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L’incendio rivoluzionario contro la carbonizzazione del pianeta

(la seconda onda mondiale delle sollevazioni e ciò che essa combatte)

Maurizio Cannavacciuolo, Tre guerrieri, 2000, olio su tela, 200x350 cm



La grandine e il fuoco mescolati col

sangue furono gettati sulla terra;

e un terzo della terra fu bruciata, e un

terzo degli alberi furono bruciati, e tutta l’erba verde fu bruciata.

Apocalisse 8-7

On est là, on est là

Pour l’honneur des travailleurs et pour un monde meilleur,

On est là

Canto dei gilets jaunes


Crisi della governance

Nel 2001, dopo il G8 di Genova un testo di analisi di quelle giornate evocava l’enorme manifestazione del 21 luglio, in cui persone di ogni età, spesso con l’intera famiglia, venute da ogni parte d’Italia, gridavano la loro indignazione dopo l’assassinio di Carlo Giuliani. Eravamo stati colpiti dal comportamento delle forze dell’ordine, che allora apparve come una vera novità: «Tagliare in due una manifestazione pacifica di trecentomila persone, accanirsi con lacrimogeni contro i manifestanti che stano rifluendo in disordine nelle stradine è una pratica piuttosto imprevista, caratteristica forse di una dittatura in crisi. Quando ho visto i poliziotti far questo ho avuto paura più di quanto mi fosse capitato il giorno precedente, quando lo scontro era più duro e più diretto: si aveva la sensazione che fossero capaci di tutto. In effetti fecero di tutto».

Attaccare senza motivo e con estrema brutalità una manifestazione in cui sono presenti persone di ogni età, comprese famiglie con bambini, è una pratica che mi apparve in quel momento esorbitante e carica di pericoli autoritari, ma quella stessa pratica si è poi trasformata nel trattamento normale delle manifestazioni in Francia, che si tratti di gilets jaunes, o quelle che si sono opposte alla controriforma delle pensioni. Fondandosi su paragoni storici alcuni autori che criticano il discorso securitario dicono che nelle società contemporanee la violenza non è aumentata. Al contrario, secondo loro la violenza si è ridotta. Ma vi è evidentemente un settore che intende sfuggire a questa tendenza. Se c’è una forma di violenza in aumento nelle società contemporanee è quella che colpisce le contestazioni e le proteste popolari. In Francia la polizia ha provocato il ferimento grave di un numero di persone superiore a quello degli ultimi vent’anni. In Iraq, Haiti, Cile gli oppositori debbono fare i conti con gli squadroni della morte. A Hong Kong i rapimenti e le sparizioni forzate si alternano con le deportazioni in Cina continentale. In Iran la rivolta di novembre 2019 è stata schiacciata con un massacro.

Questo aumento del livello di repressione tradisce l’inquietudine dei governanti e le loro difficoltà a trovare strategie diverse da quelle repressive per fare i conti con la crescente ingovernabilità delle popolazioni. In particolare la politica della paura, che dovrebbe ricreare un’unità nazionale contro uno o più nemici in larga parte inventati, non riesce più a imporsi. Ad esempio nelle manifestazioni fiume dopo l’attentato contro Charlie Hebdo, abbiamo avuto la spettacolare messa in scena di un grande amore del popolo per la «sua» polizia, con gente che offriva fiori ai poliziotti, o che applaudiva i tiratori scelti, fino al punto che il pessimo cantante Renaudm che si fa passare per un contestatore, ha scritto una canzone intitolata Ho abbraccio un poliziotto. Ma a partire dal 2016 e dalle manifestazioni contro la legge sul lavoro, si è cominciato a gridare il famoso slogan «tout le monde deteste la police». E con la repressione che si è abbattuta sui gilets jaunes e contro gli scioperanti ogni settimana decine di migliaia di persone riprendono quel grido.

L’«Etat d’urgence», instaurato dopo gli attentati del 13 novembre 2015 al Bataclan, comportava il divieto delle manifestazioni. Ma ciò non ha impedito che si svolgesse una manifestazione solo nove giorni dopo. Convocata per sostenere i migranti era stata vietata ma si è svolta comunque, trasformandosi soprattutto in una manifestazione contro lo stesso «Etat d’urgence». Una dozzina di intellettuali lanciarono allora un appello pubblico per sfidare quel provvedimento che aveva la funzione di ostacolare coloro che volevano manifestare contro Cop21 che si teneva a Parigi in quel periodo. Attaccato violentemente dalla polizia a Place de la Repubblique il raduno di migliaia di persone dimostrò che la politica della paura non poteva soffocare la collera sociale, e ciò fu di nuovo dimostrato l’anno successivo con le manifestazioni contro la «loi travail» e con il movimento Nuits Debout.

