Pubblichiamo una riflessione di Manuela Gandini sulla Biennale di Venezia 2022.
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Hollywood + Meta si sono infiltrate in pianta stabile nel reale, creando, non solo l’avido desiderio di possesso e di status, ma anche quello di essere protagonisti del peggiore dei mondi distopici. La realtà si fabbrica prima nelle serie tv e nei videogame poi nel mondo fisico. L’11 settembre ha sancito la «modalità provvisoria-permanente» dell’Occidente: crisi, terrorismo, pandemia, fallimento, default, guerra, transumanesimo, surricaldamento climatico, carestia… tutto ripetuto a mitraglia… ancora, ancora e ancora. La Biennale è la sintesi del pandemonio in corso e ne dà una visione poetica, tragica e politica. Mai l’arte è stata così ossessivamente scenografica, immersiva, totalizzante e antropocentrica. Il lungo viaggio alla 59a Biennale di Venezia, curata da Cecilia Alemani, rende conto dell’infezione del mondo e della sua esaltata agonia, delle ritualità esoteriche, della discriminazione razziale e di genere e del dominio assoluto dell’Intelligenza Artificiale. L’asse anglosassone ha imposto una scelta di risarcimento etico dettata dalla visione postcoloniale politically correct che si basa ancora, però, sul colore della pelle. Leone d’oro all’afroamericana Simone Leigh del Padiglione Usa e d’argento al libanese Ali Cherri. Leone d’oro per il miglior padiglione alla Gran Bretagna nella persona della afro-caraibica Sonia Boyce e menzione speciale alla franco-algerina Zineb Sedira interprete del Padiglione Francese; e infine menzione alla coppia ugandese Acaye Kerunen e Collin Sekajugo.
Andiamo con ordine, premettendo che non si tratta di una Biennale rivoluzionaria ma di un caleidoscopio costruito sulla «riscrittura» di istanze, forme e concetti formatisi negli scorsi decenni. La novità è lo sdoganamento delle donne: una massiccia presenza che conta l’80% di artiste viventi e non, molte delle quali di colore. È una centratura eco-post-femminista (e forse anche un po’ fashion) che ha come riferimenti letterari, tra gli altri, i testi di Rosi Braidotti, Silvia Federici, Donna Haraway.
In una sorta di scrigno d’oro, che è una sala dalle pareti senape, c’è un piccolo nucleo dedicato alle surrealiste, drammaticamente cancellate dalla storia. Tra loro spiccano le folgoranti figure femminee ibride di Remedios Varo, Dorothea Tanning, Lee Miller, Leonor Fini, Meret Oppenheim, Leonora Carrington. Ed è proprio da un racconto della Carrington che prende il titolo l’attuale edizione veneziana: Il Latte dei Sogni. Ritengo questa prima «capsula» del tempo – tra le cinque incursioni fatte da Alemani in diverse fasi storiche – estremamente importante. Lo è sia per il dovuto riconoscimento all’ala femminile del movimento bretoniano sia perché i miasmi velenosi, nel quale il mondo era precipitato allora, ricordano da molto vicino l’attuale folle devastazione. Un’elefantessa verde, propiziatoria, in scala 1:1 di Katharina Fritsch – che nel 1999 nello stesso luogo propose degli inquietanti ratti giganti – dà avvio alla prima parte della mostra al Padiglione Centrale dei Giardini di Castello. Si percepisce immediatamente un’energia diversa che però manca della nuda radicalità del femminismo anni Settanta. La mostra diventa a tratti ripetitiva nelle sculture organiche, biomorfiche e industriali, che puntellano sia i Giardini sia l’Arsenale. Tra queste, le opere di Teresa Solar, Marguerite Humeau, Jes Fan, Giulia Cenci. Via via che percorriamo gli spazi, si infittiscono i gironi danteschi e inciampiamo in organi deformati e liquefatti di Tatsuo Ikeda o nelle viscere appese realizzate da Mire Lee.
L’ossessione del tempo, della smaterializzazione e della morte, si accompagna inevitabilmente a quella per il corpo. È il frutto della strage dei morti in solitudine per pandemia? Della guerra nucleare minacciata o del controllo totale e liberticida delle scintillanti democrazie? Lo troviamo ovunque il corpo umano: disegnato, alla maniera di Frida Kahlo, come propria estensione vegetale e animale ma anche come dispositivo magico e spirituale, nei lavori di Rosana Paulino e Felipe Baeza o sessuale nella sfera dei rapporti inter-specie tra Zheng Bo e gli alberi della foresta. Sidsel Meinech Hansen ha filmato una casa di piacere tedesca nella quale i maschi comprano rapporti sessuali da consumare con bambole di silicone. Sono corpi perfetti, sexy, robotizzati, che obbediscono e non fanno opposizione, mansueti e disponibili a tutto. L’artista, ha analizzato il mercato, la produzione e l’organizzazione economica della nuova frontiera dell’amore sintetico e ha esposto le casse usate dall’industria per i calchi dei corpi. Uno degli aspetti più eclatanti della Biennale è la relazione tra biologico e bionico, tra carne e microprocessori, tra umano e extra-umano. Tishan Hsu propone volti di silicone fatti di materiale organico che innescano processi di crescita biologica e, di se stesso, afferma: «Considero me stesso un cyborg: Google è la mia memoria».
