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L'uomo che ha afferrato il fulmine a mani nude

Ritratto di Mario Tronti



Un ritratto di Mario Tronti scritto da Franco Milanesi: «Ripercorrerne i passi (della vita di Tronti, ndr) è come proporre una "breve storia" di quella parte – la sua, la nostra – che indica un’ontologia sociale e una vicenda lunga di politicità».


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Strettamente articolati con la contingenza – non per fornirne una lettura raffreddata nell’osservazione o nell’interpretazione, ma per rovesciarne il senso – i concetti che sostanziano il lavoro filosofico di Mario Tronti nel corso della sua lunga vita (Roma, 21 luglio 1931Ferentillo, 7 agosto 2023) sono diventati in molti casi astrazioni determinate a cui, nel corso di decenni, hanno attinto generazioni di militanti. Armi da usare nelle lotte di tutti i giorni, in fabbrica e in strada, che indicavano una direzione possibile nell’azione contro il capitale. La «rivoluzione copernicana» che pone la lotta come motore immobile del capitale; l’autonomia del politico come organizzazione tattica al servizio della strategia di classe; l’antagonismo agito efficacemente «dentro e contro» le strutture borghesi; l’uso di parte dell’intelligenza avversaria: pensare attraverso questi occhiali concettuali ha significato di volta in volta ipotizzare linee di condotta con i subalterni, i ribelli, gli insofferenti a questo presente asfittico, uniformato sotto un unico segno.

Come tutti i proletari Tronti nasce e percorre l’intera esistenza in quella comunità che lega in un nesso indissolubile chi confligge con il proprio tempo e si muove in una prospettiva di reinvenzione di vita. Questo è il segno della militanza («sono un politico che pensa, non un pensatore politico», amava ribadire) e del lavoro trontiano. Questa è l’unità della sua vita le cui fasi sono piegature e salti, riposizionamenti, non fratture. Ripercorrerne i passi è come proporre una «breve storia» di quella parte – la sua, la nostra – che indica un’ontologia sociale e una vicenda lunga di politicità.

Già negli scritti degli anni Cinquanta su Gramsci emerge il senso della radicalità di Tronti: scavare nei testi fino a portare alla luce il legame tra la teoresi, l’azione modificatrice e le soggettività che la pensano e la praticano. Non si tratta di «criticare» Gramsci, come è stato alle volte detto, ma di togliere il velo alla sua edulcorazione, operata al fine di legittimare la strategia nazional-popolare, progressiva e progressista, del Pci. Comunque, stando dentro il partito perché è nella sezione ostiense che si trova il proletariato romano a cui lo stesso Tronti appartiene. Da comunisti, si è dove sta il popolo, dove si parla con i subalterni, dove si può lottare e organizzare con loro. Non solo lì, ma anche e necessariamente lì. E se questo porta – come accadrà nella vita di Tronti – a operare scelte non condivise appieno da compagne e compagni, allora si dovranno aprire, in divergente accordo, dialoghi e confronti anche aspri ma con la consapevolezza che sulla tattica si può dissentire, ma solo sulla strategia ci si dovrebbe dividere.

Questo ha in mente Tronti già nei primi scritti. In quel momento, in Italia, liberare il «padre nobile» del comunismo nazionale dallo storicismo imperante significa proporre un Gramsci come pensatore machiavellico-leninista in cui «la teoria si presenta come una teoria pratica perché la pratica viene scoperta come pratica teorica»[1]. Questa operazione ha un ulteriore portata: ricollocare il pensiero comunista come un sapere che non solo indaga l’avversario di classe ma che predispone strumenti di attacco e produce soggettività antagonista. Si doveva dunque uscire dal paradigma di un’Italia industrialmente arretrata, funzionale alla linearità storicista e all’attesismo. Torino, la città-fabbrica fordista, rovesciava quella fotografia ingrigita e statica presentando una base operaia, in buona parte immigrata, dura, non fidelizzata, sradicata da tutto, anche dalla politica. Operai dentro capitale, forza lavoro che fa girare gli ingranaggi della valorizzazione ma che in questi stessi meccanismi è pronta a gettare una chiave inglese o le richieste selvagge di salario, il rifiuto del lavoro e l’assenteismo di massa. In questa Torino nascono nel 1961, attorno a Raniero Panzieri, i «Quaderni rossi» in cui Tronti, con altri militanti cerca e trova contatto tra la massa operaia e la ragion pratica sovversiva: «Oggi, dire teoria e pratica è poco. Bisogna dire teoria scientifica e pratica rivoluzionaria»[2].

