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La fabbricazione occidentale del reale: filosofia, geometria, fisica (Quarta parte)





Si è ricostruito, a grandi linee, lo sviluppo della geometria, questo sapere così specifico della civiltà occidentale, per una disamina del suo rapporto con il mondo reale nel quale ci è toccato di vivere. Viene quindi messo in luce il ruolo della filosofia della natura come criterio per distinguere le parole dalle cose, le definizioni linguistiche dai fenomeni che tentano di descrivere. Oggi pubblichiamo la quarta e ultima parte di questa riflessione.


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Se tutte le geometrie sono vere, qual è la metrica del mondo reale? Secondo le argomentazioni prima svolte, la geometria tridimensionale non-euclidea è visualizzabile allo stesso modo e con i medesimi vincoli che lo spazio tridimensionale euclideo. Si impone quindi la costatazione che tutte le geometrie hanno lo stesso «grado di verità» tanto dal punto di vista logico-formale quanto da quello della raffigurazione mentale. E questa parità comporta a perpendicolo una seria ipoteca per la dottrina kantiana, per quel suo considerare la geometria euclidea come intuizione spaziale sintetica a priori, un attributo antropologico, un tratto innato dell’animale uomo, che ci informa sulla struttura fattuale del mondo reale. Ovviamente, come abbiamo già sottolineato, è sempre possibile spiegare ogni risultato sperimentale, apparentemente non-euclideo, come conseguenza spuria delle inevitabili perturbazioni degli strumenti di misura; ma il punto decisivo è che oggi, al contrario di