Lo stato di emergenza non è mai stato cancellato, ma è piuttosto entrato a far parte della legge ordinaria. Le sue principali disposizioni sono state così ben osservate che i poliziotti hanno potuto continuare a operare dei blitz notturni al di fuori di ogni controllo giudiziario con abbattimento di porte, saccheggio degli appartamenti, con gli abitanti ammanettati e placcati al suolo da poliziotti mascherati e super armati. Questo regresso delle garanzie legali non ha impedito il movimento dei gilets jaunes né quello, cominciato nel 2019, che si sta ancora sviluppando in molti settori.

Il regresso delle garanzie giuridiche si aggiunge all’aumento delle violenze poliziesche, a un accanimento giudiziario contro i contestatori, e mette in luce il solco che si allarga tra due mondi, quello delle istituzioni e dei media dominanti e quello della vita quotidiana e delle passioni di vasti settori della popolazione francese. Lo scacco della politica della paura è lo scacco delle unioni sacre nazionaliste.

L’assassinio del macellaio Soleimani da parte del macellaio Trump poteva far pensare che ancora una volta, come è stato nel caso della Siria, la guerra potesse divorare la rivoluzione. Dopo centinaia di persone uccise dalla repressione delle proteste di novembre, e dopo i funerali del capo dei Guardiani della rivoluzione seguiti da un milione di persone (una cifra che in fondo non è molto significativa in un paese di 82 milioni di abitanti, in cui le capacità di mobilitazione anche forzata delle milizie del regime sono immense) si poteva temere che l’unione sacra anti-americana avrebbe soffocato la ribellione di larghe parti della popolazione che cova da due decenni. Ma l’abbattimento involontario di un aereo di linea che portava le speranze di molte famiglie borghesi di cittadini americani di origine iraniana ha mostrato l’incuria del regime e ha generato delle manifestazioni che hanno debordato dal mondo studentesco. Si poteva temere inoltre che lo scontro sul territorio iracheno delle potenze americana e iraniana potesse rilanciare gli scontri inter-confessionali, ma le manifestazioni irachene hanno invece mobilitato insieme sciiti e sunniti nel rifiuto di ogni ingerenza. Senza ricorrere ad alcuna teoria del complotto si è comunque tentati di vedere dietro queste gesticolazioni, e dietro il gioco tradizionale delle potenze che si scontrano ma evitano la guerra, un tentativo di mettere al passo le popolazioni, una maniera di ricondurre i popoli della zona (Iran, Iraq, Libano) entro logiche confessionali che le potenze statali sanno controllare. Ma come abbiamo visto finora non è certo che questo meccanismo funzioni.

L’ora delle sollevazioni mondializzate

Alla prima ondata di sollevazioni cominciata con le insurrezioni arabe e mai veramente concluse, succede ormai una nuova onda caratterizzata da un approfondimento della circolazione delle modalità della rivolta. Se Tahrir ha esteso la sua influenza in tutto il pianeta, dalla Puerta de Sol a Gezi Park fino alle Nuits Debout in Francia, questo consisteva solo nell’occupazione delle piazze. Ma eccoci ora entrati nell’era delle sollevazioni mondiali. Da una parte dall’altra del piegata, gilets jaunes e laser, application e slogan, tecniche di saccheggio e modalità di invasione pacifica, la grammatica della rivolta è sempre più condivisa. Da Algeri a Santiago, da Bagdad a Hong Kong, da Quito a Khartoum, da Conakry a Beirut milioni di persone si sono messe in movimento, centinaia di persone sono morte, ma sono tornate in grande quantità a sfidare di nuovo il gas e le pallottole. Una parola d’ordine multilingue è apparsa, sulla facciata di un grattacielo cileno, o scritta su un muro di Hong Kong: «Non torneremo alla normalità perché la normalità è il problema». Oggi la normalità è l’implacabile tentativo di sottomettere la società alle norme pinochettiane-thatcheriane, mentre il pianeta brucia, l’acqua sta finendo, i mari crescono di livello e si svuotano di vita, l’aria diviene sempre più irrespirabile da Sydney a San Paulo a Mexico a Pechino a Delhi. Gli storici del futuro ricorderanno che gli anni Venti del XXI secolo furono quelli in cui una seconda onda di sollevazioni multiformi fu unificata da un nemico comune: una normalità irrespirabile.

