La LIX Biennale di Venezia del 2022, «Il latte dei sogni», per la prima volta ha assistito all’esposizione di una stragrande maggioranza di opere di artiste donne, ed è stata curata da una donna. Questo non è affatto un dato statistico o pacifico: al contrario, è il frutto e inconcluso percorso di conflitto. Per ripercorrerne la genealogia, in questo articolo Carla Pagliero individua negli anni Ottanta un decennio di particolare importanza: è il decennio seguito ai grandi movimenti femministi degli anni Settanta, è il decennio delle Guerrilla Girls e dell’affermazione degli studi di genere. In questo percorso le donne non si limitano più a essere «l’altra metà del cielo», ma determinano un processo di femminilizzazione dei rapporti sociali che va, nel presente e in prospettiva, compreso e discusso.
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La LIX Biennale di Venezia del 2022, Il latte dei sogni, è destinata a entrare negli annali dei fatti culturali e artistici memorabili, per la prima volta uno degli appuntamenti più importanti dll’arte contemporanea ha esposto una stragrande maggioranza di opere di artiste donne: 191 artiste su 213 espositori, provenienti da 58 nazioni, il che ne sottolinea l’importanza. Quest’ultima Biennale è stata curata da una donna, Cecilia Alemanni, e ha assegnato all’artista afroamericana Simone Leigh, il premio più prestigioso della manifestazione, il Leone d’oro. Una mostra quindi con diversi stelloncini al merito: curatela, premi, presenza femminile, all’insegna dell’inclusione sia di genere che culturale.
Superata la diffidenza che, spontanea, sorge in questi casi, di vedere l’evento trasformato in un atto di moda e di costume e di vedersi profilare all’orizzonte il famigerato tokenism, vale a dire il raccapricciante spettacolo di donne, gruppi minoritari, o portatori di handicap, buttati allo sbaraglio per catturare attenzione e dare una parvenza di equanimità, e poi massacrati sul palcoscenico dell’evento, come dicono gli inglese: lo «smurfette principle», il principio della puffetta, la LIX Biennale è stata, in effetti, l’occasione ideale per fare un bilancio sullo stato dell’arte e sui cambiamenti che ci sono stati in questi ultimi decenni per quanto riguarda gli studi sulle donne. I mesi concessi all’esposizione veneziana hanno fatto crescere l’attenzione e la consapevolezza che davvero molta strada è stata percorsa nel senso del veder riconosciuta un’autonomia e una specificità alla presenza delle donne nella cultura artistica contemporanea: la buona partecipazione numerica di un pubblico amico, sicuramente, ma anche con significativi strumenti critici, ha promosso la manifestazione con giudizi decisamente positivi e ha consentito di fare quel salto di qualità che tutti ci aspettiamo da anni.
La partecipazione delle donne nel mondo dell’arte ha fatto in questi ultimi decenni passi giganteschi, se si pensa che alla prima Biennale, nel 1895, le donne presenti rappresentavano il 2,4% degli artisti in catalogo e, ancora nel 1995 la loro partecipazione era ferma al 9%. La prima curatela femminile è stata quella della LI Biennale del 2005, quando le spagnole Rosa Martinez e Maria de Corral proposero una mostra dichiaratamente «femminista», piena di leggerezza e ironia, dove fra le opere esposte, suscitò scalpore «la Novia» il pretenzioso, bellissimo lampadario composto da 14.000 assorbenti interni, di Joana Vasconcelos, che si offriva agli sguardi divertiti del pubblico, a fianco di una delle opere più significative della critica radicale all’universo culturale-artistico maschile: un quadro/manifesto delle Guerrilla Girls che riproponeva un nudo femminile di Ingres, la Grande Odalisca. La donna, rappresentata nuda, di schiena, distesa su un canapè, indossa la tipica maschera da gorilla, emblema delle ragazze delle Guerrilla che, notoriamente, non firmano individualmente le proprie opere ma adottano il nome collettivo, o un nome d’arte. Sull’opera, che ricorda un manifesto pubblicitario, la scritta è iconica e paradigmatica: «Devono essere nude le donne per entrare nel Metropolitan? Sono meno del 5% le donne presenti nelle sezioni di Arte Moderna, ma l’85% dei nudi sono femmine». L’opera dell’89 diventa il loro manifesto, uno slogan di denuncia che invita alla lotta.
