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Un laboratorio per l'antirazzismo militante


Decolonizzare l'antirazzismo
Immagine: Emory Douglas, The Black Panther. Black Community News Service, 1970.

Questo commento ragionato a partire dal volume Decolonizzare l’antirazzismo. Per una critica della cattiva coscienza bianca (a cura di Tommaso Palmi, DeriveApprodi 2020), è  il primo contributo di una rubrica bimestrale, nella sezione Vortex, che propone recensioni, commenti e approfondimenti di testi e studi critici sulla razza e dal dibattito decoloniale, a cura di Vincenzo Di Mino: «Diaspore. Proposte di lettura e commenti per decolonizzare il dibattito antirazzista».

La Diaspora è assunta come sintesi dell’immaginario anticoloniale, un atto di liberazione e al contempo una lente attraverso cui interrogare voci, discorsi e pratiche dai margini politici, geografici, sociali e immaginari.  Permette di mettere a fuoco le trasformazioni in atto, attraverso una pluralità di sguardi situati nelle striature del globale, dove i margini si materializzano nel centro attraverso pratiche, discorsi e rappresentazioni. Assume il margine come metodo di analisi, come prisma attraverso cui osservare l’intreccio di resistenze e potere nella produzione di soggettività e nel ribaltamento del punto di vista, per portare alla luce le possibili genealogie alternative che decostruiscono l’impianto storico-politico occidentale, nelle sue varianti imperiali e in quelle delle sinistre ragioni umanitarie.

 

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Il 4 novembre, lo stesso giorno dedicato dal calendario civile repubblicano alla celebrazione della vittoria italiana del primo conflitto mondiale, il segretario del partito politico della Lega Nord, nonché ministro della compagine governativa e vicepremier, ha indetto una manifestazione a difesa dell’Occidente, utilizzando la figura e l’opera di Oriana Fallaci come fonti di ispirazione. Episodio che, se da un lato può strappare un sorriso, derivante dalle tipiche gradassate dell’uomo politico (non nuovo a exploit politico-ideologici del genere), dall’altro non fa che confermare le diagnosi che il pensiero critico, di stampo anticoloniale, ha sempre messo in evidenza: lo stretto legame, osmotico, tra militarismo e superiorità occidentale. Quest’ultima, infatti, si mostra formalmente come espressione di una differenza etica, culturale e antropologica, ponendosi su un piano di orizzontalità. Dietro questo tipo di discorso, però, emergono i due vettori che strutturano la stessa forma mentis occidentale: la prima è quella che, attraverso la maschera del relativismo, si trasforma in pedagogia coloniale; la seconda è quella che, insistendo sulla differenza, si mostra per quel che è, ovvero l’affermazione suprematista della superiorità occidentale.  Un quadro della presenza di entrambe le posizioni la si può trovare, nella loro forma schematica e quindi immediata, nei dibattiti mediatici sulla tragica e drammatica situazione mediorientale: a un occidentalismo di guerra, volto ad una difesa dogmatica e rigida di un presunto nucleo valoriale universale, si contrappone una sorte di apologia della vittima, uno sguardo pietista e autocolpevolizzante e narcisista, che distoglie lo stesso sguardo dai soggetti concreti per concentralo sulle modalità di intervento possibile da parte delle forze progressiste. Razzismo di stato e superiorità morale e intellettuale appartengono allo stesso brodo di coltura, e sono elementi che un pensiero antirazzista concreto, militante e decoloniale deve combattere. Il volume Decolonizzare l’antirazzismo, a cura di Tommaso Palmi, entra a pieno titolo dentro questo dibattito, fungendo da vero e proprio manuale introduttivo e operativo per un pensiero ed una pratica antirazzista. L’insieme di saggi che compongono il libro, frutto di un percorso seminariale svolto presso la Mediateca Gateway, concorrono alla costituzione di una macchina di pensiero con cui decostruire le imposture della «cattiva coscienza bianca» del sottotitolo, ovvero di quelle forme di antirazzismo progressiste, illuminate e democratiche sopra accennate. Punto di valore dell’opera, nonché elemento che accomuna i diversi contributi in esso contenuti, è l’ibridazione tra le riflessioni anticoloniali e la teoria anticapitalista, attraverso la fondamentale mediazione della soggettività agente, con cui stabilire un continuum storico tra i cicli diffusi di lotte anticoloniali e le possibilità (inesplorate) delle mobilitazioni antirazziste oggi. Questa dimensione intrinsecamente militante permette di leggere le tesi del libro sia attraverso una pars destruens delle tare e dei punti ciechi del pensiero occidentale, sia attraverso una pars costruens con cui annodare i fili dispersi della soggettività nel corso della storia e proiettarla sul terreno dell’attualità.

