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L’archivio contro la storia. Intervista a Marco Scotini



Pubblichiamo un’intervista di Manuela Gandini a Marco Scotini.

Trovarsi con i denti contro la realtà e sciogliere tutte le illusioni nell’acido è la condizione dell’archivio contro la storia che da anni Marco Scotini, con le sue mostre e i suoi libri, sta tematizzando attraverso punti di vista plurali e deviati rispetto alla narrazione egemonica. «L’Inarchiviabile» è il titolo del suo ultimo saggio, uscito per Meltemi, che raccoglie i residui, le immagini e le macerie del neoliberismo, i cui temi caratterizzano la ricerca di artist* che riscrivono la storia attraverso percorsi linguistici sovversivi. Si tratta del riutilizzo di quel materiale che l’autore definisce «sulfureo, ribelle, incatturabile, dimenticato e interdetto». La trasversalità geografica degli incontri, delle forme e dei dialoghi riportati, costituisce una sorta di antologia della disobbedienza, un manuale di pensiero critico nell’epoca della società del controllo e del consenso.


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Manuela Gandini: ll tuo libro è il resoconto di uno scarto costante tra il concetto di archivio - con la sua caratteristica di meticolosità, burocrazia, amministrazione – e la storia come risultato di selezione, narrazione unidirezionale, egemonia. Il tutto è analizzato attraverso il lavoro di artisti che hanno affrontato tassonomie, attivismo, raccolte, liste, lotte politiche e sociali …

Da un lato l’archivio è strumento di controllo e potere; dall’altro – nelle mani degli artisti dagli anni Settanta in poi – diviene dispositivo di sovversione e creazione di realtà alternative, a-sincroniche, antagoniste. A tuo modo di vedere c’è stato un reale processo di emancipazione che abbia portato a risultati tangibili?


Marco Scotini: Il libro «L’Inarchiviabile» nasce con oltre venti anni di esperienza sul campo e se oggi un tema come quello dell’archivio appare culturalmente centrale, all’inizio degli anni duemila non lo era. Neppure, a quella data, si sarebbe immaginata l’importanza che in seguito avrebbe acquisito. Ma credo che due fattori siano all’origine del fenomeno. Da un lato la fine della Guerra Fredda con la crisi delle grandi narrazioni (i cosiddetti meta-racconti). Dall’altro lato l’affermazione pervasiva del mondo digitale. Di fatto, in entrambi i casi l’urgenza era quella di superare l’impasse che ormai la storia, come tale, rappresentava. Non è un caso che gli artisti siano stati i primi a rileggere il passato e la modernità tanto a Ovest che a Est. La tendenza è stata definita «impulso archivistico» o «svolta storiografica» ma credo che la vera posta in palio abbia riguardato una nuova e radicale concezione del tempo. Un tempo non più verticista, monodirezionale, cronologico e lineare. Un tempo ormai affrancato da quella limitazione cronologica che lega necessariamente un prima a un dopo – per cui il presente succede, senza eccezione, a un passato implicito e anticipa un futuro che l’attende. Diciamo che nella contemporaneità è stato l’archivio a prendersi una rivincita sulla storia, ma un archivio non più diviso tra burocrazia e amministrazione. L’attuale «archivismo», potremmo dire, risale agli anni Settanta quando si comincia a vedere questo dispositivo come qualcosa da profanare, come mezzo di eversione e liberazione (dai ruoli sociali assegnati, dalle identità di genere, dal passato cristallizzato, dalle forme di subordinazione, dalle rappresentazioni eteronome). Ora si comprende come l’archivio non sia più visto come un ausilio o un supporto alla storia ma come un modello antagonista a quest’ultima. In sostanza, credo che la moltitudine contemporanea avesse bisogno di una proliferazione di genealogie e non di un’unica storia comune, per quanto inclusiva. Ecco questo è il grande lavoro che sta dietro lo sforzo di trasformare un’idea di tempo. In questo senso non si tratta di qualcosa di astratto ma di tangibile.



M.G.: Varie esperienze tra quelle citate nel libro, da Baruchello a Balestrini a Gianikian e Ricci Lucchi, sono legate alla pratica situazionista del detournement che prevede la sottrazione di elementi (immagini, testi, musiche) da opere mainstream e il ri-montaggio per la costruzione di scenari del tutto diversi dall’originale. Sono state dinamiche sufficienti a innescare forme di disobbedienza e sovversione?


