Si è ricostruito, a grandi linee, lo sviluppo della geometria, questo sapere così specifico della civiltà occidentale, per una disamina del suo rapporto con il mondo reale nel quale ci è toccato di vivere. Viene quindi messo in luce il ruolo della filosofia della natura come criterio per distinguere le parole dalle cose, le definizioni linguistiche dai fenomeni che tentano di descrivere. Oggi pubblichiamo la terza parte di questa riflessione.
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Geometrie e spazio fisico Abbiamo costatato come le diverse geometrie godano dello stesso statuto logico-matematico. Di conseguenza, la scelta tra di esse non può essere fatta su quella base. Del resto, già Gauss s’era posto il problema e aveva pensato di risolverlo nel modo più naturale, effettuando misure dello spazio fisico. Così il Nostro s’era recato sulle vette di tre montagne della catena alpina; e traguardando da ogni sommità le altre due aveva delineato un triangolo i cui vertici erano dati dalle tre vette e i lati dalle direzioni dello sguardo. Si noti che un simile triangolo tocca la Terra solo nei tre vertici e quindi non giace sulla sua superficie, approssimativamente sferica. Gauss effettuò delle accurate e ripetute misure degli angoli di quel triangolo; e, nei limiti di precisione ottenibile ai suoi tempi, non trovò alcuna discrepanza tra la somma degli angoli misurati ed il valore euclideo di 180°. Il matematico tedesco, si racconta, non si meravigliò molto per quel risultato; e lo stesso dovremmo fare noi se teniamo conto della circostanza che un triangolo tracciato idealmente fra tre vette di una stessa catena montuosa è eccezionalmente piccolo se confrontato con le dimensioni della Terra – abbiamo precedentemente notato che, in ogni tipo di geometria non-euclidea, lo scarto da quella euclidea è funzione della taglia del triangolo – : più piccolo il triangolo minore lo scarto. Sicché, anche se lo spazio del sistema solare fosse, poniamo, non-euclideo, la somma degli angoli del triangolo di Gauss darebbe in ogni caso 180°. Sorpreso o meno che fosse Gauss da quel risultato, le misure da lui effettuate sono assai importanti dal punto di vista dell’epistemologia genetica, il solo che qui ci stia a cuore; infatti, quell’ esperimento propone un protocollo per confrontare direttamente le relazioni geometriche con la struttura del mondo nel quale viviamo; detto altrimenti, il criterio di verità della geometria è la realtà sensibile. Sembrerebbe, quindi, che la domanda posta poc’anzi ammetta una risposta empirica chiara e distinta: se facciamo misure angolari via via più precise di triangoli sempre più grandi e se i risultati non mutano – la somma non presenta alcuna rivelabile differenza dal valore di 180° – allora siamo autorizzati ad affermare che, stante l’accuratezza dei nostri metodi, nel mondo nel quale viviamo vige la geometria euclidea. Purtroppo, le cose non stanno così. Per capire la circostanza senza ricorrere al gergo specializzato, può essere d’aiuto una ipotesi contro fattuale: supponiamo che le misure di Gauss avessero dato degli esiti nettamente contrari alla geometria euclidea ovvero immaginiamo che la somma degli angoli fosse risultata sempre al di sotto di 180°. E allora? Avrebbe Gauss potuto affermare conclusivamente che la metrica del mondo reale è non-euclidea? Sfortunatamente per tutti noi, una semplice risposta positiva non è consentita
Infatti, al tempo di Gauss, come oggi, la reazione normale a fronte di simili risultati, quella più frequente potrebbe essere: qualcosa è andata storta; dopotutto non è certo che la figura presa in esame sia proprio un triangolo, forse i raggi luminosi, i fotoni diremmo oggi, che vediamo non viaggiano in linea retta; infatti, se la figura presentasse lati che non sono segmenti di rette, non vi sarebbe alcun conflitto con Euclide nell’affermare che la somma degli angoli risulti inferiore a due angoli retti. Occorre, quindi, controllare preventivamente che l’oggetto della misura sia davvero un triangolo e non una qualche figura con linee curve. Vediamo, con qualche dettaglio, come potrebbe svolgersi questo preventivo controllo. Si può immaginare, a mo’ d’esperimento di pensiero, di possedere metri rigidi sufficientemente