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La pausa della storia

Recensione de «La fine della fine della storia. Lo strano ritorno della politica nel XXI secolo»





Come anticipato, a Settembre Machina intraprenderà un lavoro sugli anni Novanta, a lungo considerati l’epoca della fine della storia e delle ideologie. Forse, però, sarebbe più corretto interpretarli come gli anni dell’affermazione dell’ideologia del progresso liberal-democratico nella variante neoliberale. Possiamo dire che quell’epoca è terminata e che più che alla fine della storia abbiamo assistito ad una sua pausa? Vittorio Ray ragiona attorno a questo tema recensendo La fine della fine della storia. Lo strano ritorno della politica nel XXI secolo (Tlon,2022) di Alex Hochuli, George Hoare e Philip Cunliffe.


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Nel 2021, in piena pandemia, esce La fine della fine della storia. lo strano ritorno della politica nel XXI secolo (tradotto in Italia da Tlon nel 2022), un testo che nel linguaggio internettiano contemporaneo potremmo chiamare «basato di sinistra» o alt-left: da una prospettiva più o meno dichiaratamente militante i tre autori, uno brasiliano (Alex Hochuli) e due inglesi (George Hoare e Philip Cunliffe), cercano di inquadrare la crisi trentennale della sinistra fino all’ultima delusione della sinistra populista (2020 circa), non prima di aver lungamente indugiato sulla disfatta della sinistra liberale nelle campali battaglie di Trump e Brexit. Parla di fenomeni abbastanza recenti, di cui tuttavia si è discusso già molto, magari in modo frammentato, soprattutto su internet. Il libro ha il merito di raccogliere e organizzare quelle riflessioni in un sistema coerente, il cui raggio d’analisi è nientemeno che un’intera epoca – la nostra. Ma che cosa è un’epoca? Un'epoca è un periodo di tempo relativamente lungo, caratterizzato da tratti distintivi e rilevanti nello sviluppo della storia, della cultura, della scienza, dell'arte o di altri aspetti della società umana. Un’epoca è di solito più lunga di una singola generazione e può durare da decenni a secoli, se non addirittura più a lungo.

Le epoche sono spesso definite da cambiamenti significativi in vari ambiti, come l'economia, la politica, la tecnologia, l'arte, le credenze religiose o i valori culturali. Ad esempio, l'età del Rinascimento in Europa è stata un'epoca caratterizzata da un grande fermento culturale, scientifico e artistico, mentre l'era industriale ha segnato una rivoluzione nell'economia e nella produzione grazie all'introduzione delle macchine a vapore.

E in cosa consiste la nostra epoca? È prassi ormai comune non porsi affatto questo problema, perché la risposta, qualunque essa sia, comporterebbe l’assunzione di una serie di responsabilità intellettuali che difficilmente i nostri contemporanei sono disposti a prendersi; per farla breve, per descrivere un’epoca è necessario soprattutto fare astrazione. Mentre perlopiù il postmoderno ci ha insegnato il valore del particolare, dell’individuo, della singolarità – rendendo quindi molto impopolare l’astrazione –, questo libro osa invece gettare uno sguardo lungo, astratto, universale, sul nostro tempo e sul suo significato. Ed ecco un altro termine bandito dal milieu filosofico contemporaneo (quantomeno continentale): il «significato», il senso, sono ormai considerati residui di quel periodo ormai alieno (eppure così vicino) che fu il Novecento. Il testo in questione merita dunque di essere letto innanzitutto perché rappresenta una felice e coraggiosa eccezione nel panorama culturale contemporaneo: esso parla del senso della nostra epoca, proprio come avrebbe fatto un filosofo che non aveva ancora conosciuto Lyotard e i suoi ammonimenti.

Approfondiamo il concetto, ed entriamo nel vivo del testo. In questo libro è presente una tesi forte, una narrazione, e non a caso la sua stella polare è Hegel, la nemesi del postmoderno. La tesi del libro è che, mentre ci sembrava che tutto filasse liscio sotto il sole dell’ordine neoliberale, erano in realtà all’opera nel mondo forze telluriche e sotterranee che avrebbero interrotto e turbato quella pace inaugurata con il crollo del Muro di Berlino. Gli autori individuano alcune faglie storiche responsabili di tale sconvolgimento. Ma facciamo un brevissimo passo indietro.

