuri prevarrà, dipende anche da ciò che le forze critiche e i movimenti sociali sapranno fare.
Il saggio, di cui oggi pubblichiamo la prima parte, è stato originariamente pubblicato in inglese da «Radical Philosophy» nell’estate 2021 (https://www.radicalphilosophy.com/article/universities-after-neoliberalism), che ringraziamo per la possibilità della traduzione.
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Siamo abituati a un neoliberalismo a senso unico, che continua a presentare le sue caratteristiche familiari: austerità del bilancio pubblico, mercatizzazione, privatizzazione, sussidi incrociati selettivi a favore delle imprese e della tecnologia, precarizzazione del lavoro professionale e razzismo strutturale. Ma sotto la pressione delle forze sociali internazionali, il neoliberalismo si sta sgretolando. Queste forze includono la crisi della salute pubblica indotta dal Covid-19, l’emergenza climatica, le molteplici forme di razzismo e neocolonialismo, i pesanti effetti della disuguaglianza economica. Il neoliberalismo si è rotto in luoghi come l’Ungheria e la Turchia, dove è stato sostituito da una forma autoritaria di capitalismo nazionale [1]. Qualcosa di simile è accaduto negli Stati Uniti con Donald Trump, che ha avviato un nuovo ciclo di tagli alle tasse denunciando la liberalizzazione del commercio. Allo stesso tempo il centro liberale, incarnato dalla «terza via» dei nuovi democratici di Joe Biden, si è allontanato dalla tradizione che va da Reagan e Thatcher fino a Clinton, Obama e Blair.
Il Piano americano per l’occupazione (Ajp) e il Piano americano per le famiglie di Biden sono meno interessanti per il contenuto o le dimensioni che per le azioni simboliche. Essi segnano un chiaro cambiamento di paradigma rispetto a un quarantennale consenso dominante rispetto alla legittima sovranità delle imprese sull’economia [2]. Il «Fact sheet» di 12.000 parole dell’Ajp dichiara che quattro decenni di economia conservatrice sono stati un fallimento per la vita nazionale. La Reaganomics viene presentata come una forma di sottosviluppo applicata ai lavoratori del paese e alle popolazioni di colore, che ha portato a una società indebolita e incapace di fare affidamento sui suoi sistemi pubblici decrepiti quando ne aveva più bisogno, ad esempio durante la pandemia Covid-19, e nel contesto delle nuove rivalità tra grandi potenze. Sull’importante livello dell’inquadramento di paradigma, l’Ajp di Biden mira non solo a evitare gli errori di Obama, Geithner e Summers, ma anche di Roosevelt, Kennedy e Johnson: non è cieco di fronte al colore ma consapevole della questione della razza, e promette esplicitamente di distribuire le risorse in modo da ridurre le disparità razziali. Ad esempio, dei 40 miliardi di dollari richiesti da Biden per il potenziamento delle infrastrutture di ricerca, la metà sarà destinata agli storici college e università nere e ad altre istituzioni al servizio delle minoranze. Il Senato degli Stati Uniti distruggerà questo piano, ovviamente. Ma il quadro è già dato: la nottola di Minerva ha spiccato il volo alla luce del sole.
Le critiche pubbliche all’austerità che abbiamo visto provenire da Biden e anche da Boris Johnson non andranno molto lontane da sole. Ma in molti settori – energia, polizia, casa, banche e finanza – la recente fase del neoliberalismo «punitivo» sta perdendo la sua base politica [3]. Una serie di grandi pacchetti riformisti negli Stati Uniti e i salvataggi per quasi tutto, tranne che per le università e l’arte, nel Regno Unito, offrono al mondo dell'istruzione superiore l’opportunità di integrare le critiche ancora necessarie all’università neoliberale, razzista e coloniale con piani per una ricostruzione radicale.