quel che accadeva all’epoca di Kant, non è necessario ragionare così, dal momento che è per noi possibile visualizzare lo spazio non-euclideo. Per dirla con la terminologia filosofica tedesca, la geometria non-euclidea emerge come una legittima forma dell’intuizione umana dello spazio. Tuttavia, v’è qui da notare che, malgrado abbiamo argomentato, o almeno crediamo di averlo fatto, l’equivalenza logica ed epistemica della geometria euclidea con quella non-euclidea, rimane irrisolta la questione ontologica: se e quale geometria descriva correttamente la struttura spaziale del nostro universo. Infatti, in quel che precede, abbiamo mostrato, al più, che nessuna delle geometrie merita d’essere esclusa; ma certo non abbiamo indicato alcuna soluzione al problema di quale sia la geometria che meglio rispecchia la realtà del nostro mondo. Si tratta, come suol dirsi, di una «vexata questio», giacché, secondo quanto più volte notato, i risultati empirici offrono risposte ambigue: ogni misura che sembra confermare la geometria euclidea può essere interpretata in coerenza con la geometria non- euclidea; e viceversa. Qualsiasi risultato noi otteniamo usando i raggi di luce, le aste rigide o altri strumenti di misura, è sempre possibile spiegarlo in termini di perturbazioni ineliminabili; dopotutto, i raggi di luce possono curvare la loro traiettoria e le aste rigide contrarsi o viceversa espandersi. L’opera di H. Poincaré, al principio del secolo appena trascorso, impone oggi, a noi, di considerare definitivo questo giudizio . Qualcuno, tra i nostri quattro lettori, potrebbe obiettare, a questo punto, che la soluzione «à la Poincaré» non fa che aprire un altro problema altrettanto fondamentale che quello appena risolto, i.e. le aste rigide realmente si modificano quando vengono spostate da un luogo a un altro o, viceversa, rimangono le stesse? Conoscendo la risposta a questa domanda, possiamo stabilire se lo spazio nel quale viviamo presenti o meno una curvatura e di che tipo di curvatura si tratti. Ma come procedere per verificare la realtà di un’eventuale contrazione o dilatazione delle nostre aste? Nell’esperienza quotidiana, tutti noi costatiamo che le aste rigide possono modificare la loro lunghezza se sottoposte a perturbazioni esterne, e.g. mutando la loro temperatura. Questo tipo di dilatazione o contrazione è empiricamente costatabile per la buona ragione che essa provoca differenti effetti in differenti materiali. Un’asta di ferro, ad esempio, sottoposta a un aumento di temperatura si dilata in misura diversa che una di vetro. Modificazioni che dipendono dalla costituzione chimico-fisica degli oggetti, si chiamano, su suggerimento di H. Reichenbach [1], effetti differenziali – va da sé che, qualora si richieda una misura precisa, occorre porre gran cura per tener conto di questi effetti sugli strumenti usati. Ma, quando abbiamo sollevato la questione sulla contrazione o espansione di aste rigide che vengano spostate da un luogo ad un altro, avevamo implicitamente supposto che le nostre aste fossero immuni da effetti differenziali; ovvero, il che è del tutto equivalente, che le opportune correzioni fossero state operate per tener conto di questi effetti. Sicché, le contrazioni o le espansioni che qui prendiamo in considerazione sono dovute a effetti che, seguendo Reichenbach, chiameremo universali: dipendono dalla posizione dell’oggetto e non dai materiali di cui è costituito. Il fatto che questi effetti siano universali, e non occorrano differentemente nei diversi oggetti, garantisce che essi non siano sperimentalmente accertabili. Alla questione se due aste rigide collocate in due luoghi lontani l’uno dall’altro abbiano realmente la stessa lunghezza; o a quella, del tutto equivalente, se una asta rigida conservi immutata la sua lunghezza nel tragitto da un luogo ad un altro; a questi interrogativi non vi sono, in principio, risposte empiriche. In conseguenza, Reichenbach suggerisce che la questione non sia di natura fattuale bensì vada riguardata come se fosse una richiesta di definizione o convenzione linguistica. In altri termini, qui non è in gioco qualche tratto reale del mondo che possa venir scoperto; ma è la nostra pur necessaria interpretazione dei fenomeni a richiedere un’appropriata creazione linguistica, un fatto sì ma del tutto simbolico – negandolo non si muta il fenomeno ma solo la sua interpretazione. Quel che va definito è il concetto di «congruenza», ovvero stabilire quando due intervalli spaziali, collocati in luoghi tra di loro lontani, sono uguali e quando non lo sono. Una possibile definizione di congruenza è quella secondo la quale un’asta rigida rimane congruente con se stessa, ovvero si conserva in grandezza, dovunque sia collocata e qualunque sia la sua orientazione spaziale, una volta che si introducano le opportune correzioni per gli eventuali effetti differenziali. Questa è, forse, la più semplice definizione di congruenza ma non è certo l’unica. Se la congruenza abbisogna di una definizione intrinsecamente arbitraria, ovvero se l’uguaglianza tra intervalli spaziali si costituisce sul comportamento delle aste rigide o dei raggi di luce o di altri strumenti di misura – e non ha senso al di fuori di esso – allora la lunghezza non è una proprietà dello spazio fisico ma dei corpi che lo occupano. È questa una conclusione che si oppone frontalmente alla concezione classica di Newton. Secondo quel grande filosofo della natura, lo spazio è assoluto, nel senso che è un’entità realmente esistente, interamente distinta da, e non confondibile con, i corpi che vengono usati per misurarlo. Insomma, come un tavolo non può essere definito dal metro che si usa per valutarne le dimensioni, così lo spazio assoluto non è riducibile alle aste rigide o ai raggi di luce o agli altri strumenti impiegati per misurarlo. Per Newton, lo spazio, quello vero, è sì un contenitore della materia ma del tutto indipendente da essa per quel che riguarda esistenza e proprietà. Di conseguenza, per la fisica che porta il suo nome, ha senso chiedersi se un’asta rigida realmente si contrae o si espande quando è portata da un luogo a un altro, dal momento che si può stabilire se essa occupa la stessa porzione di spazio assoluto in un posto come nell’altro. In altri termini, mentre, per Newton, possiamo e dobbiamo «scoprire» se i due intervalli spaziali siano o meno uguali; per Reichenbach, siamo liberi di definire la loro uguaglianza o disuguaglianza sulla base degli strumenti di misura preventivamente scelti. Queste due tesi sono entrambe delle risposte alternative al quesito: il mondo possiede una struttura metrica intrinseca? Se sì, allora si può stabilire empiricamente l’eventuale cambiamento in grandezza per un’asta rigida che viaggi tra siti differenti; per lo spazio fisico, una metrica intrinseca implica una geometria intrinseca ben determinata. Se, viceversa, questa struttura intrinseca non esiste, allora il criterio di congruenza è estrinseco, va posto dall’esterno stipulando una convenzione linguistica, ovvero attraverso una appropriata definizione. Va da sé che differenti definizioni di congruenza comportano differenti geometrie; e queste sono equivalenti nel senso che risultano differenti descrizioni dello stesso spazio.