Nel 1989 crolla il Muro di Berlino, e con esso le speranze e i desideri di una significativa parte di mondo che aveva «la necessità di una morale diversa», per dirla con Gaber, da quella del sogno americano. Nel 1992 esce La fine della storia e l'ultimo uomo di Francis Fukuyama, testo che sancisce la ratifica in sede filosofica della fine della Guerra Fredda e della dialettica fra ideologie, e l’inizio della (quantomeno congetturata) serenità neoliberale. Fukuyama sosteneva che la democrazia liberale rappresentasse la forma finale di governo e che avrebbe sancito il culmine dell'evoluzione politica dell'umanità: si trattava appunto dell’epilogo della storia, intesa come «scontro» nel senso greco del termine, pòlemos. La storia, fino a quel momento, era stata il difficile cammino dell’uomo verso il progresso condotto al prezzo di guerre campali e spargimento di sangue; oppure, detto altrimenti, la storia era stata semplicemente il processo di affermazione del più forte, con le buone o con le cattive maniere. Quale che fosse il punto di vista, dopo il crollo del Muro si fece strada l’idea che non esistessero più ideologie alternative o sistemi politici in grado di scontrarsi fra di loro o di competere con la democrazia liberale in termini di legittimità e validità: la stasi di Parmenide si sostituiva al pòlemos eracliteo, e l’ordine americano vinceva definitivamente perché era il più forte e il più giusto, o almeno così sembrava.

Ora, se questa è la celeberrima vulgata che del testo di Fukuyama si diffuse, è tuttavia necessario sottolineare che esso esibiva una serie di sfumature e di sottigliezze che forse ingiustamente furono dimenticate dai suoi critici; insieme a un enorme successo, Fukuyama attirò su di sé moltissime critiche per le quali fu successivamente spinto a ritrattare parte della sua opera – critiche che gli si continuano a muovere ancora oggi: gli si obiettava, a ragione, un eccessivo ottimismo sul futuro del mondo, nonché di assumere una prospettiva eccessivamente occidentale. Quello che interessa a noi in questa sede, però, non è tanto ripercorrere filologicamente quelle diatribe culturali, quanto fissare alcuni punti propedeutici al ragionamento dei nostri autori. In particolare, essi forniscono una parziale riabilitazione di Fukuyama, se non altro stabilendo le coordinate del discorso originario: egli non intendeva dire che la storia fosse finita nel senso che sarebbero scomparsi gli eventi, o che la successione del tempo si sarebbe interrotta, o che gli Stati Uniti avrebbero continuato a dominare il mondo per sempre. Semmai l’idea era che nella Guerra fredda si fosse assistito soprattutto a uno scontro tra ideologie, cioè tra sistemi di governo, e che a un certo punto aveva prevalso (forse per sempre) il sistema della democrazia liberale e dell’economia di mercato, indipendentemente dal paese geografico che più di tutti in quel momento ne rappresentava l’epitome (gli USA). Fin qui, la tesi di Fukuyama.

Ma questo ordine statunitense, sostengono gli autori, non era destinato durare a lungo: oggi infatti «l’autorità intellettuale e politica del neoliberismo è crollata».

Per convalidare questa tesi gli autori propongono una efficace periodizzazione in tre momenti: fino al 1989 era in atto uno scontro di tipo «politico», da un lato il socialismo, dall’altro il neoliberalismo. Dal 1989 fino al 2007 segue la fase della «post-politica», dove si osserva una diminuzione dell'impegno ideologico e un senso di apatia diffuso. I movimenti radicali in questo periodo sono spesso marginali, astratti, disorganizzati e velleitari. La politica diventa sempre più depoliticizzata, e le questioni sociali vengono affrontate affidandosi con sempre più sollievo e senso di deresponsabilizzazione alla tecnocrazia. Infine segue la fase dell' «anti-politica», caratterizzata da movimenti come quello di Beppe Grillo e Podemos, guidati da una crescente rabbia e disillusione collettiva.