L’operaismo che si struttura in quelle giornate, scrive Tronti, è «un modo politico di guardare il mondo e una forma umana di comportarsi in esso»[3], in tal senso un atto fondativo che, senza enfasi, possiamo definire imperituro. Per questo le successive diatribe interne al gruppo che quella scelta condivise fino in fondo, le spaccature e la nascita di nuove riviste di riflessione teorica cui Tronti partecipa («classe operaia» 1964, «Contropiano» 1968, infine «Laboratorio politico» 1981) appaiono certo significative per una corretta rilettura dei due decenni (Sessanta-Settanta), ma sono, nel progetto di una osservazione politica e affettiva del percorso trontiano, parti di una strategia unitaria che cerca ostinatamente di portare strumenti teorici sul terreno della prassi. Il metodo operaista non è tanto (certo non solo) ricerca empirica e induttiva che muove dalla fabbrica per elaborare teoria, poiché lo sguardo è già orientato dalla finalità leninista di portare in quelle fabbriche volontà sovversiva. La conricerca che si svolge davanti ai cancelli, parlando con operaie e operai, si sviluppa infatti a partire dall’azzardo della «parola d’ordine dello scontro di massa, dello scontro sociale di massa, in questo punto, dello sviluppo capitalistico italiano»[4] e l’armamentario concettuale che decodifica questa realtà la trasforma e si trasforma nell’immediatezza, nel suo intrecciarsi ora per ora con un conflitto che ha momenti di latenza, imprevedibili esplosioni, possibilità. «La classe operaia come motore mobile dinamico del capitale e il capitale come una funzione della classe operaia»[5], queste parole di Alberto Asor Rosa sintetizzano il senso di una «rivoluzione copernicana» che consegna alla classe l’invenzione del momento rivoluzionario e che indica con precisione cosa voglia dire essere «dentro e contro»: «Il potere operaio è potere politico ma in senso specifico: non in quanto mantiene i suoi partiti, ma portando il potere dove il capitalista nega che si debba portare. Il potere politico va rivendicato a livello del processo produttivo, perché lì divide il capitalismo dalla classe operaia e non permette l’integrazione»[6]. Il ciclo di lotte dei primi anni Sessanta, gli scontri del 1962 in piazza Statuto confermano ma al tempo stesso ricollocano gli operaisti di fronte a nuove urgenze. Se l’autorganizzazione operaia si esprime nel momento stesso del conflitto, il tema di mantenersi sempre un passo avanti la risposta del capitale non può non portare a ragionare sulle forme stesse dell’organizzazione. Ci sono i partiti, i sindacati a cui migliaia di operai riconoscono funzione di direzione e auctoritas politica. Tronti, che non è mai uscito dal Pci, e altri operaisti – Asor Rosa, Alquati, Cacciari, Negri – colgono i primi segni di un avvitamento delle lotte di fabbrica. Non è negata la politicità dello scontro sul salario, ma si sente l’esigenza di un processo di ricomposizione organizzativa come forza catecontica (anticipando qui una categorizzazione che diverrà centrale solo più tardi) rispetto alla stabilizzazione capitalistica.

