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L'incontro con lo sguardo dell'altro

Camogli 2 dicembre 2020


Corrado Levi, Distorto organizzato


«Son venuto da Como per niente», diceva il prete Liprando di Jannacci. Io sono venuta da Milano per niente, non ho visto niente, anche a Camogli non vedo niente. Intanto le opere corrono in rete.

Una frequenza imprevista? Può darsi. Diventeranno tutti famosi? Forse sì, forse no. «L’arte siamo noi» viventi, uomini, donne? Tutte domande legittime. Che l’informazione sia più ampia possibile è un bene, ma io penso che un’opera, un romanzo, pretende una lettura diretta: è qui che scopre l’emozione creatrice anche chi non scrive, non dipinge. Faccio fatica a provarla a «distanza», pur in riproduzioni bellissime.

Se, nel 1987, non fossi stata agli Uffizi, davanti alla Venere di Tiziano, non mi sarei accorta che i suoi occhi mi facevano voltare indietro come se guardasse qualcuno alle mie spalle. Avrei visto un’iconografia della bellezza e dell’amore che ha fatto scuola, e non l’imprendibile incontro con l’altra. Non incrociando lo sguardo con me, capisco che prima di tutto non lo fa con Tiziano mentre la dipinge, quindi con tutti e tutte quelle che la guarderanno negli occhi. Anche questo un topos dell’amore. Tiziano era consapevole? Forse sì, ma doveva mascherarlo nell’icona della dea. Neppure un genio come lui poteva attribuirlo a uomini e donne reali. Negli altri ritratti degli Uffizi, infatti, non c'è questo sguardo, ma la particolare concentrazione di chi fissa qualcosa senza mettere a fuoco. Venere invece sa chi o cosa guardare. Lo sa solo lei?

Oggi come riconosciamo lo sguardo dell'altro? Clarice Lispector dice, si è «sorpresi da una luce proveniente dal nulla», «dall’ideale vero di un percorso, di una nascita» (Lispector, La passione secondo G.H, Feltrinelli, 1989 p. 121). Non è il nulla originario, ma quello che hanno già visto Lispector e Tiziano.

Fino a quando il neutro maschile è stato il soggetto più vicino alla «procreazione» divina, non aveva senso rappresentare gli sguardi dell'uno o dell'altra, anzi la neutralità garantiva la scelta di Dio nella nascita di tutti e due.

Tiziano, però, sa che la sorpresa di questa luce impedisce di azzerarsi l'uno nell'altra. Vede quello sguardo e decide di farne il suo segreto.

Forse me lo sono inventato, perché mi sono allenata a cercarlo nell’arte contemporanea. Non avendo un'iconografia da seguire, tento di avvicinarmi al centro della vita che immagini e parole trasmettono. Lo faceva Tiziano, lo fanno le artiste, gli artisti di oggi, anche se non tutti.


Corrado Levi


Questa è la soglia per entrare nell’arte. Agli Uffizi l’ho vista anche nell'autoritratto di Raffaello. Guarda se stesso, fa venire in mente quando riusciamo a tenere fermi gli occhi davanti allo specchio. Succede anche con chi ci sta di fronte. È un attimo, non riguarda la fisionomia ma - Raffaello docet - il lampo che porta il nostro autoritratto dentro lo sguardo dell'altro. Qualche volta imbarazza, perché allude a un centro della vita sconosciuto. Quando lo vedo, però, diventa mio. Nel momento in cui l'arte contemporanea ha abbandonato «l'odiata superficie delle cose reali» (Malevic), abbiamo figure che non combaciano con quello che vediamo, ma con quello che suscitano dentro di noi. Raffaello lo sapeva e oggi è per me un esempio dello sguardo dell'altro che tutti e tutte hanno in sé. Perché diventi «l’ideale di un percorso» è essenziale che le donne mostrino a tutto tondo il loro sguardo. Oggi possiamo capire gli uomini senza eclissarci nella loro differenza. È così che ho imparato a prendermi Tiziano e Raffaello come compagni di sguardo.

È così che ho letto il libro di Corrado Levi, Novità in casa (virus), Corraini editore, 2020. Il suo diario del Covid dal 17 aprile al 29 maggio 2020: una pagina scritta e una disegnata, dove racconta il «tempo segregato, quando lo spazio e il silenzio ovattato si mangiava tutto». Le parole migrano nei titoli delle figure, in un ritmo «distonico», «baluginante» a «singhiozzo». Raccontano la sua intimità, nell’esercizio di ascoltare la musica, di suonare il violoncello, di una rovinosa caduta, di rare telefonate. C’è la sua maestria di sintesi, un po’ poetica e un po’ spontanea, appunto a singhiozzo. Quello che, però, mi fa sobbalzare è lo sguardo che scambio coi suoi disegni. Riconosco la mano di Corrado e un’inedita variante descrittiva. È facile appropriarsi di queste linee colorate, aggrovigliate, verticali, puntiformi e captare i sussulti che si provano in casa davanti a piccole prospettive, oggetti noti, disordini. Mi ricordano il gioco degli specchietti del «fare la vecchia»: a volte le macchine rispecchiano la luce sui vetri delle finestre e allora sul soffitto delle stanze appaiono ombre geometriche in movimento. In modo analogo, ho intravisto tra i suoi disegni, volti, pianure, cascate, in una X, densa di segni che occupa tutto il foglio, mi è venuto in mente l’uomo di Leonardo. Poi sparisce tutto nell’insieme dei colori e delle linee, come appunto nel gioco di specchi.

La prova del nove rispetto a ciò che succede tra opera e riproduzione è che tutto questo l’ho visto davanti alla pagina reale di Corrado, ma ho fatto fatica a ritrovarlo nelle fotografie che guardo mentre scrivo. È una mia incapacità o dipende dalle emozioni che non si ripetono mai nello stesso modo? Sia quando guardiamo un’opera, sia quando leggiamo un testo. Oggi tutto è riproducibile, tutto è disponibile, aiuta la memoria, ma intercetta quella luce che dal nulla ci porta al centro della vita?

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