Almeno quattro futuri
Il primo punto che voglio evidenziare è come la situazione attuale ponga l’istruzione superiore di fronte a un neoliberalismo contrastato e costretto a cedere terreno rispetto a tendenze opposte, sia a destra che a sinistra. Dunque, secondo punto, sono possibili molteplici percorsi per l’università anglo-americana nel 2020. La terza questione è che le strade seguite dalle università dipendono non solo dalle politiche governative, ma anche dagli obiettivi e dalle azioni dei movimenti sociali all’esterno e all’interno delle università. Affronterò questi temi in ordine sparso.
Le università si stanno dirigendo non solo verso un futuro noto, ma anche verso altri tre futuri che diverse persone hanno immaginato. Si tratta in realtà di quattro forme di studio del futuro. Non sono, infatti, solo possibilità astratte: l’idea è che ciascuna di esse possa essere generata da rapporti di sviluppo lungo gli assi indicati.
Il primo futuro potrebbe essere chiamato declino frammentato, ottenuto dalla combinazione di privatizzazione (asse x) e piattaforma (asse y), in cui la deliberazione democratica viene rimpiazzata dal managerialismo aziendale. Questa è la traccia del business as usual: la storia senza gioia del «declino annunciato». Le condizioni di questo futuro erano già presenti ma sono state bloccate dalla politica e dalle deboli risposte amministrative degli anni Dieci, un decennio che ha visto un notevole aumento della privatizzazione e del controllo manageriale delle università britanniche. Nel Regno Unito, David Willetts e il governo di coalizione hanno tagliato i finanziamenti centrali e li hanno sostituiti con tasse pagate attraverso i prestiti agli studenti, producendo un’esplosione del debito studentesco. Allo stesso tempo, sono aumentati anche l’audit manageriale e il controllo diretto sull’insegnamento e sulla ricerca, segnalati da una proliferazione di indicatori, in particolare il Teaching Excellence Framework (Tef) e il Longitudinal Educational Outcomes (Leo).
I professionisti considerano tali indicatori profondamente sbagliati come misure della qualità dell’insegnamento o delle quantità di apprendimento. Come tecniche di conformità indotta, invece, hanno avuto un grande successo. In quanto misura, il Leo mette semplicemente in relazione l’attuale flusso di reddito di un ex studente con il suo corso passato. Non ha alcuna base per affermare che la partecipazione al corso abbia generato il reddito; più in generale, il reddito è un effetto del modo in cui il mercato del lavoro valuta le vocazioni e non l’istruzione universitaria, quindi sta meramente misurando qualcosa di diverso da ciò che è nel suo nome. Eppure, come il Tef, ha esteso la classificabilità e la stratificazione tra le università, ha costretto i nuovi «perdenti» ad affannarsi per aumentare i tipi di funzioni e comportamenti per i quali gli indicatori selezionano, e ha rafforzato l’autorità del governo nel dire al settore cosa fare [4]. I risultati principali sono stati la frammentazione degli scopi del settore, l’accresciuta disuguaglianza delle risorse, la maggiore povertà per le istituzioni che hanno più probabilità di istruire gli studenti più poveri e non bianchi, la riduzione delle risorse per la maggior parte delle università, se non per tutte. Il declino frammentato è un futuro che già conosciamo.
Un secondo possibile futuro è quello di un’università senza debiti. Sebbene riformista, questo futuro richiederebbe una rottura importante con quarant’anni di politica dell’istruzione superiore. Qui la proposta Sanders-Warren si basa sull’apertura di Biden a sviluppare il «College for All» in un New Deal per l’istruzione superiore (per citare un paio di progetti statunitensi all’interno di questa proposta). Il National Education Service dei laburisti dell’era Corbyn ha abbozzato una versione britannica, anche se dopo Corbyn qualsiasi versione futura di questa idea dovrà probabilmente essere promossa da gruppi della società civile. In questo futuro, una sorta di New Deal genererebbe un’università senza debiti per tutti gli studenti, scenario che in pratica si può realizzare solo attraverso un’istruzione superiore senza tasse [5]. Per far sì che ciò avvenga, il sistema fiscale dovrebbe subire un notevole aggiustamento, che a sua volta richiederebbe un’organizzazione popolare sempre più elevata e una pressione politica sempre più forte. Tuttavia, l’università gratuita, pur mantenendo bassi i costi per gli studenti, conserverebbe l’attuale disuguaglianza delle risorse universitarie, una disuguaglianza profondamente razzializzata. In questo secondo futuro, l’università diventerebbe più economica, ma rimarrebbe ingiusta come lo è oggi. Dal momento che la riduzione delle tasse universitarie, senza un intervento statale importante per compensarla, ridurrebbe anche le entrate di ogni università, il futuro senza debito per gli studenti potrebbe significare più debito istituzionale e insicurezza per le università. Ciò, a sua volta, significherebbe più disuguaglianza e mediocrità dell’istruzione.