Nella seconda edizione di Operai e capitale, nel Poscritto di problemi, il tema dell’organizzazione è collocato in prospettiva storica, attraversando l’età marshalliana inglese, le vicende della socialdemocrazia in Germania, il New Deal. Ed è proprio l’America a insegnare che vi è il rischio di perdere battaglie e guerre «se il livello dell’organizzazione non riesce a spostarsi presto in avanti sui contenuti nuovi delle lotte, se la coscienza del movimento, e cioè di nuovo la struttura già organizzata della classe, non riesce a recepire subito il senso, la direzione della prossima iniziativa capitalistica. Perde chi ritarda»[7] mentre, come Tronti dirà in altre occasioni, non viene sconfitto (che è ovviamente ben altro dal vincere) chi riesce a stare nella lunga durata.

Il nuovo attivismo nel Pci va dunque compreso in questa dinamica di pensiero. Il partito comunista è, come tale, trama organizzata di popolo, ceti dirigenti, quadri, teoria. Bisogna frenarne la deriva socialdemocratica, farne strumento di classe.

Il saggio 1905 in Italia, pubblicato nel settembre del 1964 su «classe operaia», delinea questo progetto. Stare dentro le lotte di fabbrica e trasferirne l’esperienza in azione di pressione e condizionamento sul Pci per favorirne lo spostamento verso posizioni di alternativa. Essere fuori dalla fase rivoluzionaria – questa la diagnosi di fase – non significa infatti che l’ipotesi rivoluzionaria sia da abbandonare. Ma ciò indica che, con pazienza, si devono ricercare strumenti di potenza politica adeguati al posizionamento istituzionale dell’avversario di classe. Il partito è uno di questi e con ciò l’autonomia del politico, che sarà esplicitata nel breve saggio del 1977, è già prefigurata.

Chiusura dell’operaismo? No, perché nello sfarinarsi della spinta rivoluzionaria, permane, come dirà Tronti, lo stile operaista. In sintesi: «il punto di vista, il rapporto tra teoria e pratica, la sua istanza fondamentalmente rivoluzionaria. Tenendo fermi questi punti, poi si può andare ovunque. Perché solo così puoi dire: voi non mi acchiapperete, non mi prenderete. Io sono libero»[8]. «Adesso noi ce ne andiamo. Le cose da fare non mancano. Un monumentale progetto di ricerche e di studi viaggia sulla nostra testa. E politicamente, con i piedi sulla terra ritrovata, c’è da conquistare il nuovo livello dell’azione. Non sarà facile»[9].

Il capitale si stava riorganizzando. Innanzi tutto a partire dal conflitto operaio ma non meno dallo scontro intercapitalistico che portava a ricercare nuove forme di estrazione di valore, sia con una finanziarizzazione sempre più spinta, sia con l’assoggettamento del sociale attraverso l’interiorizzazione delle logiche mercantili, dunque come pianificazione egemonica di diffusione della Gestalt borghese. Ecco il tema: l’homo oeconomicus, che con la sua diffusione globale avrebbe sconfitto tanto l’homo sovieticus (mai pienamente fattosi evento) quanto compresso e reso residuale l’aristotelica politicità dell’umano. Proponendo così nei decenni successivi il tema del confronto-scontro tra politica e storia, cioè tra forme di vita non borghesi e destino, cristallizzazione della realtà in atto.

Pensare la forma-Stato, le istituzioni, il partito significa mettere in campo, con tutta la pazienza, la tenacia e la misura di una fase di recessione del politico, strumenti da affidare alla classe operaia.

