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«La creatività del rifiuto»

L’arte del femminismo nel Gruppo Femminista Immagine di Varese



Elvira Vannini recensisce La mamma è uscita. Una storia di arte e femminismo (DeriveApprodi 2021) di Milli Gandini e Mariuccia Secol: la storia di un'esperienza politica, quella del Gruppo Femminista Immagine di Varese, che coniugò il rifiuto irriverente del femminile addomesticato e il boicottaggio dell’impegno familiare alla sperimentazione estetico-politica.


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Le operaie della casa hanno scioperato! Tutte fuori dalle case! Soldi alle donne! Potere alle donne! Sembra riecheggiare la vitalità dei versi de Il Canzoniere Femminista (Gruppo musicale del Comitato per il salario al lavoro domestico) osservando la fotografia di una manifestazione a Napoli nel 1976: musica, canti e danze, perché il femminismo è stata una festa, l’emersione imprevista nella potenza creativa delle lotte. Sullo sfondo del palco un grande banner recita «Anche l’amore è lavoro domestico», realizzato dalle artiste del Gruppo Femminista Immagine di Varese, una delle poche organizzazioni collettive femminili dentro il sistema artistico italiano, capace di coniugare «militanza gioiosa» e sperimentazione estetico-politica. Questo props rinviava all’esergo di Silvia Federici, «Lo chiamano amore. Noi lo chiamiamo lavoro non pagato», perché il capitale ha creato un autentico capolavoro: non solo lo ha reso un lavoro (di cui si appropria senza contropartita monetaria attraverso l’erogazione gratuita di servizi fisici, emotivi e sessuali) ma un’aspirazione per tutte le donne, quella vocazione femminile mistificata in un atto d’amore e remunerata dall’affetto dei propri cari. Le artiste del collettivo, fondato nel 1974 da Milli Gandini e Mariuccia Secol, non smetteranno mai di riconoscersi in questi presupposti e nella dimensione militante transnazionale della campagna Wages for Housework del Collettivo internazionale femminista, che si era costituito a Padova nel 1972, dall’incontro tra Mariarosa Dalla Costa, Selma James (Londra), Silvia Federici (New York) e Brigitte Galtier (Parigi), con Leopoldina Fortunati e Alisa Del Re, aprendo un varco sovversivo nella lotta delle donne, in rapporto alle richieste di denaturalizzazione e ridistribuzione del lavoro domestico, da una prospettiva anti-capitalista e con una radicalità politica fino ad allora sconosciuta.


Adesso un volume, appena pubblicato per DeriveApprodi, La mamma è uscita. Una storia di arte e femminismo, a firma delle due protagoniste Milli Gandini e Mariuccia Secol (con la prefazione di Manuela Gandini), ne ricostruisce le vicende: una selva di appunti, notazioni, documenti testuali e materiali assolutamente inediti che non solo colmano un vuoto nella storia ma tracciano una contro-storia fuori, dalle narrative egemoniche e dal canone riduttivo patriarcale che l’ontologia modernista ci ha consegnato, quale asimmetria costitutiva di un circuito artistico che ha riservato al soggetto femminile, asservito a quello neutro-maschile, un altissimo grado di invisibilità.


Il «patriarcato del salario», lo aveva definito Federici analizzando il declassamento della posizione sociale delle donne, la svalutazione e l’assoggettamento del lavoro riproduttivo – faccende domestiche e lavoro di cura, sessualità e procreazione, da sempre escluse dal contratto sociale e senza nessuna mediazione salariale. La casa eterosessuale, storicamente naturalizzata come femminile, è accanto alla fabbrica, l’altro polo dell’oppressione: un’accumulazione di differenze e di divisioni nella classe lavoratrice, esacerbate dentro la famiglia nucleare, l’istituzione più importante per l’occultamento del lavoro delle donne ma anche focolaio di un possibile contraccolpo antisistemico.