Convenzione linguistica e realtà E’ stato Riemann, con la sua «misteriosa insorgenza di pensiero», a porre, per la prima volta, la questione dell’esistenza di una struttura metrica intrinseca del mondo in cui viviamo; e a rispondere con un diniego, mandando in rovina, per sempre, l’ideologia pitagorica dei matematici – tanto basti ad assicurargli la riconoscenza complice di tutti coloro che cospirano per sovvertire la civiltà tecno-scientifica. I suoi argomenti hanno ben resistito al tempo, malgrado non fossero privi di qualche fallacia logica – e questo con ragione perché, all’epoca, non era stata ancora fabbricata la «cupa teoria degli insiemi» di G. Cantor. Qui non tenteremo di ricostruire in dettaglio l’argomentazione di Riemann, limitandoci a indicarne le direzioni di svolgimento, le sue linee di forza. Vediamo brevemente: un segmento di una linea continua, prescindendo dalla lunghezza, contiene un infinito numero di punti ; infatti, si può dimostrare che ogni segmento finito accoglie lo stesso numero di punti che qualsiasi altro; inoltre, presi due segmenti finiti, anche se in lunghezza differiscono tra di loro per una quantità immane, gli infiniti punti che li compongono possono essere ordinati alla stessa maniera. Possiamo quindi concludere che ogni segmento, indipendentemente dalla sua lunghezza, è isomorfo a qualsiasi altro – ovvero, tutti i segmenti finiti hanno la stessa struttura intrinseca; e questo comporta che la lunghezza, come criterio sul quale fondare la differenza, va imposta su base estrinseca, dall’esterno per così dire. Riconosciamo, qui, la convergenza del pensiero di Riemann con la definizione di congruenza proposta da Reichenbach: si tratta di provvedere alla comparazione delle lunghezze per mezzo di aste rigide che funzionano come strumenti di misura [2]. Così, la questione della reale conservazione in lunghezza, per un’asta solida che venga spostata da un luogo ad un altro, si rivela mal posta, priva di senso; e, di conseguenza, è destituita di significato anche l’interrogazione sulla reale geometria dello spazio, se euclidea o non- euclidea. Tuttavia, per evitare il cortocircuito logico del soggettivismo, occorre avvertire: la conclusione di Riemann non implica che qualunque affermazione sulla struttura geometrica dello spazio fisico sia ugualmente sensata, né che gli enigmi della geometria possano essere sciolti a colpi di definizioni. Più sobriamente, il grande geometra tedesco suggerisce che interrogarsi su quale geometria descriva fedelmente lo spazio fisico, sia porsi una «questione incompleta – salvo ad aggiungervi un criterio di congruenza. Di conseguenza, differenti definizioni di congruenza comportano differenti descrizioni del mondo, del tutto tra di loro equivalenti – nel senso che ogni fatto osservabile che verifichi l’una si rivela una conferma anche del l’altra, e ogni fatto osservabile che falsifichi l’una ha il medesimo esito anche per l’altra. Per altro, la situazione non è poi tanto insolita come potrebbe sembrare; accade spesso nella vita quotidiana qualcosa di analogo. Consideriamo, ad esempio il quesito: «Cosenza è davvero a sinistra rispetto Krotone?». Appare immediatamente evidente che la domanda è insensata se non si precisa il luogo nel quale è situato colui che deve rispondere. Per un giovane catanzarese, munito di laurea di primo e secondo livello nonché di dottorato nelle prestigiose scienze turistiche che si impartiscono solo in quella fortunata regione, e che si trovi a Lamezia, lungo l’autostrada, diretto a Milano, per cercare nella ricca metropoli longobarda un posto da ricercatore di turisti precario, per costui la capitale dei Brettii si trova a sinistra della città magno greca, e la risposta corretta al quesito è affermativa; al contrario, per una attempata turista padana, in vacanza retribuita, che si trovi a Lodi e si rechi, risalendo l’ autostrada, a Cosenza per deporre un fiore riconoscente sulla tomba di Alarico re dei Goti, per costei destra e sinistra risultano invertite rispetto all’aspirante precario, sicché la risposta giusta, alla domanda posta, sarà quella negativa. Per inciso, possiamo ragionevolmente ritenere che nessun italiano, che abbia avuto la fortuna di frequentare la scuola dell’obbligo prima della riforma Gelmini, farà mostra di grande meraviglia davanti a risposte opposte, ma tra loro compatibili, allo stesso quesito. Altrettanto ovvio appare che l’incompletezza della questione non autorizza a ritenere che ogni concepibile risposta sia corretta. Per ritornare al nostro esempio, se la turista longobarda, nel risalire da Milano verso Cosenza, collocasse la città greca a destra di quella brettia, allora la sua risposta risulterebbe obiettivamente erronea. Stando così le cose, dal momento che le diverse geometrie sono equivalenti, il criterio che distingue tra «vero o falso» risulta del tutto impotente. La scelta va effettuata su altre basi, come, ad esempio, «semplicità», «economia concettuale» o, addirittura,«eleganza». E questo comporta che gli esiti della scelta siano esposti per sempre alla opinione e quindi alla disputa. Qualcuno può ritenere che, nella definizione di congruenza, convenga, per semplicità, escludere «effetti universali» e quindi privilegiare la geometria non-euclidea; qualcun altro, invece, può scegliere quella euclidea valutandola più semplice o più economica o più elegante. Così, nello stesso arco di tempo, è accaduto che Poincaré abbia preferito la seconda opzione mentre Einstein, nella teoria della «relatività generale», si sia schierato decisamente per la prima.