Durante la fase della «politica», che precede il crollo del Muro di Berlino, era molto comune la partecipazione politica attiva e l’impegno ideologico marcato. Le divisioni politiche tra Est e Ovest, insieme a una fervente lotta tra ideologie, dominavano il panorama politico internazionale, e ad ogni segmento sociale corrispondeva una rappresentazione politica piena e diretta. Successivamente, nel periodo della «post-politica», un intero ramo ideologico viene ritirato dal mercato delle idee, rendendo l’offerta liberale una sorta di monopolio ideologico della classe media, del quale si convincono o devono convincersi anche ceti sociali che non ne sarebbero stati spontaneamente parte. Cavalcando la crisi economica del 2008, l'arrivo della fase dell '«anti-politica» conduce a una svolta. Quella disforia di classe (cioè il sentimento soggettivo di appartenere a una classe, la quale però non corrisponde davvero alla propria reale condizione economica), anche indotta da una generalizzata crescita economica, si infrange contro il muro della crisi, del debito accumulato e dei tagli alla spesa. Movimenti come quello di Beppe Grillo in Italia e Podemos in Spagna emergono con una retorica anti-establishment e una rabbia diretta contro la classe politica tradizionale, enfatizzando la corruzione e l'inadeguatezza delle élite, e denunciando la politica come un'arena di interessi privati, malaffare e abiezione.

In questo quadro, segnato da un progressivo allontanamento dalla politica, e poi da un suo progressivo ritorno – nella forma «della rabbia e della sfiducia popolare» – gli autori collocano la fine della pax americana. Ma questa «fine» non è ancora un inizio: «la globalizzazione è entrata in fase di stallo, ma non è ancora regredita, [...] il neoliberismo tira avanti barcollando e risulterebbe irriconoscibile agli occhi di un osservatore degli anni Ottanta», l’impero americano non sembra più così centrale... Viviamo pienamente, secondo gli autori, in quella dimensione di interregno descritta da Antonio Gramsci in una nota dal carcere nel 1930: «La crisi consiste nel fatto che il vecchio muore e il nuovo non può nascere: in questo interregno si verificano i fenomeni morbosi più svariati».

Uno degli esempi più rilevanti di questo interregno è il ritorno della politica in una forma talmente iperbolica da risultare caricaturale: nel commentare il populismo (grillino, per esempio) con la sua enfasi contro la «corruzione», gli autori rilevano come tali movimenti mancano di comprendere e riconoscere alla politica, pur esaltandone la purezza, la dimensione di radicale libertà in cui essa dovrebbe muoversi; con un’immagine potente e paradossale gli autori affermano che «l'autonomia della politica vuol dire anche la libertà di essere corrotti»: solo dove esiste una sfera politica autonoma in senso kantiano, esiste anche la possibilità di essere corrotti. La politica viene descritta dagli autori come una volta Andrea Pazienza descrisse il fenomeno dell’amore: «amore è tutto ciò che si può ancora tradire». Non che sia un verso dall’esegesi nitida e univoca, ma ciò che conta, qui come sopra, è la regale e profonda assolutezza del soggetto. Da qui la parziale delusione per l’angusta visione della politica in questa fine della fine della storia: un mero rifugio e una proiezione dei nostri bisogni. «L’identità politica oggi è una rappresentazione diretta verso l’esterno del proprio sé autentico, una rappresentazione il cui significato in fin dei conti non riguarda la destra o la sinistra, ma il bene e il male. E ognuno necessariamente pensa che la propria identità politica sia quella della brava persona».

