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La ricerca del reale


Giovanni Fontana


I. Il buon senso alla ricerca del reale 

Il reale come criterio – ciò che è reale e ciò che non lo è – non è solo una nozione, nell’accezione positivista del termine, indispensabile alla tecno-scienza, ovvero alla mega fabbrica della ricerca che fa capo al settore militare-industriale. Il reale come concetto è, in definitiva, necessario all’attività stessa del pensare. Il termine quindi è essenziale e, allo stesso tempo, anche un po’ vago.

Proviamo dunque, in maniera inevitabilmente sommaria, a entrare nell’ambiguità della parola. Nel senso comune, il reale è spesso il tangibile, ciò che può essere toccato; o meglio, procedendo a un primo contenimento dell’ingenuità, tutto ciò con cui entriamo in contatto tramite i sensi, tutto ciò di cui abbiamo sensazioni dirette. Ma questa delimitazione della parola si risolve, con ogni evidenza, in un drastico impoverimento semantico, e quindi, diciamo così, in un realismo amputato – valga come esempio il caso del magnetismo terreste che per il realismo ingenuo è semplicemente inesistente. D’altro canto se, come propone l’epistemologia positivista, includiamo nel reale tutto quello che provoca in noi delle sensazioni, anche solo indirette, allora adoperiamo, ancorché inconsapevolmente, un criterio di verificabilità che prima d’essere un semplice criterio diviene il fondamento stesso della nostra definizione di reale.

II. Il reale come accordo intersoggettivo Infatti, in buona sostanza, la verificabilità di un concetto, il suo corrispondere a un elemento di realtà, riposa, per l’epistemologia positivista, quella della tecno-scienza, sull’accordo intersoggettivo. Ma la debolezza di questo criterio è stata riconosciuta da coloro stessi che inizialmente l’avevano proposto, quasi fosse una sorta di panacea universale per tutti i problemi che si presentano nella filosofia della scienza. L’esistenza stessa dell’accordo intersoggettivo si rivela senza fondamento; per non dire delle difficoltà a dare un senso, tramite questo stesso criterio, ai giudizi che concernono il passato. A volere riassumere i tratti essenziali della epistemologia operazionale o positivista, possiamo affermare che essa ritiene che sia privo di un significato ben definito il concetto stesso di «realtà indipendente da colui che l’osserva»; di conseguenza si limita a formulare regole operazionali del tipo «se si fa questo si osserva questo altro». III. Obiettività debole vs obiettività forte Così questa epistemologia – largamente egemone nella tecno-scienza, in particolare nella astrofisica e nelle alte energie – esige solamente che gli enunciati siano validi per qualsivoglia osservatore. Nel seguito chiameremo l’«obiettività debole», quella sottesa dalla epistemologia positivista; e per meglio caratterizzarla converrà contrapporla a un altro tipo d’obiettività – che chiameremo «obiettività forte» o «realismo matematico» – alla quale è restato fedele Albert Einstein lungo tutto il corso dell’opera sua.