Il gruppo delle Guerrilla si è formato nel 1985, in un decennio, quello degli anni Ottanta, dove succedono molte cose importanti per l’affermazione del principio di visibilità da parte delle donne che, già negli anni Sessanta e Settanta, hanno iniziato a costruire consapevolezza e determinazione, mettendo a punto strumenti originali e inediti per confrontarsi, crescere, ridisegnare spazi e ruoli. Il gruppo nasce da subito con caratteristiche ideologiche forti e una gran voglia di rivendicare un ruolo dovuto e vendicare una vita sommersa. La «metà suicidata della creatività», come l’aveva definita Lea Vergine nel 1980. L’idea di fondare un gruppo d’azione critica con carattere militante e femminista nasce con l’inaugurazione di una mostra, An International Survey of Recent Painting and Sculpture, curata da Kynaston McShine per il Moma di NY. La mostra si prefiggeva l’obiettivo ambizioso di esporre tutti gli artisti più importanti del momento. Per l’evento vennero selezionati 169 artisti provenienti da 17 paesi, della compagine facevano parte solo 13 donne: nessuna di loro di colore. L’attenzione delle Guerrilla, constatate le evidenti contraddizioni del progetto, si allargava, di conseguenza, dalla lotta al sessismo a quella contro il razzismo, l’obiettivo del gruppo diventava, quindi, anche quello di attirare artisti di ogni colore e proporre una visione inclusiva dell’arte che comprendesse tutte le arti visive senza escludere la cultura popolare, il tutto condito da uno spirito dada, ironico e dissacratore.
Le modalità formali e comunicative delle Guerrilla e di molti altri artisti del periodo riprendevano sostanzialmente molte caratteristiche della vicina Pop Art, come i colori urlati e vivaci, la grafica pubblicitaria, la sintesi linguistica. Nelle modalità creative degli anni Ottanta è ancora evidente l’eredità delle Avanguardie di inizio Novecento e delle Neoavanguardie degli anni Sessanta, ad esempio nell’uso della provocazione, nella critica alla tradizione, negli accostamenti surreali e spiazzanti, nella composizione e nel collage, uniti a pratiche tipiche dei gruppi politici di quel decennio: il ricorso a slogan provocatori e invadenti che fanno spesso riferimento alle tecniche situazioniste dello spiazzamento e del détournement, a pratiche collettive e di confronto, come l’autocoscienza, mantenendo l’anonimato e perseguendo l’obiettivo di colmare quel divario, che veniva sentito come ingiusto e irrazionale, fra generi, culture, razze, classi sociali.
Il percorso che si compie negli anni Ottanta, porta a compimento alcune rivendicazioni politiche e sociali che hanno sicuramente origine negli anni Settanta attingendo a piene mani dalle intuizioni che sono state portate allo scoperto da quella generazione, anche se, a volte, in maniera un po’ rapsodica e scomposta. Il processo, ovviamente, non portò a risultati omogenei. Le differenze erano, e sono ancora oggi, dettate dal censo, dal milieu culturale di provenienza, dalle logiche geopolitiche, ma tant’è, il blocco ancestrale che aveva interessato per secoli l’emancipazione femminile e il rimosso che riguardava la storia delle «donne che reggono l’altra metà del cielo», come recita un proverbio cinese, ripreso da Mao Tze Tung proprio in quegli anni, erano saltati, provocando spesso una reazione feroce e sconsiderata, che si configurò, e si configura ancora oggi, in casi estremi come quello iraniano, come uno scontro fra culture.
La donna, compare un soggetto imprevisto nel mondo dell’arte
Gli anni Ottanta, aprirono una stagione nuova per gli studi di genere e in particolare per la storia dell’arte delle donne. In Italia nel febbraio del 1980 fu inaugurata al Palazzo Reale di Milano una mostra, dal titolo significativo: L’altra metà dell’Avanguardia 1910-1940, la mostra era curata da Lea Vergine, e si avvaleva di uno splendido allestimento progettato da Achille Castiglioni. La mostra ebbe una storia complessa e travagliata, e fu portata successivamente al Palazzo Esposizioni di Roma e nel febbraio dell’anno successivo al Kulturhuset di Stoccolma.