Quel che, dal punto di vista dell’epistemologia genetica, mette conto sottolineare è che la descrizione matematica dello spazio fisico implica due distinti passi: la definizione del criterio di congruenza e la specificazione del tipo di geometria; uno di questi passi è materia di convenzione, di scelta linguistica; una volta che questa venga effettuata, l’altro fattore diviene materia di accertamento sperimentale. Possiamo riassumere schematicamente la situazione, alla quale il nostro ragionare ci ha portati, così: per effettuare delle misure, dobbiamo usare degli strumenti; e questi definiscono, più o meno implicitamente, cosa si deve intendere per uguaglianza tra due lunghezze situate in luoghi lontani l’uno dall’altro; la definizione determina cosa accade ad una asta rigida che venga spostata da un posto ad un altro; ovvero, se si conserva identica a se stessa oppure muta a seguito dello spostamento. Si tratta, lo ripetiamo, non già di un fatto, ma di una definizione convenzionale; senza la quale nonv’è risposta razionale alla questione della struttura geometrica del nostro mondo, se euclidea o non-euclidea. La funzione epistemica della definizione è quella di mettere in comunicazione le parole della lingua matematica con gli oggetti che popolano il mondo nel quale viviamo. Senza quella scelta arbitraria non vi sarebbe possibilità di cooperazione tra i linguaggi formali e le scienze fisiche; e la nostra conoscenza del mondo non sarebbe quella che è.

La fisica come comune criterio per distinguere le parole dalle cose La storia della geometria si snoda lungo più di due millenni e mezzo, da Talete a Riemann; ma il sogno di Pitagora, la credenza che la lingua matematica ci fornisca le informazioni essenziali sul mondo nel quale viviamo, questa speranza, si è rivelata vana, alla luce degli sviluppi dello stesso pensiero matematico, negli ultimi due secoli di quella lunga vicenda. Per dirla contro Kant ma facendo risuonare le sue parole, la geometria non è «a priori» e «sintetica»; essa è incapace di praticare due virtù a un solo tempo,la coerenza logica e l’informazione sul mondo. Vediamo come stanno le cose più da vicino. Benché la fabbricazione delle geometrie non-euclidee non comporti di per se il rigetto delle tesi kantiane, l’esistenza di una pluralità di teorie, tutte dotate di coerenza interna, introduce una distinzione netta tra due modi d’intendere la geometria. In primo luogo, noi possiamo riguardare la geometria come un sistema assiomatico, un linguaggio puramente matematico dove, all’inizio, vengono dichiarati i postulati, siano essi euclidei o meno; poi, il ragionamento formale ovvero il procedimento deduttivo sciorina una lunga serie di relazioni tra gli enti postulati, relazioni la cui verità è di natura logica e non ne comporta in alcun modo l’esistenza fisica. Infatti, nel sistema assiomatico, i postulati e i teoremi non sono, a propriamente parlare, né veri né falsi, perché essi contengono termini primitivi – punti, rette, cerchi e così via – privi di significato nel mondo reale, per il senso comune; salvo, beninteso, che non siano state introdotte definizioni coordinative che li mettono in relazione con oggetti concretamente esistenti. Un sistema di questo genere, che contiene cioè termini primitivi non-interpretati dal senso comune, è un sistema di «geometria pura» o, per meglio dire, matematica; e come tale esso è assolutamente «a priori». Questo non significa che i postulati ed i teoremi siano «verità a priori». Piuttosto è la relazione logica che si istituisce tra di loro a rappresentare l’aspetto a priori della geometria matematica. Infatti, la prova dei teoremi non dipende in alcun modo né dalla esperienza né dall’esperimento; qui la prova del teorema coincide fin in fondo con la procedura deduttiva che lo ha generato.Questo sistema formale, puramente matematico, leggero e piacevole quasi fosse il gioco degli scacchi, purtroppo non si rivela sintetico, non contiene alcuna informazione sul mondo reale; giacché, senza introdurre dall’esterno del linguaggio formale le definizioni coordinative dei termini geometrici, questi ultimi sono del tutto liberi, liberi dal mondo reale certo,ma perciò stesso vuoti d’informazioni. In secondo luogo, possiamo riguardare la geometria come un linguaggio per parlare delle cose del mondo. La domanda su quale geometria descriva meglio lo spazio nel quale viviamo apre la strada che conduce alla realtà, alla geometria fisica. Abbiamo visto come, se introduciamo opportune definizioni di senso comune, quella domanda possa divenire ragionevole, nel senso che, per quanto difficile, si può, in principio almeno,concepire una pertinente risposta; la ragionevolezza, lo abbiamo già detto, risiede in quella coordinazione linguistica tra enti puramente mentali come le linee rette o le congruenze e oggetti fisici come le aste rigide o raggi di luce. Questo tipo di geometria, la geometria fisica, ci informa sulla struttura spaziale del reale nella misura in cui la fabbrica materialmente; essa è sintetica, ma sfortunatamente non è «a priori».

