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La violenza e la cura: un doppio legame


Opsedale psichiatrico
Carla Cerati, Ospedale psichiatrico, 1968, in Gianni Berengo Gardin e Carla Cerati, 'Morire di classe, p.7.

Nel testo inaugurale di «compasso» Pietro Barbetta insiste sulla questione che vorremmo provare a mettere a tema in questa nuova sezione di Machina. L’analisi proposta dall’autore è genealogica e disegna una prospettiva di analisi delle pratiche della cura psi a partire dalla sua manifestazione, se così si può dire, piuttosto che concentrandosi sulla sua funzione sociale. Questo obiettivo è portato avanti da Barbetta proponendo le vicende di tre casi storicamente eclatanti: Lucia Joyce (l’amatissima figlia di James), il progetto di Kingsley Hall (il progetto utopico inglese) e infine il caso del giovane Jean-Jacques Abraham (l’uomo con il magnetofono). Si tratta di svelare il meccanismo attraverso cui i dispositivi della cura producono una gabbia sulla vita. Questo contributo esce non a caso l’11 marzo, giorno della nascita di Franco Basaglia. Passati 100 anni da quel momento è ora di rimettere in moto il suo pensiero e il suo sguardo di liberazione. Compasso vuole iscriversi prima di tutto in questo respiro e in questo proposito.


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Premessa

 L’assassinio brutale di Paola Labriola, Barbara Capovani e Francesca Romeo ha dato spunto ai mass media per rimettere in questione la legge 180, non è la prima volta e non sarà l’ultima. Dobbiamo riflettere su un elemento che sembra sfuggire ai più: si tratta di tre donne, tre mediche; potremmo aggiungere una quarta morte, Elena Casetto, in questo caso una paziente legata al lettino. Le donne cadono sul fronte della cura e, spesso, per mano dei maschi. Forse il modo di intendere la cura, il suo linguaggio, ha risvolti inconsci ancora non indagati, impensati. Queto saggio cerca di osservare le dinamiche della cura attraverso una riflessione genealogica sull’origine, piuttosto che sulla funzione. Al di là del bene e del male, dobbiamo chiederci quanto un ospedale somigli al Castello di Silling descritto dal Marchese De Sade[1]. È una questione etica; nel senso che l’etica sospende il giudizio morale della divisione bene/male per porre una questione più specifica: dove si collocano il bene e il male, da dove origina questa divisione stessa?[2]

C’è qualcosa di atavico nella terminologia della cura, si tratta di sconfiggere il male, ma il male non si lascia sconfiggere facilmente, è ostinato, come il bambino dalle uova d’oro, la cui danza con l’adulto viene raccontata nell’omonimo saggio da Elvio Fachinelli[3]. È lì che si snoda la singolare questione del lavoro di cura. Il controllo degli sfinteri nasce da un malinteso: l’adulto cerca di ottenere il controllo degli sfinteri, la cacca nel vasino e, quando finalmente accade, quando il cucciolo di antropo defeca nell’apposito pitale, alla gioia per l’impresa segue il disgusto, il gesto di gettare via l’oggetto. Se prendo il punto di vista del bambino, posso comprendere il suo sconcerto, il primo double bind: il mio primo prodotto, il primo dono per i miei genitori, la prima cosa che faccio, che esce dal mio corpo, procura loro entusiasmo, prima, e disgusto, subito dopo. Vorrei toccarla, odorarla, mangiarla, vorrei giocarci, ma mi viene sottratta e allontanata con quel fare che solo dopo apprenderò essere definito «schifo».

Questa vicenda ricorda l’interrogazione di Parmenide[4] a Socrate. Socrate espone a Parmenide la dottrina detta delle idee, ma Parmenide chiede se si possano avere, tra le idee, anche il sudore, i capelli e lo sporco – insomma, idee come il letame – e Socrate mostra la propria angustia al solo pensiero che ciò sia possibile. Angustia, qualcosa che stringe, soffocante: le idee soffocano l’esistenza reale delle parti oscure, delle ombre, questo almeno, sul piano filosofico.