Siamo in un passaggio d’epoca. Tronti non liquida il ’68 studentesco, ma lo colloca tra il ’62 e il ’69, cioè i momenti apicali del ciclo operaio. Sottolinea il rischio della sua riduzione a filone del «pensiero critico borghese» e certo paventa l’esito democratico di quelle lotte. Per questo auspica la saldatura delle lotte studentesche e operaie al fine di «allargare nella prassi il fronte della lotta di classe», puntando al «livello istituzionale del sistema», là dove la classe operaia agisce «al livello economico del capitale»[10]. Una saldatura che in parte avverrà pur scontrandosi contro alcuni limiti culturali del ’68, in particolare quelli che attengono alla critica studentesca a ogni espressione di potere, presupposto per quell’arretramento di politicità che si distenderà nel decennio successivo. Va comunque rilevato che nella lettura trontiana il «lungo ’68» italiano, con le sue multiformi espressioni, restituisce un’eredità umana e sociale non del tutto compromessa, una forma di vita non mercificata, capace di solidarietà, ancora orientato alla critica del presente. Quel «popolo di sinistra» già flebile, eticizzato nell’universalismo astratto ma da cui si poteva estrarre, forse, qualcosa di più se una dirigenza partitica indebolita della propria inezia teorica non ne avesse accelerato la polverizzazione.

Ma il ciclo, in ogni caso, si stava chiudendo. Il ’69 operaio, scrive Tronti, «produce politica, produce organizzazione, produce cultura. Cambia la società, mette positivamente in crisi il sistema politico, trasforma la mentalità e il costume, rovescia il senso comune»[11]. L’autunno caldo si conclude con un effettivo avanzamento poiché le piattaforme rivendicative prevedono aumenti salariali uguali per tutti, la parificazione fra operai e impiegati sul piano normativo, l’orario di lavoro portato a 40 ore settimanali, l’assemblea in fabbrica. Per la borghesia, da qualsiasi angolazione si osservino quei fatti, è un momento di «grande paura». E allora il capitale si riorganizza, su vari fronti. Si reprime il conflitto ma soprattutto si importa la controrivoluzione tecnologica, la finanza come motore valorizzante mentre pratiche di consenso sempre più penetranti e raffinate segnano i contorni dell’ordo liberale. L’assalto al cielo non c’è stato. «La radicalizzazione del discorso sull’autonomia del politico, che è dei primissimi anni Settanta, nasceva lì: dal fallimento dei moti insurrezionali che, dalle lotte operaie alla contestazione giovanile, avevano attraversato l’intero decennio Sessanta. Di nuovo: era mancato l’intervento decisivo di una forza organizzata»[12].

Il decennio degli anni Settanta vede Tronti non certo ripiegato sul lavoro universitario e sull’attività nel partito, che pure profondamente lo impegnano, ma in ricognizione attenta del nesso passato-presente, consapevole che il soggetto operaio sta vivendo un momento di transizione e dunque di bilancio dell’intera sua vicenda storica.

Dunque storia, da leggere, interpretare, rilanciare. Scavare nel passato per dare armi al presente. Il ricordo «balena nell’istante del pericolo» secondo l’illuminante indicazione di Benjamin. Autonomia del politico e uso politico della storia sono una cosa sola e di fronte al mutamento della composizione sociale e ai cambi profondi delle dinamiche del capitale, preso atto del mancato sbocco politico del conflitto, il pensiero antagonista riposiziona le sue categorie. Ora è la stessa filosofia politica della modernità che viene portata sul terreno evenemenziale. Cromwell e Hobbes, Machiavelli e la geografia italiana dei poteri, Roosevelt e il riformismo del capitale. Le pagine trontiane percorrono la dorsale tra guerra, potere, conflitto, violenza, inimicizia. Cesellano i termini non per il gusto di bizantinismi semantici ma, come sempre, per armare di idee la debole forza dell’antagonismo di classe.

In questo lungo arco di tempo si innesta la liquidazione dell’Unione Sovietica che chiude (in)degnamente gli anni Ottanta, quelli dell’ostentazione e dell’accelerazione neoliberista. Allora, tra le grida di giubilo da destra e da sinistra, occorre ribadire con intransigenza che quella storia e solo quella aveva davvero rovesciato il fondo immoto della storia, aveva capovolto il rapporto di classe. Con il ’17, «quelli che stavano sopra andavano sotto, quelli che stavano sotto andavano sopra. La Rivoluzione d’Ottobre è fondamentalmente questo […] quel punto originario, quello è essenziale, quello ha cambiato la storia delle classi subalterne, che da quel momento in poi non possono più chiedere qualcosa perché è giusto, ma operano nella prospettiva che la classe operaia dovesse diventare per un certo periodo classe non solo dirigente, ma classe dominante, che il proprietario, il grande latifondista, il grande capitalista, dovesse essere deprivato della propria proprietà»[13]. Dominare, impossessarsi con la forza politica della sostanza dell’avversario, la proprietà. Eccolo il potere proletario, finalmente portato dentro la storia grazie a quell’astrale congiunzione di stato d’eccezione (la guerra), avanguardia intellettuale, masse.