«Dobbiamo uscire dalla casa […] è già una forma di lotta», risuonano le parole di Mariarosa Dalla Costa e Selma James nel titolo di quella che sarà definita, nelle pagine di «Le operaie della casa, rivista dell’autonomia femminista», una «mostra militante femminista», organizzata nel ’75 da Milli Gandini a Roma: La mamma è uscita. Il rifiuto irriverente del femminile addomesticato e del ricatto d’amore si traduce nel boicottaggio dell’impegno familiare: cucinare, lavare, pulire la casa, accudire i figli. Come fa Duchamp nell’Élevage de poussière che non si cura più della propria opera, lasciando depositare strati di polvere, così l’artista inizia una rivolta silenziosa, quella delle senza-potere nella società: «tutte casalinghe, tutte prostitute, tutte lesbiche» e siamo anche tutte artiste: così smette di spolverare e traccia il simbolo della lotta femminista o scrive «salario al lavoro domestico» su mobili pieni di polvere, in micro-azioni di sabotaggio per contestare un sistema patriarcale secolare che aveva imposto la propensione alla cura come quintessenza del femminile naturalizzato; colora le pentole e le «sigilla» con del filo spinato, tappa i buchi agli scolapasta, crea elettrodomestici detournati e stoviglie inutilizzabili.

Nello stesso numero della rivista Mariuccia Secol pubblica una fiaba femminista; negli anni Sessanta aveva creato un atelier di pittura in una struttura psichiatrica, sperimentando l’espressività dell’allargamento della creatività sociale con la valenza politica della lotta all’emarginazione non solo femminile; ora, si toglie il grembiule da cucina e lo inchioda sulla tela, costruisce quadri-assemblages astratti con le «pagliette» per pulire le pentole, realizza grandi arazzi che richiamano profili femminili, forse ombre di trame de-tessute, che smaglia e ricuce. Per Secol questi strappi nell’ordito delle sue opere sono «smagliature», nella doppia accezione di inestetismi estetici o attribuiti alla maternità, sia di tessuti lacerati e sfilacciati: silhouette in negativo scucite come i collant smagliati di donne battute e rassegnate, di donne fantasma.

Nell’universo delle relazioni non codificate, a cui solo il femminismo riesce a dare senso e potenza, la complicità tra sorelle e compagne occupa un posto speciale, quello delle risonanze, come nel «grande mantello» che le avvolge tutte, o nel corpo collettivo, arazzo e azione performativa «Io» di Mariuccia Secol (1973). Aderiranno infatti in questo momento Silvia Cibaldi, Maria Grazia Sironi e Clemen Parrocchetti, quest’ultima definirà quell’esperienza «i nostri momenti di lotta, anni epici».


Il 1978 è stato incredibile per il femminismo italiano e anche per il Gruppo Immagine sarà scandito da una serie di avvenimenti significativi, pressoché rimossi dalla storiografia accademica e ufficiale. Il 14 e 15 gennaio organizzano a Milano, presso il Centro Internazionale di Brera, il primo convegno nazionale delle operatrici delle arti visive, intitolato Donna Arte Società, con oltre 500 partecipanti, intorno alla controversa questione della creatività, appannaggio della cultura maschile, dell’estetica femminile VS femminista, dell’inconciliabilità di un mancato incontro con l’arte che ha caratterizzato la fase fondativa del movimento politico, da una parte, insieme alle difficoltà di imporsi professionalmente in un sistema patriarcale, che ha ghettizzato le artiste in una posizione sussidiaria, minoritaria e subordinata, nel ruolo mono-dimensionale di muse ispiratrici, reificate su un modello di artista modernista (bianco, maschio e occidentale). Il gruppo legge il manifesto Vogliamo-vo(g)liamo, in cui prende le distanze da quel «ascetismo rosso», con cui Lea Melandri aveva chiamato la dedizione verso la causa operaista, nella tensione che ha attraversato le due anime del femminismo in Italia.

Al di là delle provocazioni era il momento di uscire dal ghetto di un’arte militante e liberarsi della «cultura della calzetta». Accesi dibattiti e polemiche animeranno il convegno, le organizzatrici saranno accusate di autoritarismo e di aver gestito gerarchicamente il formato assembleare, accentrando la presa di parola, mettendosi in cattedra e parlando al microfono (un totem fallico, come viene definito sulle pagine di «Effe»). Al centro delle discussioni, la questione, ancora oggi irrisolta, dell’autorialità artistica, la ricerca del successo, l’accesso alle istituzioni e alle infrastrutture del sistema culturale («Siamo stufe dei canali alternativi, che in realtà sono i canali della miseria. Vogliamo essere considerate professioniste come i nostri colleghi», dirà Gandini); se inizialmente praticano quella «creatività del rifiuto», come leva fondamentale di potere sociale, rifiuto non solo dei ruoli assegnati alla soggettività femminile ma anche dei circuiti artistici commerciali, di gallerie e mercato, ora respingono l’etichetta di arte femminista militante e rivendicavano provocatoriamente il diritto di fare «arte per l’arte» e aspirare ad essere «artiste famose», accettando le lusinghe del sistema artistico, insieme alla ricerca emancipazionista e della parità di genere che la Campagna aveva negato.