Sul piano storico invece la civilizzazione moderna ha dovuto fare i conti con la sanità, l’igiene. Norbert Elias[5] ha illustrato come il processo di civilizzazione abbia visto impegnato Erasmo[6], nel De civilitate morum puerilium – del 1526 - e altri autori a indicare alcuni standard di condotte da tenere a tavola e nella conduzione della vita quotidiana a partire dal secolo XV, o anche prima. Elias si domanda se la psicoanalisi, nel mondo contemporaneo, mostri una rottura o una continuità rispetto al processo di civilizzazione iniziato con Erasmo e le altre opere intorno alla creanza, le buone maniere e il galateo. Come rispondere a questo quesito? Forse: dipende.

D’altro canto Erasmo[7] è anche l’autore dell’Elogio della follia e, se si leggono le pagine di quest’opera, si ha come l’impressione di trovarsi di fronte a un’incoerenza strabiliante: l’autore che, all’esordio dell’epoca moderna si premura di raccomandare ai genitori e agli educatori una retta educazione dei pargoli, vent’anni prima si era spinto a elogiare l’insanità. Questa incoerenza strabiliante è in fondo la radice di un duplice processo che caratterizza la modernità: l’avanzare della civilizzazione si accompagna alla crescita del desiderio dissidente. Le due componenti convivono l’una con l’altra dentro un conflitto in-«sanabile».

In questa nicchia si colloca la questione della cura e della violenza, o meglio, della cura come violenza: violenza diagnostico-performativa, violenza della massa, violenza interpretativa. Tre esempi storici.

 


1. Lucia e le altre. Violenza diagnostica

 Ho già scritto[8] riguardo al processo di istituzionalizzazione psichiatrica che coinvolge Lucia Joyce in manicomio, alla quale il padre si oppone con tutte le forze, non a torto. Il giudizio delle istituzioni psichiatriche è violento  e definitivo, persino la speranza di James Joyce di salvare Lucia da questo inesorabile giudizio, accompagnandola a Zurigo da Jung, si rivela fallimentare.

Per Joyce, Lucia è telepatica: riesce a leggere fenomeni del futuro e del presente, che non si percepiscono, fenomeni occulti; ciò la rende vulnerabile. Le sue reazioni, che appaiono sconvolgenti ai più, in particolare alla madre Nora e al fratello Giorgio – che fa di tutto per farla internare – sono correlate alla capacità di vedere quanto accadrà, quanto è accaduto, o quanto sta per accadere, senza che gli altri se ne rendano conto. Hélène Smith, sua contemporanea, era considerata una medium ed era stata oggetto di studi da parte dello psicologo Theodore Flournoy[9], ma Lucia non ha la stessa sorte e viene internata come schizofrenica. Ci vorranno molti anni prima che Carol Loeb Shloss[10]scriva la biografia di Lucia Joyce e ripercorra il tragitto che ha portato la figlia di James a finire in manicomio per quarantott’anni, dal 1934 al 1982, anno della sua morte. In un romanzo dedicato a Lucia, scritto da Alison Leslie Gold[11] si mostra ciò:

 

Più tardi durante il giorno l’ospedale fu informato della morte della madre […] Quando la signora Leary condusse la signorina Weaver e due aiutanti presso la stanza della signorina Joyce … [la signorina Joyce] chiese: “Ti ha inviato mia madre per portarmi un cappotto di pelliccia? Viene a prendermi?” La signora Leary senti un brivido correrle alla schiena. Era telepatica? (pp. 10-11).

 

Come accade sovente in questi casi, la violenza diagnostica coinvolge anche parte della famiglia; questa è la forza performativa della diagnosi, la sua oggettivazione in sentenza. L’unico a non credere nella schizofrenia di Lucia è il padre James. Tutti gli altri, la madre, il fratello, altri parenti e gli psichiatri incontrati all’epoca, incluso Jung, formulano questa infausta diagnosi – la metafora[12] della «schizofrenia» è letale – che le rimane attaccata fino alla morte. La diagnosi, così intesa, è violenza. Una violenza che si perpetra e si perpetua, macchia che non può cancellarsi di dosso, ripetizione senza differenza.

La storia di Lucia Joyce, è la storia di Camille Claudel, Janet Frame, Alda Merini, Antonin Artaud, Louis Wolfson, benché ad alcune delle persone elencate le vicende della vita siano state meno infauste.