lunghi da poter misurare i percorsi della luce tra le tre vette del triangolo di Gauss; e, a seguito di queste misure, verificare che i cammini della luce, valutati con i nostri metri rigidi, siano effettivamente i più brevi tra tutti quelli che connettono i tre picchi alpini. E allora? Di nuovo, sarebbe possibile obiettare: «Potrebbe darsi che delle forze universali sconosciute influenzino i nostri metri rigidi, perturbandone la forma o grandezza, quando essi vengono spostati da un luogo ad un altro». Così, anche dopo aver effettuato il controllo, non saremmo autorizzati a concludere che la somma angolare di un triangolo sia certamente minore di 180°; la figura, come notato prima, potrebbe non essere un vero triangolo; e occorre, piuttosto, rivedere i nostri giudizi sui raggi di luce ed i metri rigidi. E’ stata proprio questa, del resto, la linea di pensiero seguita, alla fine del XIX secolo da H. Poincaré: ogni deviazione della metrica dello spazio dalla geometria euclidea è del tutto apparente; nel senso che il disaccordo è un segno certo di un errore introdotto dagli strumenti di misura [1]. Secondo il matematico ed epistemologo francese, possiamo, se lo desideriamo, correggere i risultati delle misure in modo d’accordarli con le prescrizioni euclidee, preservando quella geometria, dirò così, a ogni costo. Questo punto di vista è, per altro, assai vicino a quello di Kant; infatti, come già osservato, il filosofo tedesco sosteneva che la geometria euclidea è «sintetica a priori», nel senso che essa ci dà informazioni sul mondo che sono necessariamente vere; di conseguenza, le nostre esperienze o meglio le loro interpretazioni devono essere compatibili con quella geometria; e ogni eventuale conflitto va risolto a favore di Euclide. A questo proposito, mette conto notare che nella letteratura epistemologica, oltre che nei manuali universitari, è assai diffuso l’errore che vuole essere la scoperta delle geometrie non euclidee una sorta di «fatal refutation» della dottrina kantiana sulla natura, sintetica e a priori, della geometria euclidea. Infatti, anche se tutte le geometrie si trovano su un piano di parità dal punto di vista logico matematico, questo non priva la geometria euclidea del suo privilegio nel descrivere il mondo; e questo con ragione, perché la tesi kantiana riposa sull’impossibilità di usare altre geometrie per visualizzare la metrica dello spazio fisico nel quale viviamo. E questo non già perché le altre geometrie difettino di coerenza interna, nel qual caso la geometria euclidea risulterebbe, a dispetto della posizione kantiana, analitica e non sintetica – il principio di non-contraddizione è un giudizio analitico, quindi vuoto, privo di ogni contenuto fattuale. D’altro canto, non possiamo neppure scegliere una o l’altra tra le geometrie ricorrendo a misure sperimentali – infatti, l’eventuale difformità delle misure rispetto ad una data geometria può essere addebitata a perturbazioni delle nostre procedure. La ragione per la quale Kant e i suoi odierni seguaci ritengono la geometria euclidea la forma, necessaria e unica, della umana intuizione dello spazio sta altrove. Essa risiede nella circostanza che le altre geometrie possono presentare proprietà relazionali insolite e raffinate; ma nessun essere pensante può immaginare come apparirebbe il mondo se fosse immerso in uno spazio tridimensionale non euclideo. Certo, noi possiamo figurarci, come già ricordato, una superficie non euclidea, ma solo perché siamo al di fuori di essa, nel nostro spazio, e possiamo osservare la superficie nel suo curvarsi nello spazio tridimensionale; ma ci è impossibile immaginare la curvatura di tutto il nostro spazio tridimensionale, per il buon motivo che non riusciamo a collocarci in uno spazio a quattro dimensioni. Sicché, se è vero che le geometrie, tutte le geometrie sono equivalenti sul piano logico, non accade così a livello epistemologico: le geometrie non euclidee non possono essere visualizzate e quindi non possono essere utilizzate per descrivere le proprietà dello spazio fisico. Così, la tradizione kantiana conclude nel conferire all’opera di Euclide un insuperabile valore epistemologico proprio perché noi non possiamo visualizzare uno spazio tridimensionale non euclideo.
