Si è ricostruito, a grandi linee, lo sviluppo della geometria, questo sapere così specifico della civiltà occidentale, per una disamina del suo rapporto con il mondo reale nel quale ci è toccato di vivere. Viene quindi messa in luce il ruolo della filosofia della natura come criterio per distinguere le parole dalle cose, le definizioni linguistiche dai fenomeni che tentano di descrivere.
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Introduzione Vi sono diverse geometrie, euclidee e non euclidee, perfettamente equivalenti come sistemi assiomatici e tutte intuitive perché visualizzabili con l’occhio della mente, per dirla con Talete. La questione di quale geometria sia quella «vera», quella che racconti meglio la struttura dello spazio nel quale ci capita di vivere, è senza soluzione perché i sistemi assiomatici sono analitici e dunque non contengono alcuna informazione sul mondo. La fisica tratta le diverse geometrie su un piano di parità; e tenta d’impiegarle per descrivere i fenomeni naturali. Ma, per far questo, deve stipulare un certo numero di convenzioni, di definizioni puramente linguistiche. Le definizioni non sono vere o false ma semplicemente appropriate o non appropriate al problema che si sta trattando. Così la fisica mette in comunicazione la realtà con la geometria interpretando parole chiave come «punto»,«retta», «intersezione» e così via. Inoltre, ed è questo l’argomento forte, deve aggiungere alla geometria, dirò così dall’esterno, una definizione di congruenza ovvero un criterio per stabilire cosa s’intende per uguaglianza quando si confrontano misure non-locali, cioè compiute in luoghi tra loro distanti. La congruenza ha la funzione di stabilire un canale di comunicazione tra le parole della geometria e le cose del mondo, giacché, senza questa, la natura non parla in lingua matematica. In termini schematici, si può, quindi, affermare che lo spazio di per sé non ha struttura; infatti, la descrizione geometrica dello spazio comporta due fattori: specificare la congruenza e il tipo di geometria. Se uno di questi fattori viene fissato per convenzione, l’altro è suscettibile d’accertamento sperimentale. La scelta tra le geometrie, quindi, non avviene sulla base di un qualche criterio di verità, dal momento che tutte possono essere buone o cattive descrizioni del mondo.
Sono, piuttosto, altri i giudizi per valutare, come la semplicità, l’economia di concetti o anche l’eleganza della teoria. Così, più o meno nello stesso lasso di tempo e confrontandosi con le stesse questioni, Poincaré sceglie la geometria euclidea mentre Einstein preferisce, per la relatività generale, quella non euclidea. In conclusione, lo sviluppo stesso della geometria ha mostrato come fosse destituita di fondamento epistemico la tradizione pitagorica, da Platone attraverso Galileo fino a Kant, secondo la quale le relazioni geometriche forniscono una conoscenza del reale-conoscenza vera malgrado sia basata solo sul ragionamento. Rudimenti della geometria Per comprendere, sia pure in termini qualitativi, alcune delle concezioni fisiche contemporanee, e.g. la teoria del «Big Bang», ovvero per possederne i fondamentali a livello di scuola dell’obbligo così come per l’educazione degli adulti, è necessario riferirsi ad una geometria che non è euclidea. Qui s’incontra un primo significativo ostacolo o meglio un rifiuto, a livello psicologico, generato da una illusione cognitiva; la trattazione di Euclide, infatti, ci appare, in generale, immediatamente evidente e quindi vera, sol perché una certa familiarità la conseguiamo fin dalla formazione primaria. Il rapporto tra geometria e mondo fisico è assai complesso e suscita inquietudine nel senso comune. Converrà, quindi, per l’intelligenza del testo, ricostruire schematicamente la storia di questo rapporto. La dottrina che vuole la geometria capace di fornire la conoscenza del reale tramite la pura ragione è molto antica; risale, in Occidente, almeno a Talete e soprattutto a Pitagora; anche se sarà Platone, qualche secolo dopo, a farne un cardine esplicito della sua filosofia— si racconta che, sul portale d’ingresso dell’Accademia, figurasse una scritta che suonava, più o meno, così: «Qui può entrare solo chi conosce la geometria». In epoca moderna, la formulazione più potente di questa dottrina è opera di Kant. Secondo il filosofo tedesco le proposizioni della geometria euclidea — l’unica conosciuta a quel tempo— sono verità sintetiche «a priori». Col termine «a priori» egli intende che possono essere dedotte tramite il ragionamento da postulati auto evidenti; insomma, non occorrono né osservazioni né esperimenti per provare i teoremi della