 

La razza come «casella vuota»

 La razza, nel corpus dei saperi occidentali, esiste come spettro multifunzionale, in grado di evocare diversi fenomeni disancorati da una materialità soggettiva concreta. Quando si parla di razza, infatti, ci si riferisce ai processi di gerarchizzazione sociale, dunque a soggettività marginali o considerate inferiori: la razza viene interpellata, viene enunciata ma non ha spazio per enunciarsi autonomamente. Tra razzismo, capitalismo e criminalizzazione, la razza rimane una casella vuota nella struttura sociale, un supplemento da significare in base al contesto sociale in cui essa è inserita, che non produce nessun effetto sociale rilevante: essa esiste in forma puramente negativa. I contributi di Mellino, Curcio, Sbraccia partono da questa considerazione basilare, per evidenziare la natura razziale e coloniale dell’impianto conoscitivo europeo. In primo luogo, la stretta connessione tra capitalismo e colonialismo produce il razzismo come tecnologia istituzionale di produzione di spazi e popolazioni, e la colonialità come struttura intellegibile di gerarchizzazione epistemologica e sociale. In questo senso, la razza è parte dei saperi storici e di quelli antropologici, intesi come elementi in grado di determinare gerarchie. Mellino evidenzia la natura profondamente coloniale dei saperi antropologici, per la griglia di lettura delle dinamiche umane che essi costruiscono attraverso fenotipi come il colore o idealtipi come la natura criminogena dei non-bianchi. Quello che Anna Curcio, sulla scorta di Noel Ignatieff, chiama «race management» è un tipico processo della modernità capitalista occidentale e della sua necessità di mobilitare su scala globale la forza lavoro umana, sia stimolando gli spostamenti (il triangolo schiavista dell’Atlantico nel diciassettesimo e nel diciottesimo secolo, le migrazioni europee verso gli Stati Uniti del diciannovesimo secolo) che amministrandone l’inclusione, ovviamente attraverso la linea del colore. La nazionalizzazione e l’urbanizzazione dei fenomeni migratori hanno stimolato la produzione di specifici saperi di marca antropologica; nel caso italiano, il positivismo di marca lombrosiana ha permesso la costruzione di una immaginaria «razza maledetta» meridionale, frutto specifico di un processo di colonizzazione razziale interno ai processi di state building post-unitari, che ha a sua volta generato uno specifico razzismo interno tangibile anche in epoca fordista. In campo criminologico, come sottolineato dal contributo di Alvise Sbraccia, il razzismo strutturale ha permesso di costruire la figura idealtipica del migrante con deviante congenito, così da costruire una specifica governance differenziale dello spazio urbano attraverso la produzione di spazi specifici in cui collocare e amministrare i migranti stessi. Su un altro piano della governance, la figura del migrante è associata tout court a quella del deviante, ed è dunque una quella figura di «folk devil» in grado di produrre uno specifico «moral panic», per usare le importanti categorie di Stanley Cohen, così da generalizzare il contagio criminale e produrre una forma di amministrazione improntata al «sentencing» penale, ovvero alla gestione securitaria della questione razziale. Il secondo vulnus di questo nucleo di saperi è quello che evidenza la connessione genetica tra organizzazione statale, struttura capitalista ed esclusione razziale. Il contributo di Jamila Mascat assume la razza come elemento