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La gioia di una bugia anni Ottanta e tante care cose alle ideologie




Pubblichiamo un contributo della sezione «forme» che si inserisce nel progetto avviato da Machina sulla Cartografia dei decenni. Nel testo Simona La Neve analizza i cambiamenti avvenuti negli anni Ottanta dal punto di vista della pittura, dell'architettura, della fotografia e delle altre forme d'espressione artistica.


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«Non avete mai avuto la sensazione di essere stati fregati?». Secca, inesorabile. È l’affermazione più azzeccata per raccontare l’era di una generazione «no future», a un anno dal primo mandato di Margaret Thatcher e dall’invasione sovietica dell’Afghanistan. Ma è il ragazzastro dai denti marci Johnny Rotten nel 1978 ad averla affermata, il giorno del primo tour dei Sex Pistols. L’arrivo degli anni Ottanta lo si percepisce così, da dove meno ce lo si aspetta. Quell’ermeneutica del sospetto – di essere stati «tutti» fregati – lo gridava già l’arte dei situazionisti, provando a proporre delle alternative alla foga capitalista come generatrice di vite felici, ma è la propulsione degli anni Ottanta a mostrarne gli ineluttabili esiti. Una nuova generazione guidata dal desiderio consumistico, senza fervore di lotta, è accovacciata sui detriti di un ciclo di conflitti terminati e ammaliata accanto ai miti della tv dei nuovi canali privati. Se per il filosofo francese Jean-François Lyotard con il cambiamento dei modelli di produzione, siamo di fronte alla fine delle «grandi narrazioni» e della «modernità», per l’arte la demistificazione delle linee del tempo è l’unica traiettoria, masticata e risputata fuori in un unico intruglio, come una sapida chewing-gum tenuta su troppo a lungo. Il nomadismo stilistico dei primi anni Ottanta è perciò un riflesso di ogni «logica culturale» dell’economia. Dal ritorno al figurativo in pittura a un esasperante déjà vu di manierismi in cui si moltiplicano citazioni di opere colte o, parti di esse, all’estradizione dei concetti di «originale» e di «copia». Nel 1980 la Strada Novissima viene orchestrata dall’architetto Paolo Portoghesi per la Prima mostra internazionale di architettura della Biennale di Venezia. L’idea è di realizzare un percorso lungo 70 metri a grandezza naturale, dal titolo La Presenza del Passato. Ogni architetto poteva proporre il suo progetto di facciata. Le documentazioni ci mostrano come ognuno di loro per disegnare questi spazi urbani, ricorra a elementi staccati, spolpati a morsi da contesti di anni addietro, in una menzogna delle linee del tempo. Sono le pratiche dell’architettura postmoderna. Le opere di Michael Graves, Charles W. Moore e Robert Venturi con la loro sfrontatezza sono note nel riproporre un neoclassicismo destabilizzante nell’abaco delle possibilità. In particolare, quest’ultimo aveva già negli anni Settanta teorizzato e anticipato la riflessione sulle città e sulla crescita smisurata delle stesse, ponendo come emblema di città capitalista Las Vegas. Luci che alterano percezioni, pensieri, azioni e soprattutto la capacità di memorizzare e ricordare da dove siamo venuti e forse, dove siamo diretti. Proprio come fanno le droghe con il sistema nervoso. Se il termine postmoderno si diffondeva prima in architettura, nel definire l’impalcatura distopica delle nostre città, sotto il nome di Transavanguardia, c’è poi un gruppo sparso di artisti italiani di varie provenienze. Si recupera il figurativo e caoticamente si richiamano fonti della storia dell’arte, dal Futurismo alla Metafisica e dalla rievocazione degli anni Venti, alla produzione di stilemi cubisti e cézaniani. È la combinazione del pastiche, talvolta fuori contesto e spesso fuori dal senso. Julian Schnabel è probabilmente uno dei più noti insieme ad Anselm Kiefer e David Salle. Lo sbandieramento fiero del caos della rappresentazione che decostruisce e moltiplica il concetto di realtà[1], quasi a evocare impudenza, introduce inoltre un nuovo volto della fotografia. La teoria dei medium e in particolare quella che viene disegnata sotto il nome di Sarah Charlesworth, raccoglie una nuova generazione di fotografi impegnati a far emergere la fotografia radicata nella cultura, simulando più versioni della verità di ciò che i media ci mostrano. Questo gruppo di fotografi, tra i quali Richard Prince e James Welling, è figlio della nuova comunicazione e al contempo di nuove modalità di accedere a tematiche culturali quali la guerra, il colonialismo e i femminismi. Mentre si