Di che cosa si arma la contemporaneità? Un’immersione tra le armi chimeriche dell’arte e il loro potere sovversivo.
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L’odore ripugnante dell’olio esausto riempie le narici. Davanti agli occhi una piscina nera lucida di zinco riflette una piramide di 105 Kalashnikov. Si tratta dell’anti-monumento che Valie Export dedica alla contemporaneità e ai suoi vertici: guerra – potere – petrolio. Gli artisti hanno sempre détournato gli strumenti e i simboli del potere, per creare uno spaziamento, una crepa che diventa luogo fecondo di riflessioni, possibilità e alternative.
È il caso della recente performance AFELIO di Gaia De Megni, che si è tenuta qualche settimana fa a Bologna. Due donne in uniforme militare eseguono in piazza VIII Agosto il cambio della guardia del cimitero di Arlington allo scoccare di ogni ora.
Alla precisione, al ritmo e alla pulizia dei loro gesti si contrappone la decostruzione artistica in atto: le due performer, Gloria Dorliguzzo e Marta Tabacco, indossano una divisa non riconducibile a nessun gruppo militare preciso e maneggiano un’arma pesante, come potrebbe essere l’originale, ma di vetro - e quindi delicata - con attorno un pubblico affascinato dall’arte e non dalla divisa.
Il tema della fragilità dell’arma, simbolo di forza e potenza per eccellenza, ritorna nelle ironiche granate in vetro rosa shocking di Silvia Levenson, riunite in un centro tavola simile a quello che si incontra dalle nonne la domenica, oppure poste come ciliegina in vetta alla torta nuziale.
L’unica cosa che rischiano di far esplodere, però, è il disappunto di qualche maschio. L’arma acquista la forza dell’archetipo e di un più vasto inconscio collettivo, perde la funzione originaria per acquisire un valore d’uso ironico, dissacrante, quasi ludico non da interpretare come diletto, ma piuttosto, con le parole di Pino Pascali «non si vuole parlare di gioco in senso di “puro divertimento”, bensì inteso come attività normale dell’uomo. E il gioco, anche per i bambini, è una cosa seria, è un modo per conoscere». Lui stesso infatti ha indagato l’immaginario del conflitto armato negli anni ’60 – periodo di forti tensioni sociali – presentando alla galleria Gian Enzo Sperone a Torino delle sculture ispirate alle armi da guerra, ma inutilizzabili, (come il cannone semovente) talmente fedeli alle originali da spaventare gli spettatori. Il tentativo dell’artista in quel contesto era di depotenziare l’arma, o come ha osservato meglio Achille Bonito Oliva, di «disarmare la guerra».
Ne Le memorie di Adriano Marguerite Yourcenar sostiene che il più grande insegnamento che Adriano deve apprendere è quello di incarnare il proprio tempo e l’arte, in questo caso, può essere sintomo utile per intercettare cambiamenti. In un periodo incerto come quello attuale nel quale sono richiesti adattamento, velocità e capacità di reinventarsi, Zazzaro Otto propone la serie di opere Traslochi Heimat S.r.l.: un assemblage giocoso di materiali differenti. Alcuni di questi rimandano a un’estetica bellica, che però fa riferimento a un tipo di guerra interiore e individuale e diventano un kit di sopravvivenza contemporanea. Il divano-letto portatile o il motociclo con sopra una casetta per bambini, dei cereali sul retro e un’ascia da difesa sul lato, suggeriscono che oggi occorre crescere corazzati e pronti alla fuga.
Se si pensa al recente film di Christopher Nolan Oppenheimer, il «distruttore di mondi», oppure al protagonista de Lo straniero di Camus, che uccide per «colpa» del caldo, è chiaro che viviamo in un mondo che ancora litiga con la memoria storica e nel quale la violenza si fa sempre più insensata e quotidiana. Davanti a questo scenario, un certo tipo di arte è sì specchio del proprio periodo storico, ma allo stesso tempo vi sfugge, o vi si sottrae, slitta in avanti con uno scarto che anticipa il cambiamento.
Il fatto che gli avvenimenti ritornino, come ad esempio i conflitti, non significa che si ripetano. Il ritorno non coincide con ritrovare l’identico, c’è sempre una sbavatura, uno spaziamento che cambia tutto e crea resistenza. Può essere un’uniforme che non appartiene a nessun esercito; un fucile di vetro; un cannone fatto di legno, oppure il veicolo blindato che trascina a sé la treccia di Zehra Dogan e al quale l’artista si oppone. La canna la tira verso di sé, vuole inghiottire lei, la sua storia, le ribellioni, come in un atto riproduttivo al contrario, si vuole riprendere tutto. «Oh mondo macho! Ti resisto fino alla punta dei miei capelli che afferri per attirarmi con forza a te. Con i miei capelli, la memoria del mio universo, i miei capelli radicati nel mio corpo, resisto alla tua forza con la mia controforza».
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Alessia Riva è una giovane curatrice e critica d’arte contemporanea, scrive per varie riviste tra le quali «Artribune» e ha recentemente curato «(Im)possible Ecolologies» all'orto Botanico di Roma. Studia alla NABA di Milano.
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