Perché dunque quel grande esperimento è fallito? Un difetto di leninismo nel senso della carenza di dirigenti all’altezza, dopo il ’24, di aprire una fase costituente di lunga durata? L’interruzione della Nep nel momento del suo passaggio alla democrazia popolare? Oppure la mancata antropologia fenomenologica dell’homo sovieticus? E come costruire il comunismo attraverso uno Stato che avrebbe dovuto programmare il proprio superamento? Tronti conduce questi motivi molto oltre il dibattito storiografico. Parole-eventi che immediatamente calano in una realtà che è la finale deriva di quel fallimento. Dopo il 1991 il grandioso «esperimento profano» (Rita di Leo) del comunismo va passato sotto la luce fredda dell’intelligenza politica. Riflettere sul passato per comprendere (assumere in sé) il proprio tempo, afferrare (greifen) concetti per scagliarli contro un accadere che appare di infinita e spesso indefinita transizione. Perché se è vero che si è arenata l’alternativa di sistema al capitale, questo pare vivere in una condizione di stabile instabilità.

«Il carattere della crisi di oggi è direttamente politico, di politica formale, di politica istituzionale. Non funzionano bene i meccanismi del potere. Il controllo capitalistico sulla società risulta molto difettoso nello stesso suo funzionamento tecnico»[14].

Questo avversario va aggredito non progettando una cogestione riformistica, ma portando la classe dentro il comando. È, ancora una volta, un tentativo di rilancio della funzione del partito, come forma per ricomporre quella sintesi tra popolo subalterno, dirigenti, strategia, la potente mescola che sostanziava das Politische, il Politico come soggetto produttore di storia. «Il partito politico – scrive ancora in Con le spalle al futuro nel 1992 – è avanguardia della classe sociale, non in quanto sa di più, ma in quanto può di più», perché solo attraverso esso l’istanza di alternativa «si arma per la prima volta di forza e organizzazione, di tattica e strategia, di volontà e realismo, di possibilità concreta, dunque di una pratica realizzazione»[15].

Gli scritti degli anni Novanta sono sempre più orientati verso una sperimentazione teorico-politica la cui tonalità esprime un pessimismo intriso di speranza. La sperimentazione diventa ora una necessità. Come avevano operato le avanguardie artistiche novecentesche conosciute e amate da Tronti, si tratta ora di rimescolare il lascito della grande tradizione producendo proficui innesti teorici. Distillare il pensiero grande borghese o quello della rivoluzione conservatrice assume il significato di fornire armi concettuali alla nuova Figur dell’operaio sociale, ai frammentati ma non domati lavoratori della fabbrica o alle nuove marginalità che il neoliberismo non è riuscito e non ha potuto addomesticare.

Ma la risposta al conflitto si rimodula, propone un innovativo sviluppo di egemonia. «Quando vediamo la vittoria sul campo del neoliberismo, a Occidente e a Oriente, nel governo e nel conflitto, allora ci accorgiamo che thatcherismo e reaganismo non sono stati passaggi congiunturali, relativamente presto rovesciati da un ciclo politico opposto; sono stati piuttosto passaggi strutturali»[16].

Neppur più una società di individui atomizzati ma una società medio-borghese di massa connessa nel consumo compulsivo. Nel tramonto del secolo l’economia si è fatta politica, in un «intreccio specifico di natura e cultura, che ha portato in età moderna, almeno nel primo e nel secondo mondo, a un primato assoluto dell'homo oeconomicus e a una sorta di naturalità della mentalità borghese mercantile»[17]. Il discorso unico del capitale si è, almeno in parte, trasferito in interiore homine.