Un racconto di Garcia Marquez[13], Sono venuta solo per telefonare, descrive in maniera esemplare questo processo. Una donna la cui auto rimane in panne durante un diluvio, chiede aiuto per strada e un’auto si ferma a raccoglierla. L’auto si reca presso un manicomio e la donna, che chiedeva solo di chiamare il marito al telefono per il soccorso, si ritrova internata a vita, senza alcun diritto di chiamata telefonica, isolata per un periodo imprecisato di tempo. Ogni suo tentativo di ribellione e fuga è interpretato come recidiva clinica e quando, dopo un tempo imprecisato, il marito si reca a trovarla, e le dice «mi dicono che stai migliorando», suscita in lei un nuovo impeto violento, che la riporta verso la «regressione».

Questo tipo di violenza esiste ancora, non è memoria. Consiste nell’uso della forza contro le persone che soffrono, come a silenziarle. Accade nei servizi psichiatrici di ricovero, nei centri di raccolta dei richiedenti asilo, nelle carceri, nelle aree di tortura istituzionale. Accade in deroga alla democrazia: un elemento di totalitarismo si innesta dentro l’istituzione democratica, una sorta di veleno, di acido che scioglie il legame sociale. È una pretesa che scaturisce nel cuore dell’opinione pubblica, ogni volta che i mass media -– la «gente» – i famigliari, gli stessi «pazienti» o «utenti», chiedono un intervento finalizzato a rinchiudere, silenziare, negare la differenza. È una retorica che vuole, salvare la vita, attraverso la violenza necessaria. La percezione del rischio[14] nel mondo della cura capovolge la cura in contenzione[15].

 


2. Kingsley Hall. Violenza dell’opinione pubblica

 Kingsley Hall, a Londra, è un esperimento che ricerca una maniera alternativa per prendersi cura della follia. Ronald Laing sviluppa un progetto sulla linea dell’esperienza di Franco Basaglia, ma con alcune differenze: mentre Basaglia pone il problema di cambiare l’istituzione psichiatrica, abolendo i manicomi, il progetto di Kingsley Hall è anti-istituzionale e si può condensare in ciò: la follia è una sorta di devianza radicale rispetto al senso comune, al modo di pensare dominante e al sistema delle abitudini di massa. L’arte, la letteratura e la cultura possono diventare linee di fuga dalla castrazione diagnostica e dall’emarginazione. Laing e colleghi concepiscono un laboratorio comunitario senza barriere, le persone che vi si recano possono restare o andarsene, sono invitate a produrre attività di vario tipo, e, se vogliono, a un trattamento con sostanze allucinogene, al quale si sottopongono anche i curanti.

Secondo Piero Cipriano[16], la somministrazione reciproca di LSD avrebbe favorito una regressione nella relazione psichedelica. Cipriano menziona l’esperienza di Psilocybin con Timothy Leary: sotto la condizione dissociativa il paziente e il terapeuta farebbero cadere la barriere inibitorie, smantellando i meccanismi difensivi e favorendo la relazione tra le parti. Non sono certo che accadesse lo stesso a Kingsley Hall, tuttavia l’esempio di Cipriano è paradigmatico di una mescolanza che Michele Capararo ha indicato nei termini di «chimica delle relazioni»[17].

Certo Kingsley Hall fu un’esperienza di Utopia, ispirata agli umanisti Cinquecenteschi: Tommaso Moro, Tommaso Campanella, Sebastian Brandt. L’idea di chiudersi in una casa, per prendersi cura reciprocamente, segue l’impulso letterario erotico – in Boccaccio – e libertino/sadico – come nelle Centoventi giornate di Sodoma –, ma è proprio questo il punto di riflessione: quanto la cura somiglia all’esperienza del Castello di Silling, ma – anziché mostrarsi attraverso le pagine di un poema, di un romanzo o una pellicola – si presenta nel Reale.

