top of page

L’invenzione della classe operaia





Vent’anni fa veniva pubblicato il volume L’invenzione della classe operaia di Maria Grazia Meriggi, frutto di una straordinaria ricerca su sopravvivenza e rottura delle dimensioni comunitarie in Francia, su costruzione di forme di partito e sovrapposizione fra rivendicazioni economiche e avventure insurrezionali, tra tramonto del popolo degli artigiani e alba del movimento operaio, fra la svolta della Rivoluzione francese e il 1848. In questo articolo l’autrice ripercorre un viaggio affascinante in mondi del lavoro complessi, composti in molti casi da operai ancora padroni dell’autorevolezza del mestiere ma che gli avversari vedono invece immersi nelle classi pericolose in cui la disoccupazione può farli precipitare.


* * *



Ancora una volta mi preparo a scrivere per «Machina», una rivista affascinante anche quando a volte non se ne condividono tutti i contenuti e sono stata sollecitata a riflettere sui temi di (e a partire da) una mia ricerca che è poi quella che mi è probabilmente più cara anche se studi, saggi e monografie su periodi più recenti hanno suscitato più attenzione e dibattito. Si tratta di L’invenzione della classe operaia. Conflitti di lavoro, organizzazione del lavoro e della società in Francia intorno al 1848 [1]. Tuttavia in un percorso che dura ormai da più di quarant’anni le domande che ponevo come centrali di quel volume nei Ringraziamenti [2], che riguardavano e riguardano tuttora «i contributi delle trasformazioni economiche e delle culture diffuse nel produrre i soggetti sociali» lo sono ancora nelle mie ricerche. In queste righe sono riassunte le ragioni per cui vale la pena di tornare ai contenuti e ai metodi di quella ricerca, al di là della tentazione della ego-histoire.

Alla quale tributo però una osservazione introduttiva. Oggi le strette imposte dalle forme di valutazione della ricerca universitaria e la resistenza degli editori a pubblicare testi specialistici che non siano divulgativi o universitari costringe i e le giovani studiosi e studiose a limitare alla tesi di dottorato la stesura di una ricerca su fonti di prima mano, fonti d’archivio che rappresentano anche un labirinto, una strada che prevede anche delle sorprese. I primi appunti di questa ricerca risalgono al mio solo anno sabbatico (1994) e li avevo esposti in un breve saggio del 1997 [3] in cui sinteticamente mi interrogavo sulla rottura delle dimensioni comunitarie, comprese quelle corporative e sulla costruzione «artificiale» di forme di partito, «artificiale» cioè scelta nella forma della «presa di partito» (della scissione?) già in alcuni momenti ed episodi della Rivoluzione francese, soprattutto nelle sezioni parigine. Il ruolo delle corporazioni, delle loro sopravvivenze e della sovrapposizione fra rivendicazioni economiche e avventure insurrezionali fra la svolta di quei secoli e il 1848 tiene conto di quell’intreccio fra rotture economiche e culture cui si fa cenno poco sopra. Dunque ben più di cinque anni nelle biblioteche italiane, francesi e dell’Iish di Amsterdam e nelle Archives Nationales e in quelle della Prefecture de Police de Paris mi hanno permesso di interrogarmi su questo rapporto immergendomi nel brulichio delle esperienze che costituiscono un viaggio affascinante in mondi del lavoro complessi, composti in molti casi da operai ancora padroni della autorevolezza del mestiere ma che gli avversari vedono invece immersi nelle classi pericolose in cui la disoccupazione può farli precipitare. Un percorso nel quale la scelta fra «il tramonto e l’alba» – vedremo subito che cosa si intende per questa alternativa – non è un presupposto teorico ma emerge dalle esperienze.

Inizio col ripercorrere il volume e con lo spiegare i titoli a volte forse troppo allusivi, «alla francese» dei suoi capitoli. Come ricordo nel volume, storici di grande ricchezza documentaria e finezza interpretativa hanno letto il 1848, compreso il «fatale» giugno, come il tramonto delle rivolte popolari animate da artigiani e da marginali messi insieme dalla spinta temibile di crisi agrarie che prima dell’apertura dei grandi commerci internazionali e transoceanici, grazie alle navi a vapore, potevano trasformare alcuni cattivi raccolti in vere carestie. Peraltro grazie ai fondi F7 «Bulletins des gendarmeries» delle Archives Nationales disponiamo di informazioni capillari sulle agitazioni e sulle forme di illegalità in tutto il territorio e di come gruppi di lavoratori abitualmente «rispettabili» potessero convertirsi in bande di mendicanti minacciosi sotto la duplice spinta della disoccupazione e del carovita insostenibile. È il caso di Luciano Cafagna [4] che recupera anche l’analisi di Tocqueville sul ruolo di una specie di lealtà fra combattenti che avrebbe unificato i comportamenti degli insorti nelle rivoluzioni (o insurrezioni) repubblicane dal 1830 e fino alla Comune. Si tratterebbe insomma di artigiani che rispondevano a una «economia morale» e si opponevano in nome della tradizione dei mestieri o di rapporti ancora «di bottega» alla pressione irresistibile del mercato del lavoro.