M.S.: Guy Debord era ossessionato dal tempo e il suo film su Venezia ne è una sintesi esplicita. Ma dobbiamo vedere invece cosa c’è di implicito nell’idea di detournement. O meglio, dobbiamo vedere che tipo di temporalità sta alla base del detournement situazionista, dal momento che stiamo parlando di archivio e storia. Qui Giorgio Agamben ha detto delle cose essenziali individuando le condizioni di possibilità del montaggio cinematografico nella ripetizione e nell'interruzione. Che cos'è, di fatto, una ripetizione se non il ritorno alla condizione di possibilità di ciò che è stato? Ci sbaglieremmo se vedessimo la ripetizione come il ritorno dell'identico. La ripetizione, invece, rende nuovamente possibile ciò che è stato e, per questo motivo, c’è una sorta di identità con la memoria che modula reale e possibile. Tutto questo è fondamentale per un’idea di archivio dinamico e performativo, in cui i materiali non intessono un’unica storia universale (data una volta per tutte) ma possono essere continuamente de-archiviati e re-archiviati. In questo senso, i montaggi di parole in Balestrini, di vecchie pellicole in Gianikian e Ricci Lucchi, di scarti e residui in Baruchello, operano in questa direzione. Il fatto che abbia dedicato la prima parte del mio libro, intitolata «Crono-dissidenze», agli anni Settanta italiani ha a che fare con l’origine di un pensiero della moltitudine e con una mostra che avevo curato nel 2016 a FM Centro Arte Contemporanea e che portava lo stesso titolo del libro.


M.G.: Puoi sinteticamente definire il concetto di «inarchiviabile» dal quale il libro prende il titolo?


M.S.: Ci sono tre campi semantici implicati nel termine «inarchiviabile» e tra loro sovrapponibili. Il primo è relativo a tutto ciò che dal potere è stato ritenuto degno di non essere archiviato e, come tale, è stato rimosso senza entrare a far parte della storia ufficiale. Il secondo ha a che fare con un materiale eccedente e di per sé recalcitrante ad essere archiviato, refrattario a ogni tassonomia, resistente ai protocolli formalistici. L’ultimo significato, infine, riguarda quel residuo che – malgrado il nostro tentativo di archiviazione digitale globale – sempre rimarrà tale, come una insopprimibile minaccia di oblio. Tutto questo materiale sulfureo, ribelle, incatturabile, dimenticato e interdetto è all’origine della contemporanea idea di archivio, dove il potenziale eversivo nel disarmare il potere nasce dal montaggio (sempre differente) di dati e fatti mai acquisiti dalla modernità, tali da restituirci una riserva di potenziale non esaurito nella storia, mai definitivamente in essa compiuto, ma sempre pronto a diventare (farsi) attuale. Così l’archivio finisce per sottrarci all’imperium del tempo, alle sue narrative univoche, al suo comando.



M.G.: Attraverso il racconto poetico e politico di Angela Ricci Lucchi, Laura Grisi, Marcella Campagnano, si evince il nuovo del linguaggio dell’opera femminile e femminista, del «soggetto imprevisto» che pone questioni al di là del tangibile, del classificabile e del materiale, destituendo le normali logiche che definiscono l’opera d’arte….


M.S.: Gli acquerelli di Ricci Lucchi, le foto di Campagnano e le metamorfosi dell’aria negli ambienti di Grisi sono espressioni diametralmente diverse tra loro. Eppure Grisi accumula pazientemente e senza sosta materiali eterocliti, gruppi etnici, percezioni e concetti, segni e forze, specie animali e granelli si sabbia. Campagnano, all’interno di una griglia grafica, colleziona fotogrammi di stereotipi femminili in posa di fronte all’obiettivo della camera: la casalinga, l’operaia, la sposa, la colf, la militante di sinistra, la modella, la gestante, la monaca, la diva, ecc. Ricci Lucchi, su un foglio di carta e in otto file sovrapposte, enumera un catalogo di cinquantasei figure senza rapporto apparente: un pesce, una rana, un’oca, un grappolo d’uva, un elefante, un ombrello, un orecchio, un uovo, una forchetta, un martello, un rubinetto, come in un vecchio alfabeto illustrato. Potremmo trovare uno sforzo condiviso dalle tre artiste nella sfida alle politiche dell’identità, alla univocità della rappresentazione e all’unidirezionalità del tempo, ma ciò che le accomuna veramente è il fatto di aver dovuto soccombere ad un ostracismo da parte della storiografia patriarcale e ufficiale che non le ha mai contemplate o le ha rimosse e dimenticate. Il loro destino non è stato diverso da quello di tutte le altre donne artiste il cui lavoro non è stato mai integrato nelle narrative egemoniche ufficiali sempre sessiste. È toccata oggi a noi la fortuna di riaprire gli archivi ribelli del passato con tutto il loro arsenale di segni e pratiche.