Tra i fantasmi del futuro vi sono anche presenze arcaiche, magiche e spirituali. Come gargolle spietate, gli spiriti, gli angeli e i demoni, sembrano assistere l’umano della fine dei tempi: il tempo del Kaly Yuga o dell’Apocalisse di Giovanni. Vi è gigantismo sparso qua e là come le sculture-forno antropomorfe di Gabriel Chaile fatte di terracotta che impersonano i membri della sua famiglia indigena o gli enormi corpi senza sostanza, spaventapasseri umanoidi, nella camera verde di Sandra Mujinga che sembrano totem di un vecchio film horror. Ai Giardini, l’esterno del Padiglione degli Stati Uniti, è interamente ricoperto di paglia come un villaggio africano. L’imponente installazione, realizzata dalla già citata artista, Leone d’oro, Leigh, è l’apparente mutazione architettonica dell’edificio e forse dell’eredità culturale Wasp. Sotto la paglia però rimane la possente ossatura del padiglione americano in stile coloniale. È un passo avanti, certo, ma è anche come aver messo il trucco, la parrucca, la maschera, al paese più imperialista del mondo. Al centro trionfa una scultura africana femminile, immensa, maestosa, un po’ mama, un po’ rifugio, un po’ Voodoo.
Un senso di decadenza e di finis mundi fa eco in ogni ambito della mostra. L’installazione di Elaine Cameron-Weir vale per tutti: vi sono reti metalliche, che scendono dal soffitto, dietro le quali sono collocate le casse usate dall’esercito americano per trasportare resti umani. Poggiate sopra tremulano candele finte da cimitero. Il tutto è basato sulla narrazione eroica del sacrificio individuale che lo stato richiede paragonando la vita a un oggetto usa e getta.
Nell’era della spettacolarizzazione continua, vi è anche la tendenza a costruire veri e propri set, accattivanti e seduttivi, come quelli di Zineb Sedira per il Padiglione Francese che ha ricostruito le scenografie di vecchi film, come Ballando ballando o Lo Straniero, che sono stati importanti per la sua vita. È un modo di difendersi, di evadere la violenza del presente non attraverso parole e immagini ma attraverso lo spazio fisico. E così, anche Gian Maria Tosatti per la cura di Eugenio Viola, al padiglione Italia ha ricostruito l’atmosfera delle fabbriche degli anni Settanta, con una forte carica poetica e una certa teatralità. Ma, oltre agli ambienti in scala 1:1 che trasportano il visitatore nel territorio del sogno, vi sono anche corpi di donne iperrealistici ai quali ci avviciniamo per vedere se respirano. Il Padiglione della Danimarca, ad esempio, ospita l’installazione di Uffe Isolotto che propone una donna-centauro sdraiata a terra che è forse morta. L’immagine è talmente dettagliata, con la parte animale impagliata, da sembrare plausibile.
«Welcome to everybody nel mondo della post-verità!», nell’immenso Luna Park con effetti speciali mortali, con fuochi d’artificio che inceneriscono, con Joker che ti saltellano attorno, con uomini di governo in giacca e cravatta che portano la divisa dei becchini. Tutto questo è il mondo, tutto questo è la Biennale, tutto questo è il nostro specchio: un biglietto in prima fila for the end of the Word! Le riflessioni possibili sull’ultima rassegna, a precipizio sulla terza guerra mondiale, vanno in tutte le direzioni. Ma il leitmotiv della mostra è la descrizione che l’Occidente sta cercando di fare di se stesso. Concludo il viaggio nell’Attica, al Padiglione della Grecia, nella straordinaria installazione di Loukia Alavanou in Realtà Virtuale. È buio, indossi il visore ed entri nella gabbia di un gruppo di avvoltoi. Poi sei in una fabbrica dismessa con fango e rottami ovunque. Antigone è una biondina timida, dalla carnagione chiara, in tuta da ginnastica grigia che protegge il padre cieco con occhiali neri, baffoni e cappello da marinaio. Edipo è ormai un re fragile e senza potere, è decaduto e isolato dalla comunità, e cerca il suo posto per morire. Le scene si svolgono in un campo Rom alla periferia di Atene e sono interpretate dagli stessi zingari. Lì la civiltà sembra non essere mai entrata se non in forma di scarto, rottame, scoria. La desolazione serpeggia sotto un largo cielo, tra le baracche di gente senza terra mai registrata in alcuna anagrafe del mondo.
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