Indubbiamente la fenomenologia dei comportamenti rilevati dalle numerosissime fonti archivistiche di cui disponiamo non risponde al modello della lotta su salario e organizzazione del lavoro in luoghi di lavoro razionalizzati.

Ma sappiamo da tante altre fonti e narrazioni come questo «modello» sia una ipotesi di lavoro che ben di rado regge alla prova di una analisi approfondita dei rapporti sociali e dei comportamenti. Il volume ripercorre la «storia politica» e le forme associative dei gruppi minoritari operai fra la Restaurazione e il 1848 lungo gli anni della monarchia orléanista. Analizza le diverse posizioni – di filantropi, economisti, apologeti dell’esordio del mercato e suoi oppositori – e la genesi e la fortuna dell’opuscolo l’Organisation du Travail, redatto dal giornalista repubblicano Louis Blanc e pubblicato nel 1839 dall’editore Prévost, che raccoglieva osservazioni e suggerimenti di corrispondenti che ne facevano una autentica inchiesta. A partire dallo stesso Blanc, si tratta di autori certo privi della autorevolezza teorica di Marx o Tocqueville eppure hanno percorso immaginari, suscitato e dato forma a sogni e incubi. Nel capitolo su «il regime orléanista, le trasformazioni della Francia industriale e il corpo di Parigi come laboratorio sociale» affronto con i metodi della storia ma senza eludere l’analisi teorica, l’affermazione della modernità capitalistica in Francia pur dentro un mondo in cui operai a domicilio, contoterzisti, laboratori artigiani ancora lottavano contro l’affermarsi di una concorrenza razionalizzatrice, contro i suoi apologeti che vantavano la sua maggiore produttività e l’alleviamento della pura fatica fisica. Nella Parigi di quegli anni, nella primavera del 1845, durante la discussione alla Camera dei Pari sulla regolamentazione del lavoro carcerario, il relatore Maurice de Flavigny sostenne – suscitando indignazione sulle colonne della stampa d’opposizione – che la concorrenza al ribasso che esso provocava non doveva rappresentare un problema perché «il prigioniero è un operaio che, entrando in prigione, crea un vuoto nelle fila del suo mestiere [dans les cadres de son corps de metier]» e quindi il posto lasciato libero poteva essere occupato da un altro operaio [5]. Negli stessi anni il minutier central dei notai parigini – ordinato e facilmente accessibile grazie al prezioso lavoro dei curatori delle Archives Nationales – permette di registrare testamenti di modestissime proprietà di salariati da me citati nel volume [6]. Si tratta evidentemente di una sintesi di casi, non certo di uno studio quantitativo, ma questi casi ci permettono sia di approfondire i molti studi (a partire da quelli dei contemporanei) sui bilanci famigliari e sulla allocazione delle modeste e mai costanti risorse, sia di ritrarre una difesa della dignità e della continuità famigliare di ceti e persone che secondo i membri della camera alta erano semplicemente candidati al carcere se non gibiers de potence. Ha tutto questo a che fare con la definizione di «classe operaia» per questi uomini e donne di cui le fonti ci permettono di seguire ogni aspetto della vita? Salari, conflitti sulla tariffa, modi per contrastare la precarietà, modeste illegalità come la caccia e la pesca di frodo per gli uomini, il furto e talvolta la prostituzione occasionale per le giovani donne che spesso (soprattutto le prime due) troviamo come «precedenti» soprattutto per l’insurrezione che investì non Parigi ma la provincia contro il colpo di Stato di Louis Napoléon. Un sintomo significativo di questa aspirazione all’accesso a una forma «alternativa» di legalità è la lunga vicenda della rivendicazione della partecipazione all’istituto dei prud’hommes su cui torneremo fra poco.

