top of page

L’incanto di altri mondi. Intervista a Nanda Vigo


Nanda Vigo, 1958. Foto di Nikky Pascuttini


È passato un anno, eravamo proprio sotto Natale, quando sono andata a trovare Nanda Vigo per un’intervista dopo essere stata folgorata dal suo libro Giovani e rivoluzionari (Mimesis, 2019), uscito proprio in quel periodo. Nanda, con il girello, la difficoltà motoria e le sue volute di fumo, mi accolse sua casa-studio in Porta Romana: una giungla fatta di piante e grandi voliere in mezzo ai triangoli luminosi e specchianti che l’hanno resa tra le più talentuose e fantascientifiche artiste e designer della nostra epoca. Non era ancora scoppiata la pandemia e, nonostante i suoi dolori e i suoi ottantaquattro anni, aveva gli occhi di una ragazzina ribelle.


Autoritratto di Carla Lonzi, Festa Mobile di Ernest Hemingway e Autobiografia di tutti di Geltrude Stein, sono tre opere che pongono al loro centro un soggetto collettivo: le vite degli amici degli autori che tratteggiano in tal modo le loro stesse biografie. Nel libro non parli poi troppo di te stessa e del tuo lavoro, ma piuttosto dell’ambiente artistico degli anni Sessanta e Settanta e soprattutto del tuo compagno Piero Manzoni. È un racconto irriverente, vitale e vulcanico. La tua autobiografia è la storia di una comunità, una storia di amicizie e illuminazioni…


Sì, sebbene ci fossero dei razzismi mica da ridere. Gli artisti figurativi andavano per i fatti loro, così gli informali, avevano tutti i loro giri, le loro gallerie. Non si poteva tenere il piede in due staffe. Io avevo amici diversi come Remo Brindisi e Giò Ponti. Lucio Fontana non faceva parte di alcun clan, lui era al di sopra, era intoccabile. Io, gli amici li ho avuti addosso tutti, mi accusavano di frequentare gente anziana. Ero all’indice. Invece per me era bellissimo. Remo Brindisi, anche se era un figurativo e comunque i suoi primi lavori non erano male, era un uomo di grandissima cultura ed era vissuto a Parigi prima della guerra e aveva contattato artisti come Max Ernst, Marcel Duchamp, Man Ray. Per me il racconto diretto di questi rapporti era importantissimo. Per cui superavo tutto, anche se non piaceva neanche a me il figurativo. Il confronto era molto prezioso. Non ti dico Giò Ponti, gli attribuivano l’orribile parolaccia di «eclettico». Lo dicevano con grande disprezzo. Non avevano ancora capito che il design, l’architettura, l’arte e altre discipline artistiche, devono essere legate, costruite insieme. E lui era una rarità perché allora non lo faceva nessuno, lo facevano nel Cinquecento. Giò Ponti e Fontana li ho cercati io. Le persone più giuste sono aperte e non hanno gelosie.


Vi trovavate nei bar milanesi, vero? A ciascuno il suo.


Non c’era una divisione netta. Valerio Adami ci passava per sbaglio al Jamaica, avevano altri luoghi anche non referenziati ma un po’ più mondani. Per esempio gli artisti più ricchi, assieme a qualche architetto tipo Frattini, andavano sempre nel Club in Piazza Diaz, il Santa Tecla, che per noi era carissimo. Ogni tanto ci andavamo anche noi imbucandoci dietro a qualche vernice. C’era anche questa diversità. Lì facevano jazz. Veniva spesso il Joe Colombo, che si era appena iscritto ad architettura e arrivava col suo macchinone rosso, sempre con la pipa tra i denti. Simpatico, semplice, chiacchierone.


Nanda Vigo e Lucio Fontana, 1962. Foto di Lothar Wolleh


E c’era anche il mondo dello spettacolo?