Visualizzazione esteriore e interiore Da quel che abbiamo prima affermato, emerge che, per valutare l’aderenza ontologica della epistemologia kantiana, dobbiamo stabilire se siamo o meno capaci di visualizzare uno spazio tridimensionale non-euclideo. La questione può essere riformulata in questo modo: è necessario descrivere le nostre esperienze spaziali in termini euclidei o possiamo ugualmente farlo in un contesto non-euclideo? Per rispondere è indispensabile definire meglio ciò che va inteso con la parola «visualizzazione». Partiamo dalla visualizzazione di uno spazio a due dimensioni. Di primo acchito, la cosa non presenta particolare difficoltà, tanto se si tratta di un mondo euclideo quanto per uno non-euclideo. Possiamo agevolmente vedere le superfici o immaginarle con l’occhio della mente. In entrambi i casi esaminiamo questi mondi bidimensionali dall’esterno, immerse come sono nel nostro spazio tridimensionale; sicché, le curvature non-euclidee risultano individuate dal loro scarto rispetto al piano euclideo. Conveniamo chiamare questa procedura «visualizzazione esterna». Sembrerebbe agevole visualizzare anche uno spazio euclideo a tre dimensioni; ma è del tutto evidente che si tratta di un altro tipo di procedura dal momento che non possiamo saltare in uno mondo a quattro dimensioni per osservare dall’esterno lo spazio tridimensionale, fosse euclideo o non-euclideo. Piuttosto, possiamo formulare una diversa procedura, che chiameremo «visualizzazione interna», in grado di conferire un significato alla visualizzazione di uno spazio tridimensionale di qualsiasi varietà. Infatti, quando affermiamo di riuscire a visualizzare lo spazio euclideo intendiamo che l’operazione si svolge tutta dal punto di vista di un essere che è interno, anzi inchiavardato in quello stesso spazio che si ripromette di visualizzare. Di conseguenza, se vogliamo visualizzare uno spazio tridimensionale non- euclideo, dobbiamo compiere un’operazione analoga alla precedente, ovvero «visualizzare dall’interno». E’ stato il tedesco Hermann von Helmholtz, l’ultimo scienziato filosofo del XIX secolo, a formulare, per primo, una procedura per la visualizzazione interna: immaginare il
genere d’esperienze che possono essere agite da un essere che viva all’interno di un dato spazio [2]. Del resto, la ragione per la quale noi visualizziamo agevolmente le relazioni geometriche tra enti euclidei non ha niente di misterioso; essa risiede interamente nella storia, nella nostra consuetudine con le misure spaziali di tipo euclideo. Ma questa facoltà storicamente acquisita non comporta in alcun modo la possibilità, o meglio dirò così la potenza, di riguardare il nostro mondo tridimensionale da un meta-spazio quadridimensionale. Forniti della procedura proposta da Helmholtz, possiamo tornare al nostro tentativo di visualizzare lo spazio tridimensionale non-euclideo. Per facilitarci il compito, immaginiamo, come in un racconto [3], degli esseri bidimensionali, confinati per sempre dentro un mondo bidimensionale e forniti di strumenti anch’essi bidimensionali. Supponiamo, inoltre, che essi vadano in giro nel loro mondo e, di tanto in tanto, eseguano delle misure – giusto così come noi usiamo fare nello spazio dentro cui si svolge la nostra vita quotidiana. Quegli esseri virtuali non possono evadere dal loro mondo bidimensionale, per riguardarlo da uno spazio tridimensionale – alla stessa stregua noi non riusciamo a visualizzare lo spazio euclideo osservandolo da un mondo quadridimensionale. Di conseguenza, se per avventura gli esseri bidimensionali abitassero una superficie sferica, essi non potrebbero certo vederne dall’esterno la curvatura, come invece accade per noi. E, tuttavia, ed è qui il punto, possono, con un po’ di conti, valutare quella curvatura indirettamente; basterà, infatti, disegnare linee, triangoli e cerchi, tutti giacenti su quella superficie; misurare, poi, angoli, circonferenze e diametri; e trovare, alla fine, con certezza, che la somma degli angoli è superiore a 180° e che il rapporto tra la circonferenza e il diametro è inferiore a π. Inoltre, moltiplicando le figure e le misure, potrebbero accorgersi che quei risultati divergono da quelli previsti dalla geometria euclidea, nella misura in cui le figure hanno via via una maggiore taglia.