Se si consulta l’indice dei nomi del volume, che brulica di uomini e donne che talvolta non hanno trovato spazio nemmeno nel dizionario biografico noto ormai come Maitron-en ligne e si sono affacciati alla storia per scomparire rapidamente nell’anonimato ma anche nella deportazione o nell’emigrazione, il lettore non trova nessuna citazione di un autore a cui pure il percorso della narrazione rimanda implicitamente, il Lenin dello Sviluppo del capitalismo in Russia. Un testo storicamente molto successivo che analizza il processo di estensione complessiva del comando capitalistico sull’intero sistema produttivo nonostante lo sviluppo di isole a «pelle di leopardo» di grandi imprese razionalizzate. Non è qui la sede per riprendere le discussioni sulla datazione del decollo economico dei vari paesi, una discussione che ha coinvolto l’Italia fra gli anni Settanta e gli anni Ottanta del Novecento e che ha visto anche la intensa partecipazione di Stefano Merli. Nella Francia degli anni fino al Secondo Impero il decollo della modernità capitalistica riguarda soprattutto i grandi investimenti finanziari nelle infrastrutture e le grandi imprese (tessili e minerarie) si sviluppano ancora ben lontano da Parigi. Tuttavia rileggendomi dopo tanti anni direi che le osservazioni di quel testo possono fornire una specie di quadro interpretativo. Da un punto di vista teorico – non sociologico – gli operai francesi della prima metà del Diciannovesimo secolo operano in un mercato degli investimenti e delle merci già subordinato agli interessi capitalistici. Insomma rappresentano il tramonto del popolo degli artigiani o l’alba del movimento operaio?

Anche in questo senso ridurre a dimensione linguistico-culturale la permanenza o l’emersione di comportamenti conflittuali «di classe» rappresenta una forzatura. Condivido pienamente con Paolo Favilli [7] la sua osservazione sul mio lavoro che infatti riferisco facendola mia: «[…] molti lavori ispirati metodologicamente al linguistic turn sono stati capaci di mettere in luce tutta la scala cromatica della polisemia testuale. Quando però hanno inserito la raffinata tecnica di lettura in una concezione di teoria della storia che programmaticamente rifiuta nessi economici, nessi sociali, nessi storici insomma, le raffinate letture risultano del tutto decontestualizzate e i risultati conoscitivi del tutto episodici. Meriggi analizza testi attraverso i quali si configurano percorsi di emersione da mondi popolari verso aggregazioni sociali maggiormente definite. [senza alcun finalismo] i percorsi si sono davvero verificati e i momenti unificanti sono derivati da esigenze affatto interne». Insomma il lavoro è ispirato a una filosofia della storia implicita continuamente verificata nel brulichio dei comportamenti.

I capitoli successivi ripercorrono lo sguardo dall’alto e dal basso su queste trasformazioni e gli scioperi – illegali e anche per questo pienamente documentati – in tutto il paese narrati fedelmente dai redattori operai del giornale l’«Atelier». Danno anche conto di originali interpretazioni come quella di Laurent Clavier che addirittura a proposito del Manifeste des 60 (1864) sulle candidature operaie avanza una analogia fra territorio e spazio sociale operaio: in quegli anni il Secondo Impero dopo tante incertezze cooperava alla liberazione nazionale dell’Italia e con la nuova legislazione consentiva un nuovo spazio legale all’associazionismo. Non faccio mie queste suggestioni che però fanno parte dell’ampio spettro di letture di quegli anni di formazione.