Dal punto di vista della forma, siamo davanti a un saggio in cui la voce diretta degli autori è molto presente, a volte anche con dichiarazioni di partigianeria e punte di sarcasmo verso il nemico. Questo registro talvolta suscita un senso di poca oggettività, vagamente straniante nella lettura di un saggio. Si potrebbe inaugurare l’etichetta di gonzo-essay, riprendendo il gonzo-journalism immersivo e marcatamente «di parte» di Hunter Thompson e dei suoi epigoni. E tuttavia il libro ha un tono molto convincente e informale anche quando è impreciso, vago o addirittura contraddittorio. È poco scientifico e molto suggestivo, dimostrandosi perfettamente in linea con la biografia degli autori, accademici ma anche militanti della sinistra populista. Ed è questa identità malcelata a rappresentare il principale limite teorico dell’opera. Ad esempio, in un passaggio gli autori sostengono che la nuova destra post-neoliberale o anche alt-right che aggrega oggi le classi lavoratrici continuerà a essere egemone solo finché la sinistra non riuscirà a superare il «moralismo minoritario» di oggi per ricostruire «processi decisionali maggioritari». Dietro queste formule a effetto e anche un po’ trite manca, ancora una volta, una vera proposta programmatica. Ma non è questo il problema più grande, perché dietro queste formule c’è invece l’ingenua credenza che la maggioranza delle persone sia automaticamente, naturalmente di sinistra. A prescindere dalla fase storica, dal conto in banca, dall’educazione impartita in famiglia. E se invece un corollario della fine della storia fosse proprio l'idea che essendo tutti un po' vincitori della storia, tutti abbiamo finalmente qualcosa da perdere (ad es. una piccola rendita, una proprietà) e quindi tutti abbiamo qualcosa da conservare? Rispetto al sogno europeo contemporaneo – un proprietarismo moderato e diffuso immerso in un ambiente di tolleranza e welfare – cosa offre oggi la «vera sinistra» di radicalmente alternativo? Come fanno gli autori ad essere sicuri che basterebbe «allargare il processo democratico» per arrivare a maggioranze di sinistra? In fondo, e usando proprio gli strumenti concettuali del libro, non è proprio una fede «tecnocratica» e «postideologica» pensare che le masse siano naturalmente di sinistra senza bisogno che ci sia uno scontro di idee e di prospettive di mondo? Dove finirebbe, a quel punto, il compianto pòlemos?

Altro assente di cui si avverte la mancanza nel testo è la politica internazionale in generale, e in particolare la Repubblica Popolare Cinese. Perché al di là delle scosse di assestamento interne, come Trump o la Brexit, le democrazie liberali occidentali non hanno ancora veri competitor interni; le tesi di Fukuyama, se pensiamo al nostro mondo, possono ancora dormire sonni tranquilli. Il grande avversario oggi è piuttosto la Cina (attenzione: proprio come Fukuyama, qui non ci interessa parlare della Cina o di altri attori come potenze industriali, militari, etc. cioè come «potenze di merito». Il piano della storia sarà pieno di soggetti che emergeranno e si faranno la guerra. Qui parliamo, come Fukuyama, di «alternative di metodo», cioè di tecnologie di gestione del potere). La tecnologia di gestione del potere cinese è radicalmente alternativa alla nostra, e ha dimostrato negli ultimi decenni di essere molto più performante, almeno su alcuni piani (pianificazione, armonia degli obiettivi). Questa competizione di fondo arriva tra l’altro in un momento caratterizzato da problemi sempre più «complessi» (parola di cui ci auguriamo un pronto divieto, ma finché è legale la usiamo e in qualche modo ci capiamo), che noi occidentali - europei in particolare, nell’esempio paradigmatico della crisi climatica - ci fregiamo di voler affrontare di petto e che però hanno bisogno di un coordinamento e di restrizioni capillari, che sono spesso in chiaro conflitto con molte libertà liberali alle quali ci siamo abituati nel Novecento. In opposizione a questa opulenta, costosa e sempre meno efficiente eredità, il modello cinese offre un sistema operativo che sembra essere molto più adatto a svolgere questi compiti. Certamente la fase di uscita dalla povertà del popolo cinese, pur rappresentando un successo straordinario nella storia dei modelli di governance, è stata anche «facilitata» dalla legittimità degli obiettivi e un contesto internazionale ancora poco allarmato. La vera fase di stress-test della tecnologia di governo monopartito inizia ora, con una competizione globale finalmente esplicita e paritaria, un ceto medio interno dalle aspettative sempre più ambiziose e ritmi di crescita che fisiologicamente calano. La partita è ancora aperta, e anzi è pieno di commentatori ottimisti che vedono già i segni di un desiderio diffuso di democrazia liberale tra le maglie della censura di Pechino. E d’altronde un libro che parla di fine della fine della storia, cioè di rimessa in moto del conflitto, può non parlare dell’avversario per eccellenza, l’unico vero altro-da-noi attuale? Ben felici per il primo, non ci resta che confidare in un secondo volume.


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Vittorio Ray è nato a Roma. Giornalista freelance, si interessa soprattutto di cultura e società. Ha pubblicato su varie riviste italiane. Cura la newsletter: iltuffatore.substack.com

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