A Kingsley Hall accadono eventi di vario tipo[18], come le performance artistiche di Mary Edith Barnes, che generano la protesta del vicinato e la relativa chiusura della struttura. Kingsley Hall viene chiusa per varie ragioni, tra le quali la difficoltà di mantenere, in una zona densamente abitata di Londra, un’istituzione orientata al no-restraint, in cui le diversità tra terapeuti e pazienti vengono sostituite dalle differenza tra i soggetti co-presenti nella comunità. Kingsley Hall non può resistere a lungo, neppure nella ultra-democratica Londra degli anni dei Rolling Stones e di Jimi Hendrix; perché sfugge al controllo sociale.

Oggi nel Regno Unito non si può fare nulla senza il controllo del National Health Service. Paradossalmente: se lo Stato possiede il monopolio della violenza, deve possedere anche il monopolio della cura.

 


3. L’uomo col magnetofono. Violenza dell’interpretazione 

 Negli anni Sessanta del secolo scorso, in Belgio, un paziente sequestra il suo psicoanalista[19]. L’episodio accade nello studio del dottore. Il giovane, a nome Jean-Jacques Abraham, dopo anni di analisi, si reca presso lo studio clinico munito di magnetofono. Intende registrare la seduta, in violazione delle rigide regole della sepsi. Il dottore si oppone, si rifiuta di parlare, sorge una colluttazione in cui il giovane ha la meglio, si para davanti alla porta dello studio, impedisce all’analista di chiamare la sicurezza al telefono e impone al curante di ripetere le formule psicoanalitiche intorno alla castrazione e quant’altro nel nastro magnetico. L’incontro dura un certo tempo; a conclusione del sequestro, il medico invia il giovane in psichiatria, ma Abrahams fugge in maniera rocambolesca e invia la registrazione magnetica dell’evento accaduto a Jean-Paul Sartre, che ne pubblicherà la trascrizione su Les Temps Modernes, contro l’opinione di G.B Pontalis e Bernard Pingaud. L’homme au magnetophone sarà poi un libro di Jean-Jacques Abrahams, nel 1969. Anni dopo, nel 1975, per «L’Erba Voglio», casa editrice e rivista di un gruppo di psicoanalisti e femministe milanesi, uscirà in italiano, a cura di Elvio Fachinelli[20]. Si apre un dibattito su violenza e psicoanalisi una decina d’anni dopo la denuncia basagliana della violenza psichiatrica.

Si tratta di un diverso tipo di violenza, meno eclatante, più sottile: la violenza dell’interpretazione.

In effetti la trascrizione dell’evento accaduto nello studio di Van Nypelseer può venire visto sotto almeno due punti di vista. Il primo: la lettura di Pontalis, Pingaud e, forse, della maggioranza degli psicoanalisti e degli intellettuali benpensanti, è quella di una violazione di un professionista della salute mentale, una mascalzonata intollerabile, da punire in quanto gesto delinquenziale. Il secondo: l’interpretazione di Sartre e, sulla scorta di Sartre, di Fachinelli – e del gruppo che ha riaperto la questione nel 2017[21] – è che, questo sequestro da parte del giovane Abrahams sia una reazione, certo violenta, alla violenza istituzionale/interpretativa nascosta in quel tipo di cura psicoanalitica[22].

Secondo Fachinelli, il gesto di Abrahams va contestualizzato, Abrahams porta il magnetofono – «un singolare gatto selvatico» – dentro la stanza di terapia. Per la prima volta la pratica psicoanalitica viene esposta al pubblico, diventa pratica sociale, perde l’aura che caratterizza lo spazio terapeutico nei termini in cui Durkheim[23] definisce la differenza tra sacro e profano. In altri termini, il magnetofono di Abrahams è profanazione. Ma questa profanazione rende pubblico uno spazio privato inviolabile, una confessione plurisettimanale, infinita; una sorta di gabbia che nasconde la violenza dell’interpretazione. 

 

 

Note

[1] D.A.F. De Sade, Le centoventi giornate di Sodoma, ES, Milano 1991.

[2] F. Nietzsche, Al di là del bene e del male, Adelphi,  Milano 1977.

[3] E. Fachinelli, Il Bambino dalle uova d’oro, Adelphi, Milano 2010.

[4] Platone, Parmenide, Rizzoli, Milano 2004.