La Vergine nel suo lavoro fa affidamento sulla sua notevole esperienza di storica e di curatrice di mostre e sulle sue conoscenze del mondo artistico e accademico. Le sue riflessioni che riguardano la mancanza di figure femminili di riferimento negli eventi artistici istituzionali, partono dal dibattito che si era aperto sull’argomento negli anni Settanta in America e sull’incredibile omissione di studi e ricerche sulla creatività delle donne, mancanza che ancora oggi possiamo notare, se ci prendiamo la briga di consultare i manuali scolastici in uso, sia per quanto riguarda la storia dell’arte, che la letteratura, la storia della musica e delle scienze. Può sembrare incredibile, ma ancora negli anni Settanta questa evidente assenza di nomi femminili nella letteratura storica in uso era un problema di assoluta insignificanza e, cosa ancora più incredibile, a distanza di cinquant’anni le differenze si iniziano appena a percepire.
«Nel 1970 – scrive Raffaella Perna – il gruppo Ad Hoc Women’s Art Committee, di cui facevano parte, tra le altre, Lucy Lippard, Poppy Johnson, Brenda Miller e Faith Ringgold, protestò con forza contro l’orientamento maschilista della Whitney Annual (poi Biennial), inviando una lettera al museo in cui si richiedeva che il cinquanta per cento degli artisti invitati all’esposizione fosse donna e che di questo cinquanta per cento la metà fosse composta da artiste nere (Ringgold 2005)»[1].
Nel 1971 Linda Nochlin, una storica dell’arte e scrittrice statunitense, pubblicò un saggio sulla rivista Art News dal titolo emblematico: Why have there been no great women artists? Perché non ci sono state grandi artiste? Bella domanda, e per niente scontata. Il testo venne tradotto e pubblicato in Italia nel 1974 da Einaudi, assieme ad altri saggi col titolo La donna in una società sessista. Potere e dipendenza. La struttura dell’opera gettò le basi di quelle che saranno le linee guida degli studi di genere. Innanzitutto viene contestata la pregiudiziale «inferiorità» delle donne per nascita, portando avanti invece argomenti che afferiscono alla sfera delle barriere istituzionali e ai pregiudizi sociali, che hanno da sempre limitato le donne nella possibilità di accedere a una formazione libera, ma anche di poter svolgere attività considerate poco adatte alle donne. Nochlin, alla fine del suo saggio, ribalta l’asserzione di partenza affermando che, in realtà, la cosa sorprendente è che in questa società che parla e accetta unicamente linguaggi e modalità maschili, alcune donne «siano riuscite ad affermarsi nella scienza, nella politica e nell’arte»[2]. Un concetto che viene ripreso dall’artista e scrittrice Anne Marie Sauzeau Boetti, che negli anni Settanta sosteneva che la promozione del lavoro di un’artista non doveva essere rivendicato come un diritto non ancora acquisito, ma come il riconoscimento di un valore esistente, introducendo la possibilità che il lavoro delle donne debba essere valutato, forse, con parametri diversi rispetto alla produzione corrente che rispecchia valori e sensibilità maschili.
Nel 1976 la Nochlin, con la collaborazione di Ann Sutherland, si mise all’opera per organizzare una mostra significativa dedicata alle donne artiste: Women artists 1550/1950[3], destinata, pur con i limiti e le critiche che fatalmente vennero mosse, il modello per altre esperienze simili. L’anno successivo un’altra mostra, esclusivamente femminile, Kunstlerinnen International 1877/1977, venne inaugurata allo Schloss Charlottenburg di Berlino, questa volta curata da un collettivo dichiaratamente femminista, Frauen in der Kunst.