Non vogliamo mettere sullo stesso piano l’immolazione di Mohamed Bouazizi a Sidi Bouzid e le discussioni bizantine sulla redazione di una nuova costituzione a piazza della Repubblica, il gesto eroico della resistenza siriana laica e comunista annientata dalle bombe e dalle torture e il movimento Occupy americano, con il suo strano rituale di ripetizione in cerchi concentrici dei discorsi degli oratori privi di microfono. Ma solo delle spesse lenti ideologiche potrebbero impedirci di vedere le somiglianze impressionanti: ad esempio la nascita del movimento dei gilets jaunes contro l’imposizione di una tassa sul carburante e la decisione iraniana di interrompere una sovvenzione statale per l’acquisto di benzina. In un mondo che ci ha reso dipendenti dal consumo di energie fossili, la loro cattiva amministrazione può avere gli stessi effetti che un tempo poteva avere l’aumento del prezzo del pane: occorrerebbe essere del tutto ciechi per non notare le somiglianze tra le tematiche anticorruzione in Montenegro (2012), a Giacarta e Algeri (2019), passando per Sarajevo, Bucarest e Manikeng (2018).

Come non vedere inoltre la somiglianza dei processi che portano molti di questi movimenti a rifiutare di fermarsi, e anzi a estendersi quando la rivendicazione di partenza è stata più o meno soddisfatta? Ad esempio il movimento dei gilets jaunes, passato dal rifiuto di una tassa alla richiesta di dimissioni per Macron, o il movimento di Hong Kong, passato dall’abrogazione della legge di estradizione al rifiuto puro e semplice del potere di Pechino. Ma la somiglianza principale che si può trovare è la maniera in cui questi movimenti appaiono e si perpetuano nonostante la repressione. La loro spontaneità e la loro inventiva va insieme alla loro distanza dalla democrazia istituzionale (quando esiste) come dalle organizzazioni che dovrebbero prendere in carico le rivendicazioni dei cittadini. Anche quando i sindacati sono in parte all’origine della mobilitazione, come in Bosnia o in Ecuador, o in Francia durante le manifestazioni contro la «loi travail», si deve constatare una dinamica di autonomia e di autorganizzazione, più o meno compiuta, che ha più o meno il tempo di perfezionarsi. Al tempo stesso il repertorio delle azioni è quasi sempre lo stesso: occupazione effimera di strade, accompagnata talvolta dall’occupazione più durevole di piazze, scontro con la polizia fino alla sommossa.

La creazione di un’altra temporalità, diversa da quella dell’economia e dello Stato, è il punto comune di tutti questi movimenti. La loro capacità a persistere per lunghi periodi grazie a incontri regolari fissati spontaneamente, il venerdì o il sabato, è uno degli aspetti che ci costringono a riconoscere il coraggio dimostrato a fronte delle violenze del potere. Contrariamente alle mobilitazioni sindacali che hanno l’effetto di smobilitare, gli appuntamenti regolari permettono di affermare e rafforzare di volta in volta la potenza del movimento. Il semplice fatto che migliaia di persone continuino ogni settimana a ritrovarsi obbligando il potere a gasare il centro delle città, questa semplice insistenza fa sentire a tutti che nulla è regolare. L’ostinazione rallenta il tempo. E d’altra parte, il fatto che si tratti dell’esplosione di una collera troppo a lungo contenuta, o che si tratti di reazione alla ferocia della repressione, la sommossa accelera. La riuscita dei gilets jaunes consiste nell’aver saputo alternare accelerazioni e rallentamenti, usando la capacità di intimidazione della sommossa per ottenere delle concessioni, e ciò gli ha dato la forza per durare a lungo.