di disgiunzione tra due genealogie del concetto stesso, quello di Michel Foucault e quello di Cedric Robinson. Il filosofo francese francese tratta abbondantemente della razza nel corso del 1975-1976 dedicato ad analizzare la genesi del potere biopolitico, intitolato «Bisogna difendere la società»: essa emerge come il prodotto di una lotta sociale e storiografica per determinare la primazia genealogica nella produzione della macchina politica statale, ed è dunque utilizzata come elemento in grado di legittimare il «discorso del potere» dei dominanti, come sinonimo ulteriore di soggetto pericoloso e, in epoca rivoluzionaria, di «nazione» e di «classe». Foucault dunque nomina la razza per mostrarne gli effetti in termini di governance disciplinare prima e biopolitica poi, dunque come elemento generale all’interno della definizione dei rapporti di forza. In maniera specularmente differente, Cedric Robinson nomina la razza come elemento costitutivo della macchina capitalista. Sostanzialmente, alla serie foucaultiana «razza-potere-guerra» si può affiancare (e opporre, se necessario) la serie robinsoniana «razza-lavoro-capitale». Muovendosi sul terreno discorsivo aperto da Williams e DuBois, Robinson fa uso del corpus marxiano per criticarne le derive positiviste ed eurocentriche, cionondimeno facendone fruttare le più feconde intuizioni teoriche. Il locus centrale di questa analisi è il ventiquattresimo capitolo del primo libro del Capitale, incentrato sulle dinamiche conseguenti ai processi di accumulazione originaria, in cui la razza diviene una merce a buon mercato da accumulare e sfruttare senza sosta. Il capitalismo razziale è dunque quella forma di organizzazione sociale del plusvalore che fa perno sullo sfruttamento della razza e che oggi si riproduce attraverso modalità frattali come fenomeno sociale totale, come elemento in grado di valorizzare economicamente la differenza razziale e contemporaneamente metterla al lavoro in forme differenziali, come riserva di manodopera a buon mercato e come elemento su cui sperimentare le forme più avanzate e proteiche di sfruttamento. Il terzo punto critico del sapere occidentale si apre proprio su questo tema: la razza, incarnata nella figura del migrante, esplode fragorosamente con le migrazioni di massa del biennio 1981-1991 nel dibattito italiano ed in seguito europeo. Nella figura del migrante si condensano i fenomeni discussi fino ad ora: negando il legame tra razzismo e capitalismo, il migrante è rappresentato come vittima che necessita una specifica postura sociale. Il combinato disposto di ragione umanitaria e sensi di colpa pregressi produce nel milieu intellettuale progressista occidentale un cortocircuito teorico che attribuisce al migrante l’attributo di sacertas, negandogli la parola e svuotando la sua figura di qualunque portato conflittuale. L’accoglienza, infatti, è l’ultima frontiera delle politiche democratiche, ovvero un nuovo modo di escludere la figura migrante razzializzandola ulteriormente, esponendola ai processi di assimilazione culturale e inserendola docilmente all’interno del mercato del lavoro nazionale e trans-nazionale. Per parafrasare Fanon, ad oggi le maschere bianche dei dominatori coloniali sono diventate le maschere nere indossate sulla pelle bianca dei democratici occidentali, che ignorano la causa strutturale dei macro e micro-razzismi quotidiani e, anzi, le neutralizzano, traducendolo come effetto morale della superiorità occidentale.

 