Un terzo futuro possibile è dato dall’equiparazione dei finanziamenti. In questo caso, vari movimenti sociali potrebbero utilizzare l’apertura di Biden per spingere il «College for All» verso il superamento del razzismo strutturale e delle disuguaglianze di classe nelle risorse educative. Ciò comporterebbe un’economia politica completamente nuova per l’istruzione superiore. Andrebbero distribuite le risorse per raggiungere l’uguaglianza degli input economici tra le diverse popolazioni di studenti, calibrando tali input in base alle necessità: gli studenti meno preparati riceverebbero più risorse didattiche e non meno, come avviene attualmente. L’obiettivo esplicito è l’uguaglianza dei risultati formativi. Verrebbe utilizzato il sistema fiscale per rimediare alle ingiustizie della distribuzione del reddito, che riflettono l’interazione storica delle forme di accumulazione coloniali/imperiali e neoliberali. Definirebbe i bisogni educativi e li metterebbe a bilancio di conseguenza, piuttosto che l’odierna pratica inversa di stabilire la scarsità di bilancio e poi assegnare le opportunità educative.
Un quarto possibile futuro è abolizionista e mira a smantellare del tutto l’attuale università, per sostituirla con processi di apprendimento completamente non capitalistici e decolonizzati. Le idee su come funzionerebbe questo sistema potrebbero essere tratte dalle strutture educative e dalle epistemologie indigene esistenti e si svilupperebbero nella dinamica stessa di costruzione. Questi processi sarebbero ispirati da diverse combinazioni di pensiero indigeno, decoloniale e antirazzista, comprese le loro critiche alle epistemologie del Nord globale.
Questo quarto e più ambizioso futuro è fondato sulla critica delle teorie del bene pubblico riguardanti gli effetti sociali dell’istruzione superiore, in quanto tra l’altro si basano sul furto di terre caratteristico dell’appropriazione coloniale [6]. La critica del neoliberalismo ha confermato le intuizioni abolizioniste rispetto a vari abusi dei beni comuni. Nel suo nuovo libro In the Shadow of the Ivory Tower, ad esempio, Devarian Baldwin mostra come i college pubblici abbiano usato il loro status di istituzioni non profit per sostenere il controllo della città da parte dei costruttori privati [7]. Data la sua preoccupazione per il finanziamento pubblico come crocevia di forze coloniali ed espropriative, è improbabile che questo quarto futuro faccia leva sulle risorse dei sistemi fiscali nazionali o statali. Potrebbe consistere in iniziative locali che riflettono epistemologie situate e identità intrecciate. Queste potrebbero privilegiare l’autorganizzazione in zone autonome quasi permanenti; le attività si svolgeranno probabilmente all’interno della società civile e in questo senso saranno private, anche se organizzate collettivamente e comunitariamente. Avrebbero molti modelli a cui attingere per l’organizzazione, tra cui le cooperative, le scuole della libertà, i college tribali, i sistemi sociali a essi collegati e i servizi offerti dai movimenti sociali.