geometria. In più, le proposizioni della geometria sono sintetiche; il che significa che esse contengono informazioni sul mondo reale nel quale abitiamo; informazioni che si rivelano assai utili per la geografia, la navigazione, l’architettura, l’ingegneria e così via. In altre parole, la geometria fornisce la conoscenza della reale struttura dello spazio nel quale viviamo e ci muoviamo nonché delle relazioni spaziali tra gli oggetti che incontriamo nella vita quotidiana. Per oltre due millenni, il sapere detto scientifico ha avuto la geometria come paradigma di un tipo di conoscenza che può essere usata per capire, predire e controllare gli eventi che accadono nel mondo, conoscenza la cui verità è fondata su basi puramente logiche. Certo, le misure effettuate dagli antichi agrimensori egizi suggerirono ai greci dei teoremi, ma di per sé esse non possedevano in alcun modo lo statuto di prova. Quelle osservazioni sono irrilevanti alla stregua delle figure che tracciamo sulla lavagna per dimostrare i teoremi di geometria. Le pratiche empiriche possono svolgere una funzione euristica ma non hanno alcun peso nel fornire la prova logica. Va da sé che le dimostrazioni devono partire da qualche premessa; ed è qui che intervengono i postulati: essi sono, dirò così, le premesse di base per svolgere tutte le deduzioni. A vero dire, nell’opera di Euclide si fa distinzione tra postulati e assiomi o «comuni nozioni» — queste ultime sono assunzioni o principi logici validi per ogni ragionamento, e.g. «il tutto è somma delle sue parti» o «quando a grandezze uguali vengono sommate altre grandezze tra loro uguali la somma è ancora uguale». I postulati, invece, sono nozioni specifiche della geometria – per inciso, oggi si ritiene che non vi sia più alcuna distinzione significativa tra assiomi e postulati; e i due termini sono considerati sinonimi.
Nella geometria euclidea i postulati[1], a partire dai quali viene dedotto ogni teorema, sono trattati come verità auto-evidenti, nel senso che la sola enunciazione è sufficiente per la loro immediata verificazione — nessuno, sol che sia in grado di ragionare, può nutrire dubbi a riguardo. Valga, per mostrare la popolarità di quest’attitudine, quanto sostiene J.S.Mills nel suo classico saggio On Liberty – dedicato alla difesa del dubbio e della libera discussione e scritto, per altro, alcune decadi dopo la scoperta della geometria non euclidea – dove, appunto, afferma che dubitare dei postulati di Euclide è senza senso[2]. Siamo qui di fronte ad un’interpretazione secondo la quale il sapere scientifico è una gigantesca deduzione da premesse auto-evidenti. Questa attitudine, per quanto egemone tra filosofi e scienziati, non era, di sicuro, unanime – in verità, non siamo neanche certi che lo stesso Euclide la condividesse. Infatti, negli Elementi, il grande geometra greco introduce, all’inizio, cinque postulati; ma poi deduce ben ventisei proposizioni geometriche facendo uso solo dei primi quattro – quasi volesse provare tutto ciò che era possibile provare senza fare uso del quinto postulato, il famigerato postulato detto «delle parallele»; forse perché aveva qualche dubbio a proposito. Qualsiasi cosa Euclide abbia pensato, i geometri a lui successivi hanno considerato il quinto postulato meno evidente che i primi quattro; non già perché dubitassero della sua verità ma piuttosto a causa del fatto che l’enunciato risulta più complicato rispetto agli altri, sicché la sua verità non appare altrettanto ovvia. Per oltre duemila anni i matematici si sono impegnati nello sforzo di provare il postulato delle parallele, senza conseguire alcun successo; giacché o commettevano qualche fallacia logica o introducevano una qualche assunzione che era ancor più difficile da provare che il quinto postulato euclideo. Qualcuna di queste assunzioni alternative, che permettono di derivare il postulato delle parallele, presenta, ancor oggi, un notevole interesse; per esempio, per ritrovare quel postulato, è sufficiente assumere che la somma degli angoli interni di un triangolo valga due angoli retti; o che vi siano triangoli simili ma di diversa grandezza; o ancora che una linea i cui punti sono equidistanti dai punti di una linea retta è anch’essa retta. Tentativi di provare il quinto postulato sulla base di assunzioni simili risultano «petizioni di principio» dal momento che queste assunzioni sono equivalenti, logicamente, al postulato stesso. V’è un particolare sforzo di pensiero per provare il postulato delle parallele che merita d’essere ricordato. Nel 1733, Girolamo Saccheri, gesuita italiano, tentò di verificare il postulato in questione assumendo che fosse falso e