Tuttavia se rivendico tuttora le linee di lettura che si possono riassumere nel 1848 come «aurora» di una lunga stagione, dal volume emerge anche un’altra linea di tendenza, del resto verificata dalle vicende storiche e non solo storiografiche. Cioè che istituti (salariali, giuridici, normativi) possono essere ritrovati al centro di lotte dai contenuti e dall’impatto conflittuale non previsto dalla loro iniziale istituzione. È il caso degli stessi Ateliers Nationaux di cui ricordo qui la felicissima definizione che ne diede il giornalista sansimoniano Émile Barrault: dal primo al 24 giugno 1848 aveva […] pubblicato un giornale a un foglio, «Le tocsin des travailleurs». In una rielaborazione, adattata al momento, della successione di epoche organiche ed epoche critiche, suggeriva che al feudalesimo della grande industria sarebbe seguito il periodo costituzionale, più progredito, dell’associazione, offrendo il suo «saluto all’associazione in tutte le sue forme e a tutti i livelli [degrès]». Gli Ateliers Nationaux erano sorti per sostituire gli impieghi interrotti dalla rivoluzione. Ma «questa popolazione non volle considerarsi come un insieme caotico [un pêle mêle] tenuto insieme occasionalmente dalla disoccupazione nell’industria privata e che la ripresa degli affari avrebbe disperso richiamando gli operai ai loro precedenti lavori. Lo spirito di corpo nacque ben presto fra tutti quegli elementi che in precedenza non si conoscevano o erano ostili gli uni agli altri. La comunità della miseria, l’entusiasmo della rivoluzione» li avevano uniti ma aveva completato l’opera «la passione di servire lo Stato piuttosto che i loro padroni [patrons]. La bandiera nazionale, sotto la quale si erano arruolati, parve loro più nobile dell’insegna di un negozio o della ragione commerciale di questa o quella impresa. Per sfuggire ai padroni si diedero fiduciosamente [de coeur] alla Repubblica, al cui soldo aspiravano e di cui accettavano la disciplina. […] Gli Ateliers Nationaux divennero il primo nucleo del grande esercito industriale dello Stato […] L’intervento dello Stato nell’industria è la fede [croyance] di questi operai; è evidente che dovevano sentirsi oltraggiati da tutti i fautori della libera concorrenza, da tutti i nemici retrogradi del ruolo del governo nel campo della produzione, da tutti i fanatici della predominanza dei capitali e del dispotismo degli strumenti di lavoro. Questa milizia laboriosa che dipendeva solo dallo Stato provoca la costernazione dei conservatori che, in coscienza, si credono obbligati a perpetuare il regime dello sfruttamento dell’uomo da parte dell’uomo. Gli Ateliers Nationaux sono per i lavoratori una specie di accampamento di rifugio dove sfuggono all’arbitrio [le bon plaisir] dei proprietari i quali chiedono con ostinazione che quell’adunata di sedizioni venga dispersa»[8].

Un altro istituto citato nel volume e su cui mi preparo a organizzare una ricerca – di origine tradizionale eppure investito di contenuti innovativi e conflittuali – fu in questo stesso periodo quello dei prud’hommes, introdotto anche in Italia, senza incontrare la stessa fortuna, in età giolittiana. I conseils de prud’hommes risalgono a una legge promossa da Napoleone I nel 1806 a partire da Lyon ricuperando un ufficio di conciliazione fra i maîtres della seta in funzione già nel Diciottesimo secolo. La nuova istituzione comportava 5 négociants-fabricants «contro» 4 chefs d’atelier con una evidente disparità di funzioni e ruoli. I conseils si estesero ad altre città tessili ma sempre con un seggio in più per gli imprenditori rispetto ai contremaîtres et ouvriers patentés mentre i semplici operai salariati non erano ammessi. Nel corso del Diciannovesimo secolo i conseils de prud’hommes si estesero a molte città e ad altri settori produttivi e diffusero la pratica della conciliazione preventiva in moltissimi casi: quello di Parigi fu creato fra il 1844 e il 1847. Ma ciò che merita un interesse nel senso che qui discutiamo è l’investimento che il movimento operaio fece in questo istituto tradizionale. Nel 1848 gli operai semplici divennero eletti ed elettori e iniziò una lunga discussione per ottenere la parità non solo nei seggi ma nella elezione del presidente e del vicepresidente. Molte trasformazioni vennero introdotte in seguito in particolare trasferendo l’istanza di riferimento dai tribunali di commercio a quelli civili e aprendo alle donne fra il 1907 e il 1908, decenni prima del loro accesso al voto. Ho svolto una ricerca delle ricorrenze del termine nei tre volumi del Maitron che includono i militanti dal 1789 al 1914 e un numero inatteso di militanti e dirigenti impegnati in conflitti economici e politici hanno aspirato e raggiunto tale carica. Fino alla recentissime «controriforme» varate durante la prima presidenza Macron in un paese, la Francia, in cui il sindacalismo di massa è stato raggiunto solo in brevi periodi principalmente nel primo dopoguerra e col Fronte popolare il peso di ogni sindacato – e la predominanza della Cgt – sono stati a lungo misurati in base al successo alle elezioni dei prud’hommes. Una ricerca ancora aperta (con fonti disperse ma molto ricche) che segnala ancora una volta l’uso conflittuale che i movimenti possono e sanno fare di forme istituzionali e di sociabilità tradizionali.