È stato fatto un lavoro prezioso per delimitare le trasformazioni abolizioniste rispetto a quelle anti-neoliberali/antirazziste e a quelle del bene pubblico [8]. Le linee sono distinte. Le storie dei popoli indigeni, messe in primo piano nei futuri abolizionisti, si sono sviluppate in un violento conflitto con le università pubbliche nate dall’espansione coloniale e dalla relativa appropriazione di terre. Queste memorie e queste differenze devono essere rispettate e preservate. Anche le logiche neoliberali e neocoloniali hanno interagito in passato e continuano a farlo. Ad esempio, le tecniche di privatizzazione tolgono ai discendenti dei sudditi coloniali britannici delle borse di studio precedentemente disponibili per le popolazioni studentesche a maggioranza bianca negli anni Novanta e Duemila: in questo caso sono rilevanti sia le critiche anti-neoliberali che quelle decoloniali. Discuterò successivamente un modello simile nell’Università della California.
È probabile che gli elementi dei futuri tre e quattro si sviluppino insieme. Ho collocato l’abolizione all’estremità privata dell’asse privato-pubblico perché si basa in parte sul rifiuto dei quadri del bene pubblico di derivazione coloniale ed è probabile che, almeno all’inizio, funzioni con i contesti locali, con le loro differenze e risorse. Tuttavia, vorrei che le sue istituzioni autonome fossero finanziate da una società più ampia attraverso il meccanismo fiscale e che la loro portata aumentasse senza ridurne l’indipendenza o la distinzione di valori, episteme e pratiche. Penso che dobbiamo fare entrambe le cose. Lo stesso vale per le relazioni tra gli altri futuri possibili. La liberazione dal debito sembra una misura a metà strada, e lo è, ma per essere realizzata richiederebbe comunque un massiccio sconvolgimento dell’economia politica e della psicologia di gruppo sia negli Stati Uniti che nel Regno Unito. L’immensa energia necessaria potrebbe a sua volta portare a ulteriori sviluppi.
Critical university studies
Gli effetti della combinazione di managerialismo e privatizzazione su studenti, docenti, ricercatori e personale amministrativo sono diventati chiari nel mio luogo di lavoro, l’Università della California, all’inizio del secolo, e dal 2003 mi sono messo a lavorare in modo più sistematico sulle loro cause. Un obiettivo era capire cosa comportassero questi cambiamenti. Il boom del debito studentesco è uno di questi effetti, ma ce n’erano altri meno visibili, come lo spostamento dei fondi per la ricerca dalle discipline umanistiche. Un altro obiettivo era quello di identificare i meccanismi che hanno creato questi effetti, in modo che gli accademici, compreso il personale amministrativo e gli studenti, potessero affrontarli in modo più efficace. Dovevamo cercare qualcosa di simile alla verità che si celava dietro il marketing continuo che le università rivolgevano a politici, dirigenti, studenti e genitori. Ad esempio, il marketing affermava che gli studenti a basso reddito avevano un percorso universitario gratuito, mentre i dati dimostravano che prendevano in prestito lo stesso denaro degli studenti a medio reddito: questo dato doveva essere dimostrato e poi diffuso [9]. Dovevamo spiegare i meccanismi: come faceva esattamente il modello statunitense ad «alte tasse e alti aiuti» ad aumentare il debito degli studenti? Intendevo questo lavoro come un’inchiesta materialista sull’economia politica dell’università, sulla base di punti di riferimento precedenti come Academic Capitalism di Slaughter e Leslie (1997), attivandomi a partire dalle discipline umanistiche invece che dalle scienze sociali o dal settore scientifico e tecnologico dell’università, e portando alla luce processi tecnici ed effetti formativi e sociali indesiderati. Nel 2010, con la mancata ripresa dell’università pubblica dalla crisi finanziaria, speravo che questo studio misto di cultura, istituzioni e finanza servisse ad accrescere l’attivismo sul posto di lavoro dei miei colleghi accademici, compresi gli studenti. Il mio obiettivo era quello di trasformare le università esistenti piuttosto che uscirne o abolirle, anche se la pratica attuale è così radicata e discorsivamente potente che l’abolizione diretta potrebbe alla fine rivelarsi più fattibile. Tornerò su questo punto.