Scrive il fisico svizzero: «... c’è qualcosa come lo stato reale di un sistema che obiettivamente esiste, indipendentemente da osservazione o misura, e può in linea di principio essere descritto per mezzo della fisica matematica – quale sia questa descrizione che può avvenire tramite punti, rette, coniche, quadriche, analemmi, campi o anche per tramite di grandezze ancora da definire, ...perché il realismo in senso forte non è un’impresa già bella e conclusa ma piuttosto un programma di ricerca. Ma tutti gli esseri pensanti tengono a cuore, magari inconsapevolmente, questo programma perché nessuno dubita sul fatto che un albero che crolla nel bosco produca un rumore anche quando non c’è nessuno per avvertirlo...». Il tratto caratteristico del realismo di Einstein, rispetto all’operazionalismo positivista, è l’attenzione alla dimensione propriamente filosofica della scienza della natura e per essa della fisica: il riferimento costante all’ontologia, il tentativo continuamente rinnovato di avvicinarsi a una descrizione fedele di «ciò che è». Si tratta di un realismo matematico: esso esige che gli enunciati delle leggi fondamentali che reggono i fenomeni naturali debbono essere obiettivi in senso forte; ovvero risultare privi di qual si voglia riferimento, fosse anche solamente implicito, alle capacità dell’osservatore e ancor più ai limiti di queste capacità. Certo, i concetti messi in gioco sono stati scoperti tramite gli esperimenti formulati nel linguaggio formale delle matematiche; e in questo senso è del tutto legittimo considerarli costrutti umani. Ma se questi concetti risultano possedere una maggiore potenza esplicativa e predittiva ciò è dovuto appunto alla loro adesione – o almeno alla loro minore lontananza – alla struttura stessa della realtà indipendente dall’uomo. IV. Il realismo matematico Del resto, Einstein non è né il primo né il solo a investigare la natura del reale utilizzando i saperi matematici; senza risalire fino a Talete e Pitagora, basterà qui ricordare il realismo matematico di Galilei o quello geometrico di Spinoza. V’è tuttavia una cesura tra Einstein e i due autori citati: infatti Galileo afferma che il reale dentro cui viviamo sia letteralmente costituito da «rettangoli e cerchi» malgrado che questo non appaia evidente al senso comune; mentre Spinoza ritiene di dimostrare come l’etica sia una vera e propria scienza universale tramite le verità eterne racchiuse nella geometria euclidea – particolare patetico per gli spinozisti della domenica, quelli dei giorni nostri: proprio nel periodo durante il quale l’olandese scrive il suo capolavoro, «Etica more geometrico demostrata», la comunità scientifica del tempo riesamina i postulati di Euclide e accerta la natura totalmente convenzionale della sua geometria; e nascono così le nuove geometrie che, per rigore matematico, niente hanno da invidiare all’opera di Euclide. Il realismo matematico di Einstein, la nozione di una «realtà indipendente dall’osservatore» è volto a evitare non solo il solipsismo gnoseologicamente paralizzante ma più in generale le incongruenze che subito affiorano quando «reale» diviene sinonimo di «accordo intersoggettivo». Per il fisico svizzero infatti la regolarità dei fenomeni non va solo descritta ma in qualche maniera va anche spiegata. E questa spiegazione può offrirla solo un ricorso alla nozione di reale. Si noti che, contrariamente ai rimproveri che gli sono stati indirizzati da Bohr, Schrödinger, Heisemberg e gli altri fondatori della teoria dei quanti, Einstein non si rifugia certo in una visione passatista del concetto di realtà, cioè in una concezione secondo la quale lo «stato reale» di un sistema dovrebbe essere descritto tramite i concetti che già ci sono familiari. Una simile concezione non solo è quella propria, come già notato, a Galileo e Spinoza ma, almeno implicitamente, contraddistingue tutta la fisica classica. Einstein, invece, afferma con chiarezza che la scienza della natura abbisogna di «...concetti matematici ancora sconosciuti e ancora da inventare». Come abbiamo già osservato, il suo realismo matematico è un realismo in senso forte e tuttavia aperto, ovvero, appunto un programma di ricerca. V. Il principio di causalità relativistica Tutte, o quasi, le qualità di questo programma si possono riassumere in una legge di natura nota come «principio di causalità relativistica». Esso suona così: «nessuna influenza fisica può propagarsi con una velocità maggiore di quella della luce». Esiste in letteratura almeno una altra formulazione di questo principio che risulta del tutto equivalente e viene chiamato «principio di località». Infatti, perché la causalità relativistica possieda un senso preciso deve riferirsi alla realtà indipendente dall’osservatore; e una condizione necessaria perché questo avvenga è, con ogni evidenza, che la localizzazione di un oggetto fisico in una qualsivoglia regione dello spazio appaia