Il volume fu accolto da recensioni che segnalavano – come una felice riscoperta – la «inattualità» del volume, un po’ come qualche anno prima Stefano Musso [9] non senza autoironia ma in fondo cogliendo nel segno affermava che tale inattualità ci metteva al riparo dall’uso pubblico della storia. Coloro che hanno discusso quel volume sono stati sempre interlocutori importanti [10] del mio lavoro anche successivo, che è anche il segno della continuità di un metodo e di una serie di domande poste alle fonti, attraverso lo spostamento di epoche e di scenari.

In una situazione in cui la composizione di classe di un soggetto antagonista ha a che fare con una estrema pluralità di regimi contrattuali e condizioni sociali e in cui la parola «partito» dovrebbe tornare probabilmente al significato di «assunzione di un punto di vista di parte», ricerche e domande come quelle che abbiamo qui percorso assumono forse una inedita attualità.



Note [1] FrancoAngeli, Milano 2002. La pubblicazione avvenne nella collana diretta da Marino Berengo e Franco della Peruta che lesse attentamente il testo dopo avere incoraggiato, non pochi anni prima, la mia ricerca sul Partito operaio italiano, cioè sulla prima e fondamentale esperienza di «labourismo conflittuale» dell’Italia del XXIX secolo. [2] L’invenzione, cit., p. 7. [3] Forme di sociabilità nelle società tradizionali e nella modernità. Note sulle origini dei partiti politici fra XVIII e XIX secolo a partire dall’esempio francese, Baroni, Viareggio 1997. [4] Tocqueville e la Rivoluzione, in Rivoluzioni. Una discussione di fine Novecento, Atti del convegno Sissco, Napoli, 20-21 novembre 1998, Roma, Ministero per i beni e le attività culturali 2001. [5] L’invenzione, cit., p. 132. [6] L’invenzione, cit., pp. 142-146. [7] È ancora possibile scrivere storia del movimento operaio?, «Società e storia», n. 116, 2007, pp. 372-373. In proposito basti qui rievocare un libro affascinante diventato ormai classico, J. Rancière, La nuit des prolétaires. Archives du rêve ouvrier, Fayard, Paris 1981, più volte ristampato, che ci offre uno sguardo allora del tutto inedito sulla interpretazione da parte di operai e artigiani del sansimonismo fino allora studiato innanzitutto come una anticipazione tecnocratico-produttiva dello sviluppo economico. [8] «Le tocsin des travailleurs», 20 giugno 1848, cit. in L’invenzione, cit., pp. 11-12. [9] Introduzione, in Tra fabbrica e società. Mondi operai nell’Italia del Novecento, Annali, Anno trentatreesimo, Feltrinelli, Milano 1997. [10] Cito riassuntivamente David Bidussa, in Il mestiere di storico, Annale IV/2003, p. 481; Luigi Cortesi, Il Ponte, anno LIX, n 9, settembre 2003, pp. 124-129; François Guedj, in «Histoire&Sociétés», n. 14, 2005, pp. 138-140; Andrea Panaccione, in «Giano», n. 43, 2003, pp. 148-150. Cito anche la segnalazione anonima della «International review of social history», vol. 49, part 1. (2004). Come già indicato Paolo Favilli colse in qualche modo l’occasione del mio volume per mettere a fuoco un punto di vista allora particolarmente controverso. Il testo di Andrea Panaccione mettendo in cortocircuito le analisi teoriche (Marx) e le ricerche classiche di storia sociale (Chevalier [Louis Chevalier, Classes laborieuses et classes dangereuses à Paris pendant la première moitié du XIXème siècle, Plon, Paris 1958 ]) mette in luce con particolare finezza il carattere composito dell’aggregato sociale studiato e a sua volta sottolinea che l’emergere da esso di una soggettività che sconvolge «le potenze della vecchia Europa» è una costruzione, tuttavia impensabile fuori dalle trasformazioni strutturali in corso.



Foto: Roberto Gelini

* * *


Maria Grazia Meriggi, attiva negli organismi di base del movimento operaio, è storica dei movimenti sociali e delle culture politiche dei mondi del lavoro in Europa nei secoli Diciannovesimo e Ventesimo. I suoi lavori più recenti: Entre fraternité et xénophobie. Les mondes ouvriers parisiens dans l’entre-deux-guerres et les problèmes de la guerre et de la paix (éditions Arbre bleu, Nancy 2018) e ricerche in corso di pubblicazione in Italia e in Francia sulla Cgtu, la main-d’oeuvre étrangère e in generale in sindacalismo in Francia negli anni fra le due guerre.

Comments


bottom of page