La razza, elemento conflittuale

 La critica della connessione strutturale tra capitalismo e razza consente di introdurre la pars costruens del testo, ovvero quella dedicata alla enunciazione diretta delle soggettività razzializzate. L’opera di Robison, infatti, non è solo una critica acuminata del capitalismo razziale, ma pone allo stesso tempo le basi per la costruzione di un vero e proprio «black marxism». Quest’ultimo non è semplicemente un discorso teorico che vuole sottolineare le omologie tra capitalismo e razzismo (o tra democrazia e schiavitù), ma fondamentalmente un progetto con cui articolare pratiche sovversive e rivoluzionarie a partire dal riconoscimento della razza come elemento integrante della dimensione molecolare della classe. Black Marxism, di conseguenza, è il nome che prende il progetto di soggettivazione antagonista legato alla dimensione dello sfruttamento lungo la linea del colore. Robinson, infatti, porta a compimento il lungo processo di «divenire-classe» della razza che era iniziato con DuBois e proseguito con le lotte antirazziste e anticoloniali degli anni sessanta, con le riflessioni di Malcom X, Angela Davis e Huey P. Newton. Attraverso le loro riflessioni, infatti, è possibile articolare materialmente quella articolazione del dominio e dello sfruttamento attraverso i prismi della classe, della razza e del genere, da considerare come elementi co-costitutivi dei meccanismi di dominio e non come effetti articolati singolarmente all’interno del tessuto sociale. Il marxismo anticoloniale, a differenza di quelle forme di multiculturalismo afferenti al campo del «capitalismo woke», va alla radice dello sfruttamento e non prova a temperarlo o a democratizzarlo, ma vuole eliminarlo. Il contributo di Dhanveer Singh Bast presenta una genealogia del pensiero anticoloniale nello spettro del Black Atlantic, approfondendo le ipotesi avanzate dall’opera di Robinson. Il pensiero della Blackness è, costitutivamente un pensiero della diaspora, un pensiero che oscilla nella doppia coscienza tra la propria identità e quella imposta. È dunque un pensiero ibrido e spurio, prodotto dalla sofferenza e dalla lotte, posizionato nella serie topografica che lega nave, piantagione, casa, ghetto, fabbrica e prigione: un pensiero che lega segregazione e ricerca dell’autonomia, e che impianta i propri dispositivi di soggettivazione nel desiderio di fuga degli schiavi, dei coloni, delle donne e degli uomini in rivolta dentro le strutture coloniali. L’autrice propone una radice tripartita di questo pensiero, afferente a tre diverse esperienze storico-geografiche del colonialismo e dell’imperialismo di stampo anglosassone e atlantico. La prima è quella afroamericana, prodotta dall’opera di colonizzazione degli Stati Uniti e dall’importazione di forza lavoro attraverso la rotta africana, in cui la questione razziale emerge come casus belli della Guerra Civile e come elemento centrale delle lotte sociali a seguire; allargando lo sguardo, si può unire alla radice nera di questa conflittualità permanente anche quella degli operai immigrati nella prima metà del ventesimo secolo, organizzati dagli IWW. La seconda è quella caraibica, ovvero legata a quello che Edouard Glissant ha chiamato «Middle Passage», in cui la questione razziale si legava all’organizzazione sociale in caste, e che quindi permise un inedito sincretismo culturale tra questioni culturali e questioni immediatamente politiche. L’opera di riferimento per questo filone è quella di Walter Rodney, che mostrò tanto la fallacia delle coordinate eurocentriche della storia coloniale quanto la pericolosità delle politiche di assimilazione post-imperiale. In questo contesto, infatti, diventa storicamente centrale il concetto di «dispossession» della forza-lavoro e dei commons attraverso la dipendenza economica internazionale prodotta dal mantenimento del sistema della piantagione come forma di organizzazione sociale e del lavoro. Il terzo filone è quello britannico, rappresentato dalla figura di Stuart Hall e dal suo impatto sull’analisi degli effetti strutturali del razzismo e del colonialismo nella società britannica. Hall, marxista infedele, ibridò le analisi strutturali di Althusser con le analisi sulla materialità della cultura di stampo gramsciano, evidenziato la produttività dello studio delle subculture giovanili e metropolitane, che ibridavano le questioni di razza con quelle della composizione di classe giovanile. Se il colonialismo pervasivo forte del sapere e quello debole dei discorsi progressisti avevano enunciato la razza, i tre differenti rizomi della blackness antagonista e marxista diedero forza immediata alla voce ed alle rivendicazioni delle minoranze razziali, mostrandone la loro presenza non pacificata all’interno delle società post-coloniali occidentali. Altro caso è quello francese, discusso da Houria Bouteldja nella conversazione con Anna Curcio che conclude il volume. Parlando con l’esperienza degli Indigènes de la Republique alle spalle, l’autrice sottolinea con forza la necessità di una pratica decoloniale volta alla lotta contro l’assimilazione, perseguita dalle autorità governative francesi già all’indomani della decolonizzazione algerina, che nel corso del tempo ha dismesso i propri abiti progressisti per mostrarsi come politiche di integrazione forzata. Il bersaglio della critica, per Bouteldja, è tutto concentrato sull’antirazzismo di sinistra, che ha eliso completamente la dimensione coloniale del potere bianco francese, per concentrarsi sulla pacificazione razziale ex-legem. La sinistra francese, notoriamente, non ha mai rinunciato alla propria natura coloniale, con la condanna del Fln algerino da parte del Pcf come ciliegina sulla torta. Con una espressione forte, icastica e dal sapore iconoclasta, l’intellettuale enuncia la «fucilazione di Sartre» come gesto parricida con cui recidere i legami con la sinistra bianca e paternalista che ha agevolato la controrivoluzione coloniale attraverso la diffusione dell’islamofobia, la negrofobia e la romofobia, schierandosi dalla parte delle strutture repressive statali e non a fianco dei barbari. Per farla finita con le maschere bianche dell’ipocrisia sinistra bisogna riconoscere il valore politico, dunque rivoluzionario, della lotta antirazzista, e dunque mettere in piedi una politica di alleanze trasversali in grado di poter incidere sui rapporti di forza esistenti. In questo contrato, il soggetto razzializzato da vittima sacrificale può diventare attore in grado di parlare senza nessuna mediazione, un soggetto in grado di interpellare le cause strutturali che lo marginalizzano e di combatterle, ceteris paribus, con gli altri segmenti della composizione di classe.