[5] N. Elias, La civiltà delle buone maniere, Il Mulino, Bologna 2003.

[6] Erasmo, L'educazione civile dei bambini, a cura di Giuseppe Giacalone e Stephane Sevry, Armando, Roma 1993.

[7] Erasmo, Elogio della Follia, a cura di Gabriella D'Anna, Roma, Newton Compton, 1995

[8] P. Barbetta, Follia e creazione, Mimesis, Milano 2012.

[9] T. Flournoy, Dalle indie al pianeta Marte. Il caso di Hélène Smith, Feltrinelli, Milano 2006. Ne scrivo in Linguaggi senza senso. Clinica transculturale, Meltemi, Milano 2023.

[10] C. L. Shloss, Lucia Joyce. To Dance in the Wake, Ferrar, Straus and Giroux, New York 2004.

[11]A. L. Gold, Clarvoyant, the Imagined Life of Lucia Joyce, Hyperion, New York 1992.

[12] S. Sontag, Malattia come metafora, Einaudi, Torino 1978.

[13] G. G. Marquez, Dodici racconti raminghi, Mondadori, Milano 1992

[14] M. Douglas, Come percepiamo il pericolo. Antropologia del rischio, Feltrinelli, Milano 1991.

[15] S. Rossi, a cura di, Il nodo della contenzione. Diritto, psichiatria e dignità della persona, Alphabeta Verlag, Merano 2015.

[16] P. Cipriano, Vita breve della psichiatria, dal manicomio alla psichedelia, Luca Sossella, Milano 2023 e Ayahusasca e cura del mondo, Politi Seganfreddo, Milano 2023. Si vedano anche P. Barbetta, Testi drogati e allucinogeni naturali, «Doppiozero» , 3 maggio 2023 e Il segreto del trip, «Doppiozero», 1° settembre 2023.

[17] M. Capararo, Storie umane di (neuro)scienza e sistemi di cura, in P. Barbetta – M. Capararo – T. Pievani, Sotto il velo della normalità. Per una teoria alternativa dei sistemi di cura della mente, Meltemi, Roma 2005.

[18] Per una valutazione adeguata sugli accadimenti di Kingsley Hall, si veda l’inchiesta di Dominic Harris, «Kingsley Hall: RD Laing’s experiment in anti-psychiatry» The Guradian 2/9/2012.

[19] Le vicende di Jean-Jacques Abraham sono state più recentemente rievocate in G. Conserva – P. Barbetta – E. Valtellina, Un singolare gatto selvatico. Jean-Jacques Abraham, l’uomo col magnetofono, Ombre Corte, Verona 2017.

[20] E. Fachinelli, a cura di, L’uomo col magnetofono, L’Erba Voglio, Milano 1975.

[21] Tra costoro: Giacomo Conserva, Enrico Valtellina, Naninga Lens, Antonello Sciacchitano, Lea Melandri, Alfredo Riponi e il sottoscritto.

[22] Per una critica a questo tipo di impostazione psicoanalitica si veda E. Fachinelli, La mente estatica, Adelphi, Milano 1989. Si veda anche Psychoanalysis in Milan in the Age of Alienation: The Case of Elvio Fachinelli in The Years of Alienation in Italy. Factory and Asylum Between the Economic Boom and the Years of Lead, A. Diazzi – A. Sforza Tarabocchia, Palgrave Macmillan, London.

[23] É. Durkheim, a cura di Massimo Rosati, Le forme elementari della vita religiosa,, Mimesis, Milano 2013.


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Pietro Barbetta insegna Teorie psicodinamiche all’Università di Bergamo, membro di World Association for Cultural Psychiatry (WACP) e Presidente della sezione Lombardia di International Society for Psychological and Social Approach to Psychosis (ISPS), tiene seminari presso diverse Scuole di specializzazione in psicoterapia a orientamento sistemico e psicoanalitico. Ha lavorato in vari paesi europei (Spagna, Portogallo, Svizzera, Francia, Gran Bretagna), nord (Canada, Stati Uniti, Messico) e sudamericani (Colombia, Brasile, Argentina). La sua ultima pubblicazione, uscita per Meltemi, s'intitola Linguaggi senza senso. Clinica transculturale.

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