L’altra metà dell’avanguardia
Anche in Italia ci sono state storiche che, già negli anni Settanta, hanno iniziato a porre l’attenzione sulle «artiste» dimenticate. In particolare vanno ricordate Romana Loda che fra il 1974 e il 1978 si dedicò a far conoscere artiste attive nel campo della Body Art e dell’arte comportamentale e[4] Mirella Bentivoglio artista, poetessa e performer che, nel 1978, organizzò una mostra storica, Materializzazione del linguaggio, in occasione della XXXVIII Biennale di Venezia, ai Magazzini del Sale, facendo esporre opere di ottanta donne, operanti per lo più nel campo verbo-visivo[5]. Un capitolo a parte meriterebbe Carla Lonzi, fiorentina, con una solida formazione, e un’esperienza indiscutibile, in campo storico-artistico, che abbandonò negli anni Settanta il suo lavoro di curatrice e storica per abbracciare il femminismo radicale su posizioni vicine al separatismo. Per la Lonzi il femminismo non fu un movimento sostenuto dalla componente generazionale e dal ribellismo sessantottesco, anzi, le giovani donne, scrisse, si avvicinarono al femminismo malgrado il ’68. Nel 1970, l’anno in cui esce Sputiamo su Hegel, fonda, con Carla Accardi ed Elvira Banotti, il gruppo Rivolta femminile, che nasce come gruppo di autocoscienza, formalizzando le sue posizioni in un manifesto, attaccato per le strade di Roma nel luglio del ’70, e pubblicando i suoi scritti per i caratteri della casa editrice Scritti di Rivolta Femminile, fondata a Milano in quell’anno. Il pensiero della Vergine è distante da quello della Lonzi e sono, soprattutto, le mostre della Loda, in particolare Magma, tenutasi tra il novembre e il dicembre del 1975, e le due mostre americane succitate, che stimolarono in lei l’idea di organizzare una prima grande esposizione dedicata alle artiste delle avanguardie storiche: L’altra metà dell’avanguardia. 1910-1940.
Nella mostra venivano portate allo scoperto le creazioni di 114 artiste donne, in gran parte sconosciute, 12 di queste erano ricordate semplicemente con materiale documentaristico perché delle loro opere non c’era più traccia. Come scrisse la Vergine, nel catalogo, il lavoro di ricostruzione fu complesso e da considerare embrionale, in quanto l’oggetto della ricerca «era caduto al di fuori della memoria storica […] quel che importa, per ora, è che sia stata trasgredita la barriera del silenzio»[6]. Le donne di cui ci si occupa nella ricerca, vengono generalmente da un ceto borghese benestante e hanno avuto una formazione culturale e artistica adeguata, in linea di massima sono figlie, sorelle, mogli, compagne di … e hanno spesso collaborato attivamente con i loro compagni, si pensi a nomi noti come Frida Kahlo, Sonia Terk Delaunay, Natalja Goncharova, Dora Maar, Gabriele Munter, oggi, quanto meno, citate nella coppia artistica, ma in quegli anni neanche nominate. «Molte di esse ebree, altre omosessuali, altre ancora non estranee al mondo della pazzia per aver attraversato la pazzia del mondo: tutte le devianze insieme hanno fruttato una somma di eccellenti eversioni. […] la storiografia ne aveva scolorito i profili, le aveva archiviate come personalità “interessanti” in quanto legate ai leader dell’epoca secondo la convenzione della musa ispiratrice, dell’alter ego dell’artista maschio»[7].
Lea Vergine, napoletana, ma milanese d’adozione, si era occupata spesso nei suoi scritti dell’espressività delle donne, svolgendo anche un attivismo concreto e finanziando l’apertura della Libreria delle donne in Via Dogana, a Milano, ma solo nel 1975, come storica, inizia a pensare a una grande mostra che avesse tutte le caratteristiche dell’evento ufficiale, accademico, istituzionale. Era necessario superare alcuni ostacoli che rischiavano di far naufragare la giusta e sacrosanta rivendicazione della storia negata delle donne, primo fra tutti quello di organizzare una «mostra ghetto» autoreferenziale, vale a dire far esporre le sole artiste donne in un luogo «chiuso», non riconosciuto istituzionalmente, che avrebbe forse attirato un pubblico amico ma sicuramente non avrebbe giovato alla causa dal punto di vista artistico, rischiando di chiudere le nostre artiste in uno zoo protetto. Era una modalità già sperimentata, già verificata e criticato, da più parti, il risultato. Era necessario riuscire a sfondare un muro fatto di luoghi comuni, tradizionalismi, pregiudizi, ma bisognava farlo con un linguaggio comprensibile e comunicabile a livello istituzionale – maschile avrebbe detto la Lonzi –, facendo ricorso a strumenti che la Vergine ben padroneggiava e che le erano riconosciuti a livello accademico, quelli della storica d’arte.