come una proprietà dell’oggetto stesso, appartenente alla realtà; e quindi indipendente da colui che osserva o misura. Ora, e qui siamo al punto cruciale, a partire dal principio di localizzazione, con una deduzione appartenente pienamente alla fisica classica, si perviene a delle conclusioni, dette «disuguaglianze di Bell» che, necessariamente vere in teoria, si rivelano falsificate dall’esperimento. Siamo quindi giunti, pur nel rigoroso rispetto della teoria, a un realismo senza luogo: una contraddizione insanabile tra principio di causalità relativistica e principio di localizzazione: uno dei due risulta necessariamente falso. VI. Il teorema di Bell Date le conseguenze catastrofiche, per la coerenza interna alla teoria, della violazione delle disuguaglianze di Bell – violazione che nel seguito chiameremo per semplicità «teorema di Bell» – converrà riformulare il risultato raggiunto in altri termini. Nella prima metà del secolo appena trascorso, la scienza della natura, grazie in particolare al contributo di Einstein, perviene alla formulazione del «principio universale della natura locale dell’azione tra gli oggetti reali»; questo principio, del tutto equivalente al «principio di causalità relativistica», prescrive: oggetti sufficientemente lontani tra di loro non possono esercitare alcuna influenza l’uno sull’altro giacché un oggetto può interagire solo con ciò che si trova nelle sue vicinanze. Se questo assioma si rilevasse sperimentalmente falso l’idea stessa di «realtà costituita da entità separabili» perderebbe ogni fondamento fisico. VII. Realtà, località, separabilità Questo è proprio quel che è accaduto quando, a partire dagli anni Ottanta del secolo appena trascorso, il teorema di Bell, sottoposto a verifica sperimentale, si è rivelato falso. Sia detto per inciso: questa imprevista debacle del realismo matematico – debacle che costituisce di per sé una tra le più grandi scoperte del XX secolo – non ha turbato in nulla le certezze operazionali della tecno scienza (in particolare la ricerca nel settore delle alte energie e della astrofisica cosmologica) che si è limitata e si limita a rimuoverla, come se non fosse mai avvenuta. Certo, a priori è del tutto legittimo, malgrado l’abbandono del principio di località, ripromettersi di costruire una fisica i cui principi siano obiettivi in senso forte; ma se veramente la realtà indipendente dall’osservatore non consente la separabilità dei luoghi quale forma intellegibile potrebbe mai assumere la realtà descritta da questa nuova nonché ipotetica fisica? Intanto, val la pena sottolineare che la ricerca contemporanea non sta in nessun modo percorrendo questa via; al contrario, essa è generalmente sempre più «operazionalista»; sempre di più intrisa di virtuale; sempre di più libera dai vincoli di una realtà indipendente dall’osservatore; sempre di più ancorata alle due nozioni di «preparazione dello stato iniziale» e «misura delle grandezze osservabili» – nozioni che sono entrambe di natura tipicamente operazionale. Riassumendo, non si intravede alcuna concretizzazione di una nuova fisica capace di fornire una descrizione del reale che sia completa e coerente. Siamo talmente lontani da questo orizzonte che non è certo sacrilego avanzare il sospetto che oramai il reale è di natura non-fisica. A questo esito drammatico la fisica non è pervenuta in solitario; al contrario, è l’intero modo di produzione tardo capitalistico che si è via via privato volontariamente di ogni contatto, vero o supposto, con qualcosa che possa essere considerato reale. Così, come era inevitabile, la società tardo capitalistica è riuscita a ottenere la fisica che merita. VIII. Il reale, il vero, il nuovo L’essere umano è un’entità locale, cioè ha un luogo privilegiato che è il suo corpo. Egli quindi tende, per una sorta di bisogno ontologico, a cercare il contatto con il reale, per aderirvi al meglio. La ricerca di questo contatto è quel che ha fondato e poi alimentato la seduzione della scienza moderna, quella del XIX secolo. Ancora oggi la ricerca di quel contatto è ciò che rende forti e attrattive le religioni, in particolare nei paesi precapitalistici. Al contrario, l’abbandono collettivo della ricerca del reale crea il malessere collettivo nelle società tardo capitalistiche: perché quando la ricerca non ha per scopo quello di scoprire il reale il solo criterio con il quale giudicare l’attività culturale umana diviene il «nuovo». Certo, questo criterio ha accompagnato in modo decisivo la storia dell’umanità: ma diviene catastrofico quando gioca un ruolo egemone o addirittura unico, come accade nella società nella quale viviamo: perché allora consegue il risultato di valorizzare per poi svalorizzare qualsiasi cosa – questo circolo vizioso traduce l’esigenza tardo capitalistica di praticare a livello di massa la vanità consumatrice, la continua creazione di nuovi bisogni e nuove merci destinate a soddisfarli.