È da questa interiorità che si deve ripartire. Liberandola dalle sirene ammalianti del discorso imperante che ha disegnato la radice antropologica della bürgerliche Gesellschaft – condensazione del rapporto di capitale – e da quel punto operando un vero «salto» di trascendenza da questo presente.

Le parole d’ordine si fanno più articolate, certo meno cogenti e performative. Ma questo è il tempo. Ascoltare, capire e sostenere le lotte nelle loro forme tradizionali (operai per il salario, immigrati contro la messa a valore della nuda vita, femministe per la rivendicazione intransigente di una diversità, spazi abitativi liberati dal mercato). Se in queste lotte l’avversario è ancora lì, davanti a noi e ha le sembianze del padrone o del padre (maschio)-padrone, della piccola e feroce borghesia urbana, più complesso è l’attacco alla cittadella democratica che tutto questo contiene, normandolo e ordinandolo attraverso l’ideologia della pacificazione. Per Tronti è chiaro che «il movimento operaio non è stato sconfitto dal capitalismo. Il movimento operaio è stato sconfitto dalla democrazia. Questo è l’enunciato del problema che il secolo ci mette davanti»[18]. Una critica «scandalosa» perché l’oltre di questo orizzonte democratico è stato deprivato di immaginario oppure omologato alla stupidità e alla violenza delle dittature su cui si è imposta la democrazia borghese. «L’errore non è quello di utilizzare le istituzioni democratiche: l’errore è di credere nella democrazia»[19]. Ma qual è il passaggio stretto che il rifiuto deve attraversare?

Tronti scrive e suggerisce. Parole condensate in scritti folgoranti, qualche intervista, pochi momenti pubblici, incontri con compagne e compagni, soprattutto giovani. Il tema della spiritualità assume inedita potenza. L’interiorità non è finalizzata a una «pulizia dell’anima», non al «benessere interiore» perché per Tronti stare in pace con sé «vuol dire entrare in guerra con il mondo»[20]. La teologia politica prende le mosse da questo posizionamento e al tempo stesso ne è l’esito. «La grande politica ha sempre richiesto un contesto di fede religiosa. C’è stato bisogno della teologia politica perché la politica moderna potesse profetizzare e organizzare il disperato tentativo di far uscire la storia dai suoi cardini»[21]. Teologia politica, spiritualità interiore, cristianesimo, religiosità devono essere ovviamente declinate in modo differente. Ma queste dimensioni, tanto collettive quanto silenziosamente operanti nella singolarità, possono essere unificate proprio nella pratica di parte. Così se «cristianesimo e capitalismo sono nemici»[22] e se il kathekon paolino è intrinseco a ogni ribellione all’ordine dato, non meno forte è il nesso che lega l’impulso rivoluzionario alla trascendenza intesa nella sua radicalità, cioè non solo come superamento «orizzontale» verso relazionalità non mercificate – sicuramente un obiettivo – ma come verticalità del proprio stare nel mondo. Vi è «un legame strettissimo fra trascendenza e rivoluzione»[23], che si mostra nell’incompatibilità tra lo spirito libero e ogni «legge di mercato», in una volontà di disordinare questo mondo, in imprevedibili possibilità di reinvenzione di vita, fin oltre la vita.

La finestra dello studio di Mario, nella sua casa di Ferentillo, si affaccia sulla splendida campagna umbra. Molti libri, una grande scrivania, qualche oggetto. A una parete due dipinti: un Lenin warholiano e un ritratto di Tronti in equale misura di proporzione e stile. Per noi due icone, vorremmo dirgli, in attesa del suo sorriso lieve e di imprevedibili parole.


L’ospite

Molto prima di sera torna da te chi ha scambiato il saluto con il buio. Molto prima del giorno si sveglia e ravviva, prima di andare, un sonno un sonno, risuonante di passi: tu lo senti misurare lontananze e là lanci la tua anima.