Spesso la creazione e la difesa di spazi di deliberazione permette al movimento di imporre il suo ritmo. Ma c’è il pericolo di un esaurimento quando la creazione di condizione di autonomia di parola diviene la sua attività principale. Le Nuits Debout offrono un esempio caricaturale di questa ipertrofia del dibattito, con interminabili discussioni sulla procedura e con un formalismo democratico tanto più accentuato in quanto non si fa altro che discutere. Esempi riusciti di un equilibrio tra azioni e discussioni sono da cercare a Hong Kong e a piazza Tahrir.

L’Impero non è una costruzione politica piramidale come potevano essere gli imperi antichi, ma è un intreccio di reti di potenza che non esercitano tutte la loro funzione allo stesso livello o alla stessa maniera. Ne deriva che ciò contro cui si scontrano i ribelli è infinitamente più complesso di un potere statale o dell’imperialismo del passato. I padroni del CAC40 che hanno telefonato a Macron per lamentarsi del saccheggio dei loro bei quartieri residenziali, e che hanno chiesto di usare le maniere forti contro i gilets jaunes, fanno parte di questa iper-borghesia mondiale le cui attività non ignorano le frontiere, che usano solo per il loro profitto. L’accanimento nell’accecare gli occhi, bruciare i polmoni, rompere e imprigionare i corpi che i gilets jaunes hanno dovuto subire quando gli istinti fascistoidi dei poliziotti sono stati liberati, deriva non solo dalla personalità psicorigida del presidente, ma soprattutto dal carattere imperativo della missione di cui la classe planetaria lo ha incaricato: portare a compimento la messa a norma neoliberista della Francia. Dopo aver fatto nascere Macron dal nulla, cioè dal vivaio di innumerevoli nullità formattate dalle scuole di commercio, l’iper-borghesia mondializzata potrebbe ben rispedirlo nel nulla, con qualche operazione mediatico-giudiziaria miracolosa come quella che l’ha portato alla ribalta. La coscienza di questa fragilità spiega senza dubbio gli aspetti barocchi del personaggio, la sua estrema arroganza, e la stessa coscienza è all’origine dei comportamenti erratici di Trump o di Bolsonaro.

Per tutti e tutte coloro che si ribellano contro il fatto che denaro e potere hanno un po’ troppo la tendenza a ruzzolare verso l’alto c’è una difficoltà: identificare, al di là della figura di un leader più o meno folcloristico, il nemico ultimo. Così la comune di Quito, prendendo come bersaglio il presidente e il parlamento, si è fermata per eseguire in maniera zelante una politica mondiale decisa altrove: Moreno ha fatto delle concessioni ma il corso neoliberale che egli incarna non si fermerà fin quando la sua opposizione non sarà senza frontiere, come il neoliberalismo.

Contro il nemico unico la moltitudine dei mondi

L’internazionalismo si fondava su un doppio ancoraggio: la condizione operaia e gli Stati-nazione. Oggi l’evoluzione del lavoro rende sempre meno sostenibile l’idea (che comunque è sempre stata falsa) secondo la quale esisterebbe un solo gruppo sociale che per la sua posizione sarebbe in grado di rovesciare il capitalismo, in un momento storico in cui gli Stati non rappresentano più che un livello tra gli altri della rete delle grandi potenze, la volontà di dare portata universale alle innumerevoli manifestazioni che provocano la crisi mondiale della governance non può avere la forma di una Internazionale. Tentare di organizzare da subito un coordinamento delle rivolte non condurrebbe a nulla se non a una caricatura neo-leninista, una micro-burocrazia senza presa sul reale, una Ong in più. In questi ultimi anni abbiamo constatato la difficoltà di far convergere sul territorio nazionale delle lotte che hanno i loro diversi obiettivi: la libertà di circolare per i sans-papiers e la fine delle violenze poliziesche nei quartieri popolari; la battaglia contro il riscaldamento climatico e quella contro il nucleare; la lotta contro l’inquinamento di una fabbrica o contro la chiusura di un’altra (o magari della stessa); l’opposizione ai grandi progetti inutili e imposti. Ripetere a livello mondiale il mantra della convergenza delle lotte significherebbe solo mondializzare la sconfitta.