La mostra non sarebbe stata una mostra femminista. Lea Vergine, sin da subito, pose in chiaro che lei non si sarebbe mossa con intenti ideologici o partigiani, che avrebbero rischiato di far scadere l’esposizione in una manifestazione «non professionale», come se ne erano viste tante, ma che si sarebbe limitata a fare quello che sapeva fare bene e che era il suo mestiere: la curatrice e critica d’arte. Casomai suggerisce di essere considerata una «femminista onoraria».
Le prime obiezioni che la Vergine muove alle due mostre americana e tedesca, sono quello di avere scelto un lasso di tempo troppo ampio per poter svolgere una ricerca attendibile – dal 1550 al 1950 la mostra curata dalla Nochlin e dalla Sutherland, e dal 1877 al 1977, quella curata dalle femministe tedesche –, e, soprattutto, di non aver espresso in maniera chiara l’oggetto della ricerca. Critiche che vengono direttamente dalla sua esperienza accademica e inerenti i principi basilari di ogni ricerca che voglia avere una prospettiva storica istituzionale: la definizione dell’oggetto da studiare e il periodo omogeneo e compatibile con le finalità della ricerca. La scelta dell’oggetto da analizzare va, quindi, alle Avanguardie del Novecento, in quanto esperienza che innerva tutta la produzione artistica novecentesca e contemporanea ed è un fenomeno ormai chiuso e circoscrivibile, abbastanza lontano nel tempo da poter essere studiato con criteri storici, ma dove le protagoniste possono ancora essere avvicinate, intervistate, conosciute, come le loro opere, spesso tutte da riscoprire. L’obiettivo della mostra diventa quello di far emergere e quindi storicizzare, quante più artiste possibili abbiano vissuto e operato in quel trentennio, spesso nascoste dietro le figure ingombranti di mariti, amanti, fratelli, maestri e ingiustamente cancellate dalla storia.
La mostra, a quarant’anni di distanza, come nota Angela Maderna, nella sua bella ricostruzione, pubblicata da postmedia nel 2020, non è un semplice «censimento» di opere e artiste, ma ha contribuito sostanzialmente a scrivere una storia nuova, a costruire un metodo di lavoro, e a ricondurre l’ «altra metà del cielo» nel terreno storico che gli spettava.[8]
La ricerca è lunga, minuziosa, irta di ostacoli. La Vergine punta a un luogo espositivo di prestigio, otterrà Palazzo Reale a Milano e la Galleria di Palazzo Esposizioni a Roma, chiede ad Achille Castiglioni di disegnare l’allestimento, un progetto chiaro dal punto di vista espositivo e che valorizzerà al massimo le opere esposte. Contatta centinaia di artiste, alcune molto note, altre tutte da scoprire, studia e analizza le loro opere, in alcuni casi riesce a compilare le sole schede biografiche, perché delle opere non esiste più traccia. Il catalogo è importante soprattutto per le schede che lo accompagnano e per le regole che la Vergine si propone di seguire nella curatela della mostra. 1. La definizione chiara dell’oggetto della ricerca: le Avanguardie del Novecento in quanto, come si è detto, periodo artistico che influenza tutta la produzione successiva, ma anche un momento storico dove c’è ancora una buona documentazione della produzione femminile, anche se non opportunamente valorizzata. 2. I limiti cronologici della ricerca, che vengono sforati forse solo nel caso di Carla Accardi, la cui produzione va oltre il 1940 che era la data limite fissata, ma le cui opere si impongono in maniera così chiara e interna rispetto all’argomento considerato, che non possono essere ignorate anche se cadono al di fuori del contesto cronologico scelto. 3. L’intento di tirare fuori dal limbo della disinformazione quante più artiste possibile. 4. Produrre delle schede dove venga valorizzato soprattutto l’aspetto operativo estetico, formalistico, criterio storiografico molto apprezzato all’epoca, piuttosto che il dato biografico. Viene sistematicamente cassato qualsiasi riferimento alla vita privata: «moglie di», «compagna di», vengono accuratamente evitati, le artiste vengono descritte e presentate per il loro peso artistico e per le loro scelte professionali, che, obliquamente, hanno anche intrecciato la biografia di alcuni artisti maschi.