Paul Celan



Note [1] M. Tronti, Alcune questioni intorno al marxismo di Gramsci, in Istituto Antonio Gramsci, Studi gramsciani, Editori Riuniti, Roma 1958, p. 318. [2] M. Tronti, Studi recenti sulla logica del Capitale, «Società», 1961, n. 6, p. 903. [3] M. Tronti, Noi operaisti, DeriveApprodi, Roma 2009, p. 60. [4] M. Tronti, Il partito in fabbrica (Conferenza al Teatro Gobetti, Torino 14 aprile 1965), in Quattro inediti di Mario Tronti, «Metropolis», 1978, n. 2, p. 21. [5] A. Asor Rosa, Su Operai e capitale, in L’operaismo degli anni Sessanta. Da «Quaderni rossi» a «classe operaia», DeriveApprodi, Roma 2008, p. 558. [6] M. Tronti, intervento al seminario di Santa Severa, 1962, in L’operaismo degli anni Sessanta, cit., p. 167. [7] M. Tronti, Operai e capitale, DeriveApprodi, Roma 2006, p. 311. [8] Relazione di Mario Tronti al convegno Rileggere Operai e capitale. Lo stile operaista alla prova del presente, 31 gennaio 2007, Università La Sapienza, Roma, disponibile all’indirizzo http://www.commonware.org/index.php/gallery/73-rileggere-operai-e-capitale. [9] M. Tronti, Classe-partito-classe, «classe operaia», anno III, n. 3, marzo 1967, pp. 1, 28. [10] A. Asor Rosa, Dalla rivoluzione culturale alla lotta di classe, «Contropiano», 1968, n. 3, pp. 467-504, passim. [11] M. Tronti, Cenni di Castella, Edizioni Cadmo, Fiesole 2001, p. 77. [12] M. Tronti, Noi operaisti, cit., p. 51. [13] Intervista a Mario Tronti, 9 agosto 2001, cd allegato a G. Borio – F. Pozzi – G. Roggero, Futuro anteriore. Dai «Quaderni Rossi» ai movimenti globali. Ricchezze e limiti dell’operaismo italiano, DeriveApprodi, Roma 2002, cartella TRONTI2, pp. 4-5. [14] M. Tronti, Internazionalismo vecchio e nuovo, «Contropiano», 1968, n. 3, p. 507. [15] M. Tronti, Con le spalle al futuro, Per un altro dizionario politico, Editori Riuniti, Roma 1992, pp. 106-107. [16] M. Tronti, Essere parte, «Critica marxista», 1997, n. 5-6, p. 10. [17] M. Tronti, Difendo Sweezy, «l’Unità», 12 aprile 1990. [18] M. Tronti, La politica al tramonto, Einaudi, Torino 1998, p. 195. [19] M. Tronti, Estremismo e riformismo, «Contropiano», 1968, n. 1, p. 56. [20] M. Tronti, Lo spirito che disordina il mondo, 2007, http://www.cdbchieri.it/rassegna_stampa_2007/tronti_spiritualita.htm. [21] Tronti, La politica al tramonto, cit., p. 15. [22] M. Tronti, Non si può accettare, Ediesse, Roma 2009, p. 89. [23] M. Tronti, V. Possenti, Chi ha smantellato l’etica che ci univa?, «Avvenire», 30 ottobre 2012.



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Franco Milanesi dopo la laurea in filosofia ha insegnato in un Liceo di Pinerolo, città dove vive. Convinto che il pensiero politico sia un «pensare per l’agire» ha cercato di intrecciare lo studio con la militanza attiva. È autore dei saggi: Un’antropologia politica del Novecento, una monografia su Mario Tronti, Nel Novecento, e un testo sul nazionalbolscevismo in Germania, Ribelli e borghesi. Nazionalbolscevismo e rivoluzione conservatrice. 1914-1933.

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