In questo modo, gli esseri virtuali potrebbero accorgersi di essere prigionieri su una superficie sferica senza averla mai vista dall’esterno: visualizzare internamente questo tipo di spazio non-euclideo equivale a immaginare i risultati ai quali perverrebbero eventuali appropriate misure. Inutile aggiungere che la visualizzazione interna di altri mondi a due dimensioni, euclidei o lobachevskiani che siano, si svolge in stretta analogia con la procedura sopra descritta per la geometria riemanniana. Considerazioni simili si applicano alla visualizzazione interna di spazi tridimensionali euclidei e non-euclidei. Qui, per non affaticare ulteriormente i nostri quattro lettori, ci limiteremo ad affermare che, in un esperimento di pensiero, possiamo immaginare una serie di misure – angoli, circonferenze, aree, volumi, diametri – eseguite in tutte le direzioni dello spazio, per scoprirne la curvatura ovvero la metrica. Anche se i risultati ottenuti sono inficiati dagli errori di misura, possiamo lo stesso immaginare quali risultati dovrebbero essere per permettere di privilegiare una tra le tre geometrie prima discusse. Così, in accordo con Helmholtz, la facoltà di visualizzare dall’interno gli spazi metrici delle diverse geometrie coincide esattamente con la capacità di effettuare misure seriali del tipo che abbiamo già descritto. Dobbiamo tuttavia ammettere che affiora, in modo pressoché spontaneo, una sorta di rifiuto psicologico ad accettare di porre sullo stesso piano la visualizzazione di uno spazio tridimensionale euclideo e di uno non-euclideo. Infatti, non s’incontra alcuna difficoltà, vigendo la geometria euclidea, a passare dalla visualizzazione esterna bidimensionale a quella interna tridimensionale; perfino se l’universo avesse una struttura non-euclidea, ciò potrebbe essere apprezzato solo su scala astronomica, giacché, come abbiamo visto, la deviazione dal canone euclideo può ben essere trascurabile per i meso-spazi, quelli di grandezza non enorme. Poiché la transizione dalla visualizzazione esterna a quella interna avviene, per l’osservatore nello spazio euclideo, talmente facilmente da passare inavvertita, il senso comune non è consapevole della distinzione tra i due tipi di visualizzazione.
Quando, invece, affrontiamo il problema di visualizzare un mondo non-euclideo a tre dimensioni, avvertiamo che, questa volta, la transizione dalla visualizzazione esterna di una superficie bidimensionale alla visualizzazione interna di uno spazio tridimensionale non scorre per niente liscia; addirittura, capita persino che ci sembri impossibile raffiguraci un mondo tridimensionale non-euclideo, indipendentemente dal successo nell’immaginare esperimenti e misure capaci di confermare le relazioni non-euclidee.
Ma qui siamo di fronte ad un fenomeno, appunto, psicologico, relativo alla mentalità costruita storicamente e non certo connesso ad attributi ontologici; in altri termini, se la scuola ci avesse educati ad interpretare le nostre esperienze spaziali nei modi e nelle forme della geometria non-euclidea a tre dimensioni, non avvertiremo alcuna resistenza spontanea, o almeno non più di quel che attualmente ci accade nel visualizzare lo spazio tridimensionale euclideo.
Il riconoscimento della distinzione tra visualizzazione esterna ed interna, nonché gli esiti epistemici ai quali questa stessa distinzione apre le porte, costituiscono un contributo decisivo alla comprensione della natura linguistica della geometria, contributo che il pensiero critico deve all’opera di Helmholtz.
Note
[1] H. Poincaré, Science and Hypothesis, Dover Pub., New York 1982.
[2] H. Helmholtz, Epistemological Writings, Reidel Pub., Boston 1977.
[3] E. A. Abbott, Flatland, Backwell, Oxford 1884. Si tratta di un racconto fantastico a più dimensioni, la descrizione dissacrante di una distopia geometrica. È divenuto popolare tra gli studenti delle facoltà scientifiche perché affronta, in modo originale, il rapporto tra geometria e tirannia nella vita quotidiana. La più recente traduzione in italiano è: Flatlanda, Adelphi, Milano 2003.
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