 

Oltre l’antirazzismo istituzionale, politiche delle alleanze

 Il libro, in conclusione, fornisce degli elementi necessari al disvelamento della cattiva coscienza bianca, e offre degli spunti per intervenire nella tragica congiuntura odierna. Suprematismo morale/razziale e pietismo umanitario continuano ad essere le voci stonate di un unico spartito, quello del mantenimento della superiorità occidentale a tutti i costi. Ma per non buttare il bambino – il mondo occidentale – con l’acqua sporca – la macchina statale-razzista-capitalista – è necessario fare un passo di lato e tornare a riflettere, sulla scia dei contributi del volume, sull’interazione e l’interazione produttiva tra pensiero critico occidentale e pratiche antirazziste e anticoloniali. I lavori di studiose femministe, di provenienza marxista o decolonale, come quelli di Verges e Federici, evidenziano la forza che solo una politica delle alleanze diffuse, a trazione concretamente – e non per vezzo glamour – intersezionale, può apportare alla costruzione di processi di soggettivazione antagonista e ai processi di contropotere politico. Bisogna necessariamente, dunque, allargare e decentrare lo sguardo, e riconoscere nelle lotte femministe ed ecologiste elementi delle forme che prende la lotta di classe oggi, e provare a riprodurle in altri territori. In questo senso, le lotte antirazziste in Europa, oggi, devono andare oltre la critica dei confini, che rimane comunque un elemento primario e indispensabile, concentrarsi sulla critica del sistema di accoglienza, che predispone la cattura del migrante all’interno dei circuiti del lavoro nero, e dare visibilità alle lotte della forza-lavoro migrante dentro i circuiti dello sfruttamento (come, ad esempio, quello logistico). Il concetto di «decolonizzazione» viene costantemente risignificato a fianco delle lotte, ed è dunque pleonastica un’ operazione simile in questo scritto. Però, per mantenere sempre la bussola nella direzione esatta, bisogna ricordare che il percorso delle lotte sociali, oggi, passa dalla riappropriazione collettiva di questo concetto e dalle pratiche che attraverso esso possono e devono essere generate.


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Vincenzo Di Mino (1987), laureato in Scienze della Politica, è ricercatore indipendente in teoria politica e sociale.

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