Il ragionamento logico che prescinda dai sensi, dalla corporeità in quanto condizione irriducibile dell’essere al mondo, nulla sa dirci su come si comportino le aste rigide o i raggi di luce. Non v’è nessuna scorciatoia per stabilire a priori cosa sia lo spazio e quale sia la sua metrica, a supporre che ne abbia una; queste sono questioni che si può tentare di decidere solo attraverso le osservazioni empiriche e gli esperimenti fisici. Per conoscere in che mondo viviamo, per acquisire informazioni che rispecchiano la realtà delle cose, la lingua matematica si rivela impari al compito. La struttura logica di un sistema assiomatico non consente di per sé la descrizione obiettiva del mondo; occorre, dirò così, l’irruzione barbarica dei sensi. Infatti, la conoscenza scientifica, come è concepita in Occidente, si fonda sulla prova empirica, sulla verifica della teoria attraverso le osservazioni e gli esperimenti [3]. Ma abbiamo visto che, per procedere con le misure, occorrono delle definizioni che associano gli enti puramente mentali della teoria, assolutamente fantastici, con gli strumenti sperimentali, del tutto concreti. Queste definizioni sono delle convenzioni linguistiche non-triviali; esse non hanno natura denotativa ma creativa, permane in loro un fattore irriducibile di arbitrarietà. Sicché, lo ripetiamo ancora una volta, le definizioni non sono vere o false, ma semplicemente adeguate o inadeguate al fenomeno che s’intende descrivere. Sono le definizioni di congruenza che permettono di visualizzare la geometria, qualsiasi geometria; di più, sono esse il nocciolo duro della fisica e più in generale delle scienze della natura. La fisica è nient’altro che la visualizzazione interiore della lingua matematica tramite la definizione di congruenza; questa definizione è puramente linguistica, ma non pertinente alla matematica, al linguaggio formale; bensì alla lingua naturale, quella chiamata «materna», informale, appresa nell’infanzia per imitazione animale, insomma la lingua nella quale si esprime il senso comune. La definizione è una convenzione linguistica stipulata nella lingua naturale, un gesto volto a concordare un significato comune ma per il resto del tutto arbitrario; di conseguenza, la fisica si fonda su un atto di libertà collettiva senza il quale non ha neppure inizio – come accadde per le costellazioni in astronomia. Questa libertà, ne garantisce la potenza innovatrice; ma, a un tempo, la consegna alla storia, alla civiltà che la ha fabbricata; ridimensionandone, così, la falsa coscienza, la pretesa paranoica di verità assoluta, unica e universale; valida non solo nell’Occidente che l’ha vista nascere, ma sull’intero nostro Pianeta, e perfino nelle più lontane Galassie, laddove le stelle splendono senza più palpitare.


Note [1] H.Reichenbach, The Philosophy of Space and Time, Dover Pub., New York 1998. [2]A. Grunbaum,Philosophic Problems of Space and Time, ReidelPub., Boston 1974. [3]La nostra trattazione è più un invito che una introduzione alla questione del rapporto tra fisica e geometria. Il lettore incuriosito che volesse approfondire l’argomento trova una ricostruzione dello stato dell’arte, ad un più alto livello tecnico, in: W.C. Salmon, Space, Time, and Motion. A Philosophical Introduction, DickensonPub., Belmont 1995. A questo autore, che ci ha aiutato tantoed in tanti modi, e della cui straordinaria chiarezza espositiva abbiamo cinicamente approfittato pur dissentendo spesso dai suoi esiti, va la nostra riconoscenza.

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