La mostra Mezzocielo, presso la Galleria di Porta Ticinese di Gigliola Rovasino, uno spazio di auto-determinazione a Milano, rappresenta la prima occasione in cui proporre un display collettivo, le Barriere, strutture espositive che rimandano al gesto femminista con il simbolo del triangolo rovesciato e ospitano i lavori delle artiste. Embroidery e passamanerie, arazzi e tessuti rammendati grossolanamente, rocchetti e imprecisati ricami a punto croce, cuciti senza pazienza e dedizione, ma contravvenendo a ogni prescrizione tecnica e lavorando contro il canone: «quando le donne ricamano – come ha evidenziato Rosizka Parker –, questo non è visto come arte, ma come espressione della femminilità. E, soprattutto, è classificato come artigianato”. Queste opere non sono però amuleti o trofei di una contro-femminilità disturbante, oltre i recinti della subordinazione e di molteplici sottomissioni: il valore sovversivo del tessile e della tessitura è stato uno strumento di denuncia e un atto di resistenza contro i sistemi di produzione capitalista, sottolinea Julia Bryan-Wilson, basti pensare all’esperienza delle Arpilleras durante la dittatura di Pinochet o le narrative trapunte della tradizione Black riprese da Faith Ringgold.

Ma il 1978 è anche l’anno della partecipazione alla XXXVIII Biennale di Venezia, insieme al Gruppo Donne/Immagine/Creatività di Napoli, con la produzione di un suggestivo environment, Dalla creatività femminile come maternità-natura al controllo (controruolo) della natura, strutturato attorno a un iconico dispositivo spaziale: una vasca circolare, gonfiabile e in materiale plastico, riempita d’acqua, simbolo del liquido maternale è sovrastata da cinque arazzi, installati obliquamente rispetto alle convenzioni espositive, per consentire il rispecchiamento delle opere, come se affiorassero da una sorgente femminista. L’ordine indicibile del discorso secolare poteva essere messo in crisi con un semplice spostamento della vasca facendo vacillare quel sistema-mondo patriarcale di cui era instabile metafora.


Negli anni della contro-rivoluzione a venire, la polarizzazione originaria del movimento – i gruppi dell’autocoscienza e il pensiero della differenza da una parte, l’area del salario e il femminismo marxista della rottura dall’altra – volterà verso il simbolico, dismettendo la possibilità di rovesciare i rapporti di forza tra genere e capitale. Contro un ciclo di lotte così potente, come accadde allora per altre mobilitazioni, il comando capitalistico replicherà con durezza: la risposta alle battaglie del/contro il salario, non sarà soltanto negativa ma fortemente repressiva; la sua storia sarà praticamente cancellata, insieme al portato rivoluzionario delle sue teoriche, ignorate nelle università, nel dibattito politico e dalla memoria collettiva della seconda ondata. Lo stesso destino spetterà alla controparte nelle arti visive: dopo lo scioglimento del Gruppo Immagine, intorno alla metà degli anni Ottanta, sulle vicende espositive e artistiche del collettivo calarono il silenzio e l’oblio. Fino a quando una mostra nel 2019, Il Soggetto Imprevisto. 1978 Arte e Femminismo in Italia, a cura di Marco Scotini e Raffaella Perna, presso FM Centro per l’arte contemporanea di Milano, ha riaperto gli archivi «ribelli» e dis-archiviato opere e documenti rimasti rimossi per quarant’anni. L’importanza politica del lavoro sugli archivi serve anche a ricordarci che i femminismi hanno iniziato un processo che non può dirsi concluso fino a quando non si cambia tutto. La storia è nostra e ora dobbiamo raccontarla.


Immagine: Mariuccia Secol

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