Nel 2012 Jeffrey Williams ha definito l’interdisciplinarietà di questo tipo di lavoro «Critical university studies» (Cus), scrivendo:
Una delle tendenze dominanti della teoria postmoderna è stata di guardare in modo riflessivo al modo in cui si costruisce la conoscenza; questo nuovo filone guarda in modo riflessivo alla «fabbrica della conoscenza» (come l’ha definita il sociologo Stanley Aronowitz), esaminando l’università come un fenomeno sia discorsivo che materiale, che si estende a molti aspetti della vita contemporanea. [...] Cus rivolge un occhio freddo all’istruzione superiore, tipicamente considerata un’istituzione neutrale per il bene pubblico, e mette in primo piano la sua politica, in particolare il modo in cui essa costituisce un campo di lotta tra interessi commerciali privati e interessi più pubblici. [...] [Analizza] come l’istruzione superiore sia uno strumento della sua struttura sociale, rafforzando la discriminazione di classe piuttosto che alleviarla.
Insisterei anche sul fatto che l’università rafforza la discriminazione razziale, dal momento che il definanziamento delle università relativamente accessibili ha coinciso con l’aumento delle persone di colore presenti tra la popolazione studentesca: le guerre culturali degli anni Ottanta sugli interventi antirazzisti si sono presto intrecciate con le guerre di bilancio che hanno ridotto l’autonomia finanziaria delle università pubbliche [10].
La conoscenza dei Cus doveva essere un sapere attivista, poiché la disgregazione interna è l’unica cosa che impedirà al futuro del declino frammentato di continuare indefinitamente. Questo perché il modello privatistico-manageriale fornisce un risultato economicamente funzionale. Non è il risultato che le università commercializzano, ma si adatta bene al capitalismo contemporaneo. Inoltre, nessuno spiega al pubblico come i risultati reali e quelli mercatizzati differiscano. Questa spiegazione è diventata un altro obiettivo dei Cus.
I Cus hanno cercato di spiegare il funzionamento del modello attuale e di dimostrare che le sue cure hanno aggravato la malattia: l’aumento delle tasse universitarie, l’indebitamento degli studenti, i progetti di capitale finanziati con il debito, le sponsorizzazioni della ricerca da parte delle imprese sono stati elementi perlopiù negativi per le entrate, con l’eccezione principale delle tasse universitarie, o hanno richiesto un aumento dei prezzi per la comunità universitaria, come nel caso dei partenariati pubblico-privato per gli alloggi degli studenti [11]. Il modello attuale genera il primo futuro come risultato predefinito. Il modello costituito da alte tasse elevate e aiuti finanziari continua così. Il debito degli studenti aumenta, anche se più lentamente. Il debito istituzionale aumenta. I finanziamenti pubblici rimangono stagnanti e sono pronti per essere tagliati al primo segnale di recessione fiscale. Le condizioni finanziarie dei diversi tipi di università continuano a divergere. Le istituzioni più selettive e con le maggiori dotazioni private sono isolate dalla crisi fiscale, mentre tutte le altre lottano, scendono a compromessi, spesso si riducono e talvolta chiudono.
È possibile sostenere che questo sia semplicemente il modo in cui funziona il capitalismo neoliberale, per cui le università sono inevitabilmente lo specchio di forze economiche più grandi. Ciò implica che per rendere le università meno dannose bisogna prima attendere un cambiamento sociale più ampio, o addirittura una vera e propria rivoluzione [12]. Capisco l’attrattività di questa visione, che tuttavia sottovaluta i passaggi intermedi, le variazioni interne e la parziale o relativa autonomia di ogni settore dell’economia. Le università hanno molteplici identità simultanee ed effetti contraddittori. Sono istituzioni coloniali negli Stati Uniti e imperiali o postcoloniali nel Regno Unito, i governi si aspettano che forniscano la tecnologia per una supremazia militare ed economica permanente sulla scena mondiale; allo stesso tempo, permettono una ricerca autonoma che spesso è antistatalista, anticapitalista, antirazzista e antimperialista. Al contempo, sostengono la ricerca di base condotta da persone che non hanno come obiettivo prioritario il guadagno: ciò significa che, per quanto imperfetti possano essere i loro metodi e parziali siano i singoli individui, il processo e i risultati sono relativamente indipendenti dall’economia e dallo Stato.