Alle osterie, dal Pino Pomè o dalla Maria alla Magolfa, giravano due tipi simpaticissimi: Cochi e Renato erano intelligentissimi, due ragazzi che per fare qualche soldo andavano in giro a suonare nei vari bar, come qualsiasi strimpellatore. Tutta gente che ha fatto la gavetta giusta. La Mariangela Melato veniva sempre a prendere il caffè al Jamaica con Gian Maria Volontè. Anche gli attori del Piccolo venivano, la Maria Monti era di casa. Questo mondo era mischiato ma quello dell’arte aveva gruppi spaiati e divisi. Non c’erano grandi inimicizie, piuttosto ci ignoravamo. In molte trattorie di Milano si potevano vedere i quadri del Piero dovuti a scambi, per così dire, commerciali, e nella trattoria di via Scaldasole c’erano i suoi «omini» più belli, dato che la proprietaria era anche un suo filarino.


Raccontami di Piero…


Scrivere di Piero è stata anche una specie di esorcizzazione perché mi ha perseguitato più dopo la sua morte che prima, infatti io scrivo a.D. (after Death) come d.C. (dopo Cristo). Ha avuto una terribile influenza contro la mia esigenza di lavorare. Io, allora, avevo fatto esperienza negli Stati Uniti con uno stage e, tornando in Italia, ero piena di idee e di progetti. Il fatto di dover rinunciare è stato tremendo.


Come racconti nel libro, Manzoni ti ha posto la condizione: stiamo insieme ma tu non puoi fare l’artista. Perché?


Sì, gli dava fastidio che facessi l’artista. Sotto c’era la storia borghese per la quale la moglie doveva essere tale e basta. E poi gli dava fastidio che contattassi troppa gente. Ignorava completamente il mio lavoro, non se ne discuteva neanche. È stato il periodo in cui io stavo terminando la Zero House, la casa di vetro. Era uno dei miei lavori più importanti al quale tenevo molto. Avevo fatto delle pareti nelle quali si potevano inserire un’opera di Fontana site-specific (che è stata fatta) e poi avevo una grande parete che volevo destinare al Pierino. Era il periodo che aveva iniziato a fare i panini. Questa grande parete era nella sala di pranzo, era fantastica, sei metri per quattro. Doveva essere una parete di panini. Siamo andati avanti mesi a parlarne, diceva che l’avrebbe fatta ma non era vero. Non è neanche mai venuto a vedere il posto. Siccome Enrico Castellani mi piaceva, allora al suo posto ho inserito un grande Castellani che ha progettato ad hoc. È stato molto pesante, però ero follemente innamorata di Piero, era il primo grande amore e cercavo di adeguarmi anche se non ero molto contenta. Alle volte scoppiavano grandi liti, il motivo era sempre il mio lavoro. Una moglie per lui avrebbe dovuto stare a casa e fare figli e basta.


Nonostante lui fosse un rivoluzionario nel linguaggio…


Infatti questo è il punto. Piero è un ossimoro. Voleva tenere i piedi in due scarpe.


Nanda Vigo e Piero Manzoni, 1962. Foto di Uliano Lucas


Nel libro parli del fornaio vicino a casa. Piero andava sempre lì a prendere il pane. È lì che nascono le michette bianche, vero?


Sì, Alberto Biasi sostiene di essere stato lui il primo a fargli fare i panini perché aveva organizzato una mostra collettiva, con un panettiere di Padova, al quale aveva invitato Piero. Ma non è così. Io ero presente quando Piero fece per la prima volta i panini per il panettiere di Milano. Un giorno il panettiere, visto che Piero amava il pane, gli chiede si fargli un ritratto. Lui rimane un po’ sconcertato dalla richiesta e dice che ci deve pensare. Ripeto, ero presente. La faccia di Piero era molto imbarazzata quando il panettiere gli ha chiesto il ritratto. Evidentemente stava pensando «cosa gli do?». Stranamente lo aveva detto anche a me, perché lui doveva sempre tenere tutto segreto. A ciascuno le sue manie. Dopo qualche giorno ha fatto un’opera con i panini e ha detto: «Ecco il ritratto è questo». Il fornaio non ha detto niente. Lo ha ringraziato ma era abbastanza sconvolto. Comunque di tanto in tanto gli dava gratis delle brioche e del pane.