M.G.: All’inizio degli anni ’90 del secolo scorso, Predrag Matvejevic teorizzava l’instaurarsi pericoloso del mondo ex (ex-partigiani, ex-socialisti, ex-Jugoslavia, ex-ideologie, ex-impero…). Un mondo che aveva perso identità, ideali e corpo. Infuriavano le guerre balcaniche dopo la fine della Guerra Fredda e la frantumazione del muro creava nuove forme sociali, politiche e storiche. A questo proposito com’è cambiata la storia, che ha sempre il timbro ufficiale della polarizzazione? Nel libro vi è un’importante presenza di artisti dell’est come Deimantas Narkevicius, Ivan Kozaric e Jaan Toomik, secondo te come si pongono in relazione al mondo ex?


M.S.: Oltre Narkevicius, Kozaric e Toomik sono presenti nel libro anche Marko Pogacnik e Vyacheslav Akhunov. Ma, forse, i primi tre che citi sono quelli che maggiormente hanno messo in scena un tempo del «dopo». O, meglio, hanno problematizzato questa condizione postuma, di sopravvissuti alla scomparsa di un mondo e di chi ha dovuto ripartire dalle rovine del passato. In che modo hanno fatto di questa temporalità l’oggetto del loro lavoro? Potremmo dire che tutti e tre sono i massimi esponenti di strategia della ripetizione: nell’ambito del cinema, della plastica e della performance. Maestri dell’«ancora una volta», tutti e tre rifiutano una temporalità lineare e sdoppiano il tempo in virtuale e attuale, in un duplice modo di esserci. Se l’opera di Kozaric può essere considerata un immenso repertorio di citazioni, quella di Narkevicius cita direttamente pellicole del passato socialista, mentre quella di Toomik registra la perdita di una gestualità pre-definita. Credo di avere imparato molto da loro rispetto ad un’idea contemporanea dell’archivio — un archivio post 1989 appunto.


M.G.: In molte delle mostre che hai progettato e curato vi è un tentativo di rileggere gli eventi storici, cambiare il punto di vista, ricostituire le parti offese rese vittime di distorsioni colonialiste, razziste, patriarcali. Qual è il ruolo del curatore oggi? E che influenza può ancora esercitare l’arte in un contesto nel quale viene tolto ossigeno alla ricerca e vengono premiate profumatamente opere altamente funzionali al sistema, alla finanza e alle élite?


M.S.: In tempi bui come i nostri più recenti non può che venirmi in mente Gramsci e la sua analisi degli intellettuali sviluppata dalla Questione meridionale fino ai Quaderni dal carcere.

Gramsci chiama «funzionari» e «commessi» gli intellettuali (lui usa il termine in un’accezione ampia). Tutti hanno il compito di organizzare il consenso o di conservare l’egemonia sociale dei gruppi dominanti. In questi tempi le figure che «non consentono» sono davvero minoritarie. Il bello dei nostri anni è poi quello di neutralizzare e commerciare anche gli episodi più radicali e di trasformare le occasioni di rottura in consenso dissimulato. Ma a questo tema della cattura culturale ho dedicato un intero altro libro, Artecrazia, mentre L’Inarchiviabile cerca di fare i conti con la temporalità: nel tempo, contro il tempo, in favore di un tempo a venire.



Immagini

1. Mao Tongqiang, Theatrical Piece 2017

2. Marcella Campagnano, L'invenzione del femminile. Ruoli, 1974-1980

3. Mao Tongqiang, Archive, installation




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Marco Scotini è direttore artistico di FM Centro per l’Arte Contemporanea e direttore del Dipartimento di Arti Visive e Studi Curatoriali di NABA, Milano. È responsabile del programma espositivo del PAV di Torino e, in qualità di curatore, ha collaborato con numerose istituzioni internazionali, tra cui la Biennale di Venezia, Biennale di Praga, Van Abbemuseum, Reina Sofia, SALT, Castello di Rivoli e MIT. Ha pubblicato con DeriveApprodi Politiche della memoria (2014) e Artecrazia (2021).




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