La mostra ricevette lodi entusiaste e critiche severe; particolarmente inappellabile il giudizio di Carla Lonzi che accusò la Vergine di aver considerato le opere con un approccio maschile e di aver compiuto un’operazione che non avrebbe giovato alla causa delle donne, in quanto mettendo a confronto la creatività femminile con gli stessi parametri e strumenti della critica d’arte maschile non era stato affrontato il problema reale, né si era costruito un percorso critico alternativo. Durissimo anche il giudizio dello scrittore Giovanni Testori che rimproverò la Vergine di aver disegnato un impianto «maschilista fino al brivido», di aver omesso un cappello introduttivo all’oggetto della ricerca: le avanguardie del Novecento, e di non aver inserito alcune figure significative, quali Suzanne Valadon, nel panorama espositivo. Tutta la critica fu però concorde nel riconoscere il valore scientifico della ricerca storiografica e il peso che avrebbe avuto la mostra per le ricerche successive in un campo inesplorato dal punto di vista accademico, almeno fino a quel momento. Come scrive Giovanni Lista nella bellissima lettera rivolta a Lea Vergine, che viene inserita nel catalogo: «Torna a presentarsi di nuovo la categoria attraente, ma certo troppo comoda, di uno specifico femminile il cui statuto socio-culturale, e la sua stessa dimensione storica, restano ancora da analizzare. Se riesce ad articolare, in parte solo implicitamente, ma comunque per la prima volta in modo concreto, tutta questa problematica di cui è carico oggi il tema della donna e della creazione estetica, la sua mostra dovrebbe aprire una pagina nuovissima nella storia del pensiero sull’arte. O almeno questo dovrebbe essere il risultato del suo lavoro. E’ in ogni caso l’augurio che le faccio»[9].
Oltre l’altra metà
A distanza di più quarant’anni il dibattito sulla presenza delle donne nell’arte e gli studi sulla creatività non «allineata» al pensiero dominante «pre-potente», o patriarcale, come preferiscono definirlo alcuni, è ancora piuttosto vivace e assolutamente necessario. Pare incredibile che la millenaria storia della civiltà «umana» si sia posto il problema solo negli ultimi decenni; d’altra parte non dimentichiamo che il diritto di voto è stato concesso alle donne in tempi non lontani: in Italia nel 1946, nel piccolo, ridente Principato di Monaco, nel 1963 e nella civilissima Svizzera nel 1971; mentre la parità fra uomo e donna nella comunità familiare è stata riconosciuta, in Italia, con il nuovo diritto di famiglia, solo nel 1975, l’anno successivo al referendum sul divorzio; e, cosa davvero sorprendente, solo nel 1981, con l’approvazione della L.442, siamo riusciti a buttarci alle spalle principi giurassici come il «delitto d’onore» e il matrimonio «riparatore». Possiamo affermare che se gli anni Settanta preparano una seria rilettura del pensiero patriarcale egemone, gli anni Ottanta portano avanti una serie di percorsi normativi, sociali, culturali, civili, indispensabili al processo emancipatorio delle donne, almeno in una piccola ma significativa parte del mondo. Sono diritti acquisiti con fatica, che sarebbe sbagliato considerare conquistati definitivamente, ma di cui è bene acquistare consapevolezza, anche perché in altri settori, e pensiamo alle tutele sindacali e alla sicurezza sui posti di lavoro, alle riforme punitive del sistema pensionistico, alla stesura di contratti lavorativi sempre più confusi, frammentari, penalizzanti, gli anni Ottanta hanno portato destabilizzazione, retrocessione, crisi. Sarebbe opportuno porsi qualche domanda sui meccanismi che hanno portato l’Occidente ad accettare un cambiamento così radicale nel considerare il ruolo delle donne all’interno della società, tenendo conto, comunque, che le donne di cui stiamo parlando non rappresentano certo ancora il 99 per cento delle donne che Arruzza, Bhattacharya, Fraser auspicavano nel loro bel libro/manifesto Femminismo per il 99%, uscito nel 2019, in seguito allo Sciopero Internazionale delle donne del 2017. Forse qualche domanda bisognerebbe anche porsela sull’uso e abuso del termine crisi, che anziché produrre soluzioni al problema ha scaricato le conseguenze economiche e finanziarie delle perturbazioni capitalistiche sulle frange più deboli e disfunzionali della società, in un sistema che in questi ultimi quarant’anni è stato rivoltato come un calzino dalle rivoluzioni produttive ed economiche che si sono imposte, portando a un stravolgimento globale dei rapporti, dei ruoli, degli equilibri geopolitici e sociali. Forse, come sostiene bell hooks, un pensiero femminista sarebbe auspicabile per tutti, dove per femminismo si intende un modello intersezionale che tiene conto della lotta al sessismo, al razzismo, al colonialismo, al patriarcato, anche quello messo in atto dalle donne stesse, quelle che non riescono ancora a capire da che parte stare in quanto donne, un femminismo in grado di liberarci da luoghi comuni scontati, e che produca un pensiero trasformativo che faccia emergere un soggetto imprevisto, quello di cui parlava la Lonzi, intendendo il soggetto femminile, portatore di una visione alternativa alla violenza e alle gerarchie del pensiero dominante.