IX. Conclusioni provvisorie La modernità, l’Occidente, ha alterato e spesso addirittura distrutto i costumi e le mentalità tradizionali fino al punto da accreditare una diversa paradossale tradizione, la tradizione dell’innovazione, della produzione sociale del nuovo. Nelle civiltà non occidentali, a opera per lo più dei consiglieri occidentali, si ritiene che la questione della modernizzazione – occidentalizzazione dei modi di vita e delle mentalità collettive corrispondenti – possa essere risolta concedendo l’indipendenza nazionale ai popoli di tutti i continenti, per poi assicurare loro mezzi finanziari e tecnologie avanzate. Si tratta di un convincimento etico-politico semplice, troppo semplice, di una semplicità occultante. Qui l’ideologia della modernità, il pregiudizio sul primato antropologico dell’Occidente, tocca il suo vertice. In verità, la tecnologia contemporanea deriva massimamente dalla applicazione della scienza alla produzione; e, salvo a farne un uso passivo, non si può trasferire la capacità di fabbricare nuove tecnologie senza una comprensione delle scienze che le sottendono. Ora le verità scientifiche riposano su postulati concettuali non sempre apertamente dichiarati; detto altrimenti, la fisica è una filosofia della natura sicché è pressoché impossibile padroneggiarne la potenza pratica senza finire con l’assimilare i suoi presupposti filosofici. Questi presupposti, una volta interiorizzati, costituiscono una mentalità che è del tutto estranea alla mentalità tradizionale; innervata com’è, quest’ultima, da riferimenti di carattere familiare e patriarcale, ossia la famiglia, la casta o la tribù – universo valoriale proprio dei popoli indigeni dell’Asia e dell’Africa. Accade così che gli studenti di quei paesi, sottoposti alle forme e ai modi dell’educazione occidentale, si ritrovino attraversati allo stesso tempo da ben due «principi di individuazione», due educazioni sentimentali tra loro incompatibili: da una parte la modernizzazione e i costumi che essa impone nella vita morale e civile; dall’altra la mentalità tradizionale e le abitudini che a essa si accompagnano nel vivere quotidiano. Viene così interiorizzato un confitto emotivo, spesso inconsapevole, che ha come conseguenza una sofferenza da perdita d’identità, una demoralizzazione, una sorta di anomia schizoide che affiora con ogni evidenza proprio nell’azione pure tesa a una riappropriazione della tradizione; valga qui, come esempio estremo, la ribellione stravolta dell’Islam radicale, dove atti di culti arcaici ormai dispersi si mescolano all’uso abile di quelle stesse tecnologie messe a punto proprio da quella civiltà alla quale pur tuttavia si ha intenzione di sottrarsi se non di distruggere. Non si insisterà mai abbastanza su questo «unicum» che ha luogo in Occidente con la nascita stessa del modo di produzione capitalistico: l’applicazione della scienza alla vita quotidiana. Come ha osservato Koyré, si possono costruire basiliche, edificare piramidi, scavare canali, gettare ponti, maneggiare la metallurgia senza possedere alcun sapere scientifico. La scienza non è un fattore indispensabile allo sviluppo di una città, di una cultura e perfino di un impero. Alcune delle civiltà più longeve e che destano ancora oggi la nostra ammirazione – e.g. gli antichi Egizi, Babilonia, la Persia, la Cina, i Maya – hanno fatto a meno della scienza; e perfino nell’Occidente premoderno la scienza ebbe uno sviluppo, per così dire, mancato. X. Scienza è possibile? Ecco allora che tornano d’attualità le parole profetiche del filosofo francofortese: se vi fosse un mutamento nella qualità del progresso tale da rompere il legame tra la razionalità della tecnica e quella della divisione sociale del lavoro, vi sarebbe un cambiamento nel progetto scientifico, in grado di far sì che l’attività di ricerca, senza perdere la sua qualità razionale, si svilupperebbe in una esperienza sociale del tutto differente. In un mondo non lacerato dalla divisione tra lavoro manuale e intellettuale, non dominato dai saperi disciplinari, la scienza potrebbe forse elaborare una concezione della natura del tutto diversa, fondata su fenomeni essenzialmente differenti – insomma, una società veramente razionale sovvertirebbe l’usuale idea di ragione. Il filosofo francofortese riteneva che la razionalità scientifica occidentale fosse ormai divenuta un pensiero della tecnica, di una tecnica nata e cresciuta con la borghesia; e definitivamente legata alla divisione del lavoro propria al capitalismo industriale. Forse, il filosofo francofortese non aveva del tutto torto. Alla stesura di queste note in forma di tesi hanno collaborato, del tutto involontariamente, Auroux, d’Espagnat, Marcuse, Simondon e Weil.

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