Come non gioire nel vedere dei manifestanti che si mettono un gilet giallo in Belgio come in Iraq, o di veder apparire degli ombrelli nelle manifestazioni del sabato a Parigi e sentire un intervento in nome del movimento di Hong Kong durante un’azione di Extinction Rebellion? È ottimo che i movimenti di opposizione in giro per il mondo si mandino dei segnali di complicità, e si può auspicare che questi si colleghino sempre di più, che cerchino alleanze tra loro e con tutto ciò che si oppone all’impero. «Fin du monde» e «fin du mors»: il collegamento dei due temi segnala la nascita di una coscienza collettiva che al di là dei governi e delle potenze imperiali sappia indirizzarsi contro il nemico ultimo, lo sviluppo capitalistico.

È possibile una pratica comune contro il nemico ultimo? Cosa c’è di comune tra l’immaginario e la vita quotidiana dei ribelli di Hong Kong, che nella maggioranza nutrono delle illusioni sulle virtù della democrazia capitalistica, e dei papous che riconoscono i danni che essa infligge al loro territorio, ai loro legami comunitari e alla loro cultura? Il mondo di un disoccupato iracheno è molto diverso da quello di un nero americano che rivendica il valore della sua vita, e non è prossimo neppure a quello di un algerino che si dichiara stanco della cleptocrazia. Mi sembra che per il momento la principale pratica possibile sia quella dello scambio del contatto tra mondi.

D’accordo, abbiamo un nemico comune. Ma questo dato generale sarà tanto più forte se sarà vissuto in mille modi differenti, a seconda dei luoghi e dei momenti. Prima di cercare a tutti i costi un discorso unificatore mi sembra che il primo compito sia quello di approfondire le singolarità, comprese quelle che non sono proprio compatibili tra loro. Che ciascuno fin d’ora, là dove si trova, prenda partito in quella che si presenta come la questione decisiva di questo inizio di millennio, quella che oppone le nostre utopie a un ordine capitalistico che vuole gestire fino alla fine la catastrofe che ha prodotto. Più saremo singolari più i nostri incontri saranno ricchi, e più avrà senso l’elaborazione collettiva delle strategie utili per realizzare quel che è ormai il progetto rivoluzionario del nostro tempo: rendere il mondo respirabile.

Quel che dà forza al movimento attuale è la sua «giletjaunisation». La base sindacale che è il cuore del movimento, e che ha impedito ai sindacati di chiuderlo in un rituale di manifestazioni mensili, trae la sua combattività attuale dalla sconfitta delle precedenti mobilitazioni e dall’esempio dei gilets jaunes. Una parte della base sindacale ha partecipato all’esperienza dei gilets. Molti sindacalisti che si trovavano nelle «rotonde» hanno constatato il coraggio e la perseveranza del movimento, e il fatto che è riuscito a mettere in crisi il potere macronista. Oggi, nelle manifestazioni, perfino sotto le bandiere dei sindacati non si canta più l’Internazionale, ma i canti che i gilets jaunes hanno creato partendo da canzoni dei tifosi di calcio. Questo ruolo dei club di tifosi lo si ritrova d’altra parte in Egitto, in Algeria, ovunque, perché la tifoseria calcistica è stata l’ultimo rifugio della creatività popolare non addomesticata. Il più noto di questi canti ha un ritornello che dice: «On est là, meme si Marcon ne le veut pas», ed esprime la coscienza del fatto che la semplice affermazione di presenza è in sé sovversiva. Siamo qui dove non dovremmo essere, siamo qui dove non vorrebbero che noi fossimo, e questa affermazione magnifica non ha finito di produrre i suoi effetti.

Questo testo è stato scritto mentre i professori di Clermont Ferrand hanno gettato i loro manuali oltre le griglie del rettorato; mentre al centro di scarico di Ivry, il più grande della regione parigina, gli scioperanti resistevano all’attacco della polizia e saldavano il portale d’ingresso; nel momento in cui il personale ospedaliero di Saint Louis a Parigi gettava le giacche bianche davanti al direttore venuto a presentare le sue richieste, riprendendo così il gesto degli avvocati di Caen davanti al ministro della giustizia; nel momento in cui il rettorato di Parigi veniva invaso dai Black Prof, raggruppamento di insegnanti in lotta a cui si sono uniti scioperanti di tutti i settori. La circolazione dei treni non è ancora tornata alla norma, come anche quella della metropolitana parigina. Molti terminali di porti, raffinerie, depositi sono ancora bloccati. I ferrovieri e gli impiegati della metropolitana sono al loro quarantaduesimo giorno di sciopero. Onore a tutti loro. La lotta continua.

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