Piero sapeva che sarebbe diventato un grande artista?


Ha sempre lavorato solo ed esclusivamente per quello.


Sapeva che avrebbe vissuto poco?


No, ma è stata una sua scelta. Non ha mai voluto curarsi. Tutti lo vedevano prendere delle pastiglie che teneva sempre in tasca. Pensavano fosse chissà che cosa. Invece erano delle pastiglie di Cebion. S’era messo in testa che quelle gli guarissero tutto. Non ha mai voluto curarsi.


Nel libro racconti la vera storia della Merda d’Artista cioè che lui diceva che i collezionisti compravano solo cagate e dunque ha pensato bene di offrirla loro, però l’idea non è molto piaciuta neppure agli amici artisti.


Sì, è andata semplicemente così, mi disse: «Tutti comprano merda e allora gliela diamo». I collezionisti e neppure gli artisti lo capirono al momento. Daniel Spoerri è solo da pochi anni che ha detto di aver capito cosa fosse la merda. C’è stata anche un’interpellanza parlamentare del deputato Guido Bernardi quando, negli anni Settanta, fecero una sua mostra a Roma alla Galleria Nazionale. È venuto fuori questo imbecille che s’era messo a discutere sul fatto che tutti sono capaci di fare la cacca, quindi – sosteneva – siamo tutti artisti. Guarda caso però, il solo a firmare la merda fu il Manzoni. Ma il fatto è che sono cose stupide. La cosa importante è stata l’idea poi è finita lì. A un certo punto, il Piero scrisse al Luca Scacchi: «Basta. Non cago più!».


Qual è l’opera più importante di Manzoni?


Sono i suoi primi scritti del 1959. Sono dichiarazioni di lavoro importantissime. E poi «La Linea», il «Socle du Monde». In presenza di Manzoni c’era un accordo per il quale era silenziosamente proibito nominare Marcel Duchamp. Impossibile parlarne. E, con chi non lo sapeva, lui tagliava corto e se ne andava. Ha citato moltissimi artisti anche nella sua rivista, «Azimuth», ma non lui. Non ha mai detto il perché, noi però lo sappiamo: temeva che il suo lavoro venisse interpretato come dadaista. Pensava si potesse confondere la tipologia. Temeva un fraintendimento, temeva che lo prendessero come un’evoluzione dada. Tutta l’arte povera e concettuale è debitrice di Piero Manzoni.


Germano Celant considerò false le opere di Manzoni che ti appartenevano, tanto che durante la stesura del catalogo generale, le voleva tenere fuori.


È stato più pesante l’a.D. (l’after Death) che prima. Prima avevo le storie sul lavoro, poi ho avuto addosso mezzo mondo poiché la famiglia non s’era mai occupata del lavoro di Manzoni. Pensavano fossi io a portare avanti le cose e chissà quali business pensavano potessi fare. A me non è mai passato per la testa di commerciare con il suo lavoro. Avevo addosso tutti: artisti, critici e altra gente. Hanno iniziato a dire che facevo i falsi, mentre i falsi li avevano fatti gli altri. Opere che venivano autenticate dalla madre che, povera, non li conosceva e firmava. Questa storia è andata avanti per tantissimo tempo. Tutti contro, come se dovessi gestire chissà cosa. Certo che la prima mostra gliel’ho fatta io. Pensa che a distanza di un anno nessuno si ricordava più della sua morte e si ricordava più del Manzoni. Gli ho fatto questa mostra per affetto, ma dicevano che volevo speculare sul suo lavoro.


Nel libro scrivi «Ero una vecchia bambina di sette anni» e affermi che non sei di questo tempo ma di quello di una vita precedente. Mi vuoi chiarire questo concetto?