muovono passi fondamentali nella critica con teoriche della levatura di Angela Davis, nell’arte artisti come Martha Rosler e Allan Sekula ricorrono alla fotografia. Propongono tematiche differenti che sembrano suggerire un’articolazione del discorso più complesso e che sarebbe poi confluito, in un senso più ampio, nei Cultural Studies e nella decostruzione dei temi centrali come il potere e l’identità. First Lady dalla serie Portare in casa la guerra di Rosler ci preparava già, ad esempio, a una lettura sulla guerra in Vietnam e, contestualmente, a uno degli stereotipi possibili sulla donna, tutto in un’unica opera. Le tematiche, perciò, si intrecciano per una lettura della società che necessita di essere affrontata su più livelli, analizzando una vasta gamma di fenomeni sociali, politici e culturali. Cultural Studies 1983: A Theoretical History di Stuart Hall rappresenta una data cruciale per avviare una serie di teorie che ci permettono oggi di leggere anche il tempo presente. È proprio questa, infatti, la decade da cui provengono testi che inesorabilmente ci raccontano anche i nostri giorni, apparentemente così lontani dagli anni Ottanta. E la critica d’arte come reagisce a tale moto? «La società vuole sapere chi sono i Raffaello e i Michelangelo della situazione»[2]. Se in Italia Carla Lonzi dichiarava già a fine anni Settanta che: «la funzione critica appare in sé un vero e proprio progetto di falsificazione»[3] al contempo anche artisti dal calibro di Mimmo Paladino obiettano sul ruolo di un eventuale mediatore, esterno all’intuizione dell’artista. L’idea della misurazione dell’egotismo della critica si sviluppava proprio in quegli anni, nonostante alcuni autori avevano già individualmente espresso la propria posizione[4]. Nel 1981 Germano Celant cura al Centre Pompidou di Parigi Identité italienne con una ricognizione approfondita sulle principali ricerche artistiche degli anni Sessanta e Settanta in Italia, dichiarando il suo metodo. «Dando per scontato che l’opera è solo il prodotto dell’artista, spostavo su di lui la questione che un tempo era posta sull’opera»[5]. La strada in salita della critica d’arte era stata così intrapresa e, nel 1986 viene pubblicato The end of the art theory dell’artista Victor Burgin. Nel discorso intellettuale ogni certezza, utile a disegnare concetti, narrazioni e possibilità, sembra perciò orientata verso nuovi orizzonti decisamente più «liquidi» e, che offrono diverse versioni del concetto di verità granitica, ormai dissacrata. «Non esiste la società, esistono solo gli individui» dichiarava d’altronde Margaret Thatcher scollando le anime e, stigmatizzando l’era della privatizzazione come metodo possibile e preferibile, nella generale deregulation. L’avanzare delle nuove destre che passerà, anche e forse soprattutto per l’era di Ronald Reagan in America, si regge su un piedistallo stabile: il riconoscimento delle diseguaglianze come prodotto delle diversità e, non la causa delle stesse[6], favorendo l’emancipazione di uno sfrontato individualismo. Sì al lavoro, sì al profitto e a una coltre di giovani depotenziati dentro scheletri sfiancati dalle droghe, zombie le cui colonne sonore «no future» viaggiavano nei walkman. Ma se non è più possibile cambiare il mondo – motore della generazione dei giovani di ogni epoca – che senso ha ribellarsi? Nel pieno nichilismo del postmoderno il corpo si è già occupato di offrire un saluto con tante care cose alle ideologie mentre l’artista Joseph Beuys ci offre invero un’altra storia, forse un monito, carico di una rappresentazione simbolica e perlopiù poco tempo prima di morire. Beuys nella sua semplice azione Difesa della Natura vicino Pescara, il noto progetto nato intono al 1985, attiva un luogo senza tempo, una sorta di paradiso di 7000 alberi e arbusti di specie diverse, a salvaguardia di quelle in estinzione. «Non smettete». Non smettete di lottare o, almeno è così che ad alcuni, forse pochi, piace pensarla guardando a quegli anni e, ad alcuni progetti artistici, tra cui sicuramente quello di Beuys. Eppure sono così esigue e brevi le «pause consolatorie» rivoluzionarie e prive della sussunzione della società con il capitale. È tutta lì forse, in quattro ossa che picconano il muro di Berlino, ad esempio, la gioia di una bugia anni Ottanta. Tutto sembrava cambiare quel giorno, mentre sarebbe stato stanziale. Ci sarà un futuro nell’aver fatto anche del pensiero una potenzialità mercificatoria? Il futuro siamo diventati noi e no, non siamo ancora in estinzione ma, che tipo di futuro siamo diventati?