derivando da quest’assunzione delle evidenti assurdità[3]. Questo modo d’argomentare è noto come «reductio ad absurdum» ed è perfettamente valido; in matematica è chiamato «prova indiretta». Lo sforzo di Saccheri si svolge in due tappe: nella prima, viene negato il quinto postulato affermando che non esiste alcuna linea parallela; nella seconda la negazione comporta che esista più di una linea parallela. La prima tappa si conclude felicemente nel senso che il gesuita riesce a mostrare che negare il quinto postulato comporta una contraddizione perché i primi quattro implicano che esista almeno una parallela. Per la seconda tappa, invece, le cose risultano più confuse; per la verità anche in questo caso Saccheri riteneva di aver trovato una contraddizione, ma si sbagliava; in realtà aveva scoperto un risultato insolito che successivamente si dimostrò essereun teorema di quella che, qualche secolo dopo, venne chiamata geometria «non-euclidea». Sfortunatamente, il gesuita confuse un risultato insolito con una assurdità. Così Saccheri appare essere l’involontario inventore della geometria non-euclidea, malgrado che sia morto credendo di «aver ripulito Euclide da ogni macchia». Saccheri non seppe mai cosa in realtà aveva fatto; ma all’inizio del XIX secolo tre matematici, tutti destinati alla fama, C.F.Gauss, J.Bolyai e N.I.Lobachewski, lavorando sul problema delle parallele, giunsero, autonomamente l’uno dagli altri, alla conclusione che fosse possibile assumere l’esistenza di più di una parallela senza cadere in qualche incoerenza o assurdità. Emerse allora, nella comunità scientifica, la consapevolezza che fosse possibile sviluppare una nuova geometria, perfettamente coerente, accettando i primi quattro postulati di Euclide ma rifiutandone il quinto.
Gauss, che forse è stato il più grande matematico di tutti i tempi, per primo arrivò a quel risultato; ma essendo caratterialmente allergico alle dispute specializzate e bizantine, si rifiutò, per molti anni, di pubblicare la sua scoperta. Nel frattempo, attorno al 1820, gli stessi risultati furono trovati, pressoché simultaneamente e, come già notato, indipendentemente l’uno dall’altro, da Bolyai e Lobachevski.
Così, questi tre famosi matematici, mostrarono che è logicamente possibile negare la validità del quinto postulato; e su queste basi edificarono una geometria non-euclidea.
Qualche tempo dopo, a metà del XIX secolo, il matematico tedesco G.F.B.Riemann, già allievo di Gauss, scopre che, dando un’interpretazione non tradizionale del primo postulato, è possibile costruire un’altra geometria non-euclidea, per la quale il quinto postulato viene negato affermando che non vi sono affatto rette tra loro parallele.
Questo accadeva all’epoca, grosso modo, della morte di Kant, mentre Gauss elaborava segretamente i dettagli della sua inedita geometria, e venti anni erano trascorsi dalla pubblicazione, da parte di Bolyai e Lobachevski, di una altra versione di questa stessa geometria. Mezzo secolo dopo la morte di Kant, Riemann riesce a completare e pubblicare un nuovo tipo di geometria non euclidea. A questa data, quindi, circolano nella comunità scientifica tre diverse geometrie, tutte dotate di perfetta coerenza interna: la geometria euclidea (una sola parallela); quella di Bolyai e Lobachevski (molte parallele); e, per ultima ma non ultima, la geometria riemanniana (nessuna parallela). Mette conto aggiungere che sempre Riemann, qualche anno dopo, costruisce una classe generale di geometrie, nella quale le tre sopra menzionate rientrano come casi particolari[4].
Note [1] I cinque postulati che compaiono negli Elementi sono: 1° Dati due punti, v’è una linea retta che li congiunge; 2° Un segmento può essere esteso in una linea retta; 3° Un cerchio può avere qualsiasi centro e qualsiasi raggio; 4° Tutti gli angoliretti sono tra di loro uguali; 5° Data una linea retta ed un punto fuoridi essa, esiste una ed una sola linea che passi per quel punto e sia parallela alla retta data. Una ricostruzione storica ed epistemologica della geometria euclidea, che abbiamo più volte usato nella redazione di questo testo, in:
Euclid, The Thirteen books of Elements, T.L.Heath ed., New York,Dover Pub., 1976. Su questo argomento confronta anche il libro divenuto un classico: D. Hilbert, Foundations of Geometry, La Salle, 1980. [2] J.S.Mills, On Liberty, Oxford, Claredon Press,1980. Traduzione italiana: Saggio sulla libertà, Milano, Il Saggiatore, 1981. [3] G. Saccheri, Euclides ab omne naevo vindicatus, Milano, Montani, 1733. [4] I. Adler, A New Look at Geometry , New York, The New American Library, 1966.
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