Note [1] Raffaella Perna, Mostre al femminile: Romana Loda e l’arte delle donne nell’Italia degli anni Settanta, «Ricerche di S/Confine«, vol VI, n. 1, 2015. [2] Linda Nochlin, Perché non ci sono state grandi artiste?, trad. it. di Jessica Perna, Castelvecchi, Roma 2019. [3] Women artists, a cura di Linda Nochlin e Ann Sutherland si tenne al County Museum di Los Angeles dal 23.12.1976 al 13.3.197; al Blanton Museum of Art della University di Austin, Texas; dal 12.4. al 12.6.1977; al Carnegie Museum of Art di Pittsburgh, dal 14.7 al 4.9.1977 e al Brooklyn Museum of N.Y. dal 1.10 al 27.11.1977. [4] Romana Loda, scomparsa nel 2010, è stata in Italia una pioniera nel far conoscere l’arte delle donne e nel denunciare la scarsa presenza femminile nelle esposizioni pubbliche e private. Negli anni Settanta, sia attraverso la sua Galleria Multimedia a Erbusco, vicino a Brescia, sia attraverso la curatela di alcune esposizioni e pubblicazioni fondamentali in questo campo, qui ricordiamo «Coazione a mostrare», del 1974, e «Magma», del 1975, «Altra misura», 1976, e «Il volto sinistro dell’arte», del 1978, mise allo scoperto l’inconsistenza di studi e luoghi espositivi istituzionali dedicati alle donne, e contribuì a suscitare attenzione attorno a questo problema. Su Romana Loda si veda il bel contributo di Perna, Mostre al femminile, cit. [5] La Mostra, inaugurata ai Magazzini del Sale il 20 settembre 1978, due mesi e mezzo dopo l’apertura ufficiale della Biennale, non ebbe la risonanza che ci si attendeva e fu gestita come un evento minore, un contentino che andava a compensare la quasi totale assenza di donne nella rassegna principale, a esclusione della retrospettiva dedicata a Ketty La Rocca che era morta due anni prima. Per la ricostruzione dell’episodio cfr. la mostra Il soggetto imprevisto. 1978 Arte e Femminismo in Italia. A cura di Marco Scotini e Raffella Perna. Media Partner: Flash Art. La mostra realizzata con il Mart di Rovereto e Frittelli Arte Contemporanea, con il contributo di Dior, si è tenuta presso Fm Centro per l’Arte Contemporanea di Milano dal 4 aprile al 26 maggio 2019. [6] Lea Vergine, L’altra metà dell’avanguardia 1910-1940. Pittrici e scultrici nei movimenti delle avanguardie storiche, catalogo della mostra Comune di Roma- Assessorato alla Cultura, Mazzotta Editore, Milano 1980, p. 13. [7] Ivi, p.16. [8] Angela Maderna, L’altra metà dell’avanguardia quarant’anni dopo, postmedia books, Milano 2020. [9] Lea Vergine, L’altra metà dell’avanguardia 1910-1940, Mazzotta editore, Milano 1980, p.31.
Immagini
1) Simone Leigh, padiglione Stati Uniti, Biennale di Venezia 2022
2) Guerrilla Girls, Do women have to be naked to get into the Met.Museum?, 1989
3) Joana Vasconcelos, Novia, 2005. Arsenale, LI Biennale di Venezia. Sullo sfondo l’opera delle Guerrilla Girls.
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Carla Pagliero