Ci sono dei sistemi per la regressione. Ma sono mie storie spontanee. Non ho fatto una ricerca specifica. Lo so di sicuro. Sono percezioni in astratto. Hai degli incontri o vedi delle cose e ti rendi conto che il legame è esatto, corrisponde a quello che c’è successo.


C’è stata la folgorazione attraverso le vetrate della Casa del Fascio di Terragni a Como, che ti ha fatto scegliere l’architettura…


Sì c’era tanto vetro-cemento ed era una casa stramoderna. Ero con i miei genitori, avevo sette anni, e sono capitata lì in una giornata di sole. C’erano tutte le rifrazioni che moltiplicavano, duplicavano, cambiavano i volumi dell’architettura. Sai un pouf, i fumetti. Proprio l’illuminazione. Ho scoperto la bellezza e la luce. Ci sono cose che ritieni nell’inconscio e circostanze nelle quali sbucano fuori. Quando ho cominciato il liceo artistico, ho cominciato a vedere cose diverse e capire che quella storia era molto importante per me e la mia ricerca. Questa illuminazione ha avuto un’influenza totale.


La luce del Terragni è dentro di te. Hai lavorato sempre sulla luce e sullo spazio, sul vuoto…


Con i Quadri-onda. Cercando di amplificare e riprospettizzare situazioni di luce. Ho scelto lo specchio, l’acciaio e l’alluminio dal 1959. Era il materiale più adeguato.


Le tue installazioni spaziali luminose trasferiscono l’osservatore da un luogo ordinario a un luogo straordinario.


Lo spazio tende a essere già di là il mio lavoro, in posti dove l’uomo prima o poi arriverà. L’uomo umano intendo, non so gli abitanti degli altri pianeti. Penso che esistano gli extraterrestri. Esistono non solo altri mondi ma altre galassie, esiste l’infinito, sette x sette x sette continuando sul sette, il numero delle galassie e ogni galassia ha i suoi soli e i suoi pianeti abitati e ci sono a tantissimi livelli di evoluzione. Inferiore, medio e superiore a noi, anche altamente scientificizzato. Ogni pianeta è abitato.


Come fai ad affermarlo?


Quello che affermano gli scienziati va sempre dietro a ciò che dicono gli artisti.


Hai paura della morte?


Certo che no, sono secoli che si nasce e si muore. Quello che mi rompe un po’ è il dolore. Lo stare a soffrire per anni perché finita quella vita lì ci sono altri problemi e altre cose, ma non con tanta sofferenza. Posso capire nel Medioevo che eravamo così indietro, ma adesso? È proprio necessaria tutta questa sofferenza? Abbiamo degli attaccamenti malati perché non riusciamo neanche a salvare un pianeta che è invidiato da tutte le galassie. Fuori lo chiamano il Pianeta Azzurro. È uno dei rari pianeti con una tale quantità di acqua che vuol dire sopravvivenza di tantissime specie, cosa che altri pianeti non hanno. Lo stiamo massacrando e il pianeta si sta già rivoltando, a furia di fare esperimenti nucleari nei fondali marini alle Filippine, negli atolli. È terribile ciò che si sconvolge sotto. C’è una rete immensa di vulcani pronti a esplodere e se tu tratti male la terra, prima o poi la terra esplode. Ci sono persone meravigliose per fortuna, ma vengono assorbite e fatte fuori da un sistema cieco a qualsiasi tipo di esigenza biologica. Completamente cieco e avido unicamente di potere economico.


È passato molto tempo prima che il mondo si accorgesse della tua grandezza. Prima eri la compagna di Piero Manzoni, poi la falsaria, alla fine si sono accorti che eri un’artista, una bravissima artista e designer.


(Ride) Intanto lavoravo. Inshallà! Se non volevi accondiscendere al benestare di qualche critico ti rendevano la vita difficile, soprattutto se non avevi il protettore, come le prostitute.


Nanda Vigo muore a Milano il 16 maggio 2020.


Ambiente Cronotopico, Eurodomus, Torino, 1968. Foto di Ugo Mulas

bottom of page