Note [1] J. Boudrillard, Simulacres et simulation, Galilée, Paris, 1981. [2] C. Lonzi, Lettera a Carlo Betocchi, Milano, 12 gennaio 1969, cit. in M. Baldini, Le arti figurative all’Approdo. Carla Lonzi: un’allieva dissidente di Roberto Longhi, in Italianistica, 3, p. 125, 2009. [3] C. Lonzi, La critica è potere, in NAC, pp. 5-6, 3 dicembre 1970, ora in Scritti sull’arte, a cura di Lara Conte, Laura Iamurri, Vanessa Martini, et al. edizioni, 2012. [4] Qui si fa riferimento ad autori e critici come Carla Lonzi che scrive già nel 1969 Autoritratto. Accardi, Alviani, Castellani, Consagra, Fabro, Fontana, Kounellis, Nigro, Paolini, Pascali, Rotella, Scarpitta, Turcato, Twombly. [5] L. Iamurri, Un mestiere fasullo: note su Autoritratto di Carla Lonzi, in Maria Antonietta Trasforini (a cura di), Donne d’arte. Storie e generazioni, pp. 113-132, Meltemi, Sesto San Giovanni, 2006. [6] G. Galli, La destra in Italia, , p.23, Gammalibri, Milano, 1983.



Immagini: J. Schnabel, Esilio, 1980, olio e corna di cervo su tavola, 228,6 x 304, 8 cm

Fonte: Aa. Vv, Arte dal 1900: Modernismo, antimodernismo, postmodernismo, p.699, Zanichelli, Bologna, 2004.


D. Salle, Gericault’s Arm, 1985, olio e polimeri sintetici, 197,8 x 244,5 cm

Fonte: Aa, vv, Arte contemporanea, Anni Ottanta, in Biblioteca di Repubblica, L’espresso, n°4, p.15, Mondadori, Milano.



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Simona La Neve (1985), art researcher e docente, dopo studi in architettura si specializza alla Nuova Accademia di Belle Arti di Milano con una tesi conservata oggi all’archivio del Mart di Trento e Rovereto. Ha svolto ricerche e progetti curatoriali anche in ambito istituzionale (Inu, Roma; Politecnico, Milano; Bocsart, Cosenza). Si occupa oggi principalmente di scrittura come pratica artistica di resistenza empirica, endogena ed esogena. È suo tra altri, il saggio per i cinquant’anni di Vogliamo tutto di Nanni Balestrini («il manifesto», 19 maggio 2021).

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