Le università sono considerate dalla destra politica di entrambi i paesi come una minaccia sistemica all’ordine politico e sociale, e in effetti a volte lo sono. Mentre scrivo, l’amministrazione Johnson sta ampliando la campagna di demonizzazione degli studi critici sulla razza e di epurazione dei membri dei comitati culturali percepiti come non sufficientemente anti-woke; ciò segnala la serietà con cui i conservatori considerano le idee universitarie nella loro quotidianità. Negli Stati Uniti le guerre culturali sono state rilanciate da Trump e vengono nuovamente amplificate come arma contro il movimento di Biden verso l’inclusione economica e sociale: queste crociate sono troppo note per necessitare di ulteriori spiegazioni.
Note [1] Sull’Ungheria, si veda G. Scheiring, The Retreat of Liberal Democracy: Authoritarian Capitalism and the Accumulative State in Hungary, Palgrave Macmillan, London 2020. [2] Si veda, ad esempio, C. Durand, 1979 in Reverse, «Sidecar», 1 giugno 2021, https://newleftreview.org/sidecar/posts/1979-in-reverse; S. Watkins, Paradigm Shifts, «New Left Review», II, 127, marzo-aprile 2021, pp. 5-12. [3] W. Davies, The New Neoliberalism, «New Left Review», II, 101, 2016, pp. 121-134. [4] Si veda, ad esempio, R. Deem – J.-A. Baird, The English Teaching Excellence (and Student Outcomes) Framework: Intelligent Accountability in Higher Education?, «Journal of Educational Change», 21:1, 2020, pp. 215-243; S. Collini, Universities and «Accountability»: Lessons from the UK Experience?, in Missions of Universities: Past, Present, Future, Springer, New York 2020, pp. 55, 115. [5] Si veda C. Newfield, The Great Mistake: How We Wrecked Public Universities and How We Can Fix Them, Johns Hopkins University Press, Baltimore 2016. [6] R. Lee – T. Ahtone, Land-Grab Universities, «High Country News», 30 marzo 2020, disponbiile all’indirizzo https://www.hcn.org/issues/52.4/indigenous-affairs-education-land-grab-universities. [7] D.L. Baldwin, In the Shadow of the Ivory Tower: How Universities Are Plundering Our Cities, Bold Type Books, New York 2021. [8] A. Boggs et al., Abolitionist University Studies: An Invitation, «Abolition University», settembre 2019, disponibile all’indirizzo https://abolition.university/invitation/; S. Grande, Refusing the University, in Toward What Justice?: Describing Diverse Dreams of Justice in Education, a cura di E. Tuck – K. Wayne Yang, Routledge, New York 2018, pp. 47-65; A Third University Is Possible, University of Minnesota Press, Minneapolis 2017; S. Stein, Navigating Different Theories of Change for Higher Education in Volatile Times, «Educational Studies», 55:6, 2 novembre 2019, pp. 667-688. [9] Anon, Trends in Student Aid 2020, «College Board», 11 giugno 2019, disponibile all’indirizzo https://research.collegeboard.org/trends/student-aid. [10] Sulle connessioni tra attacchi all’eguglianza razziale, ideologvia di mercato e trasferimento tecnologico, si veda C. Newfield, Unmaking the Public University: The Forty-Year Assault on the Middle Class, Harvard University Press, Cambridge, MA 2008. [11] S. Mejias Pascoe, UCSD Students, Faculty Push Back Against Steep Rent Hikes, «Voice of San Diego», 22 marzo 2021. [12] J. Clover, Who Can Save the University?, «Public Books», 12 giugno 2017, disponibile all’indirizzo http://www.publicbooks.org/who-can-save-the-university/.
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Christopher Newfield ha insegnato presso il dipartimento di inglese dell’Università della California, Santa Barbara. Da tempo attento studioso delle trasformaizoni dell’università, ha preso parte al network globale di edu-factory. Tra le sue pubblicazioni ricordiamo Unmaking the Public University: The 40-Year Assault on the Middle Class (2008) e The Great Mistake: How We Wrecked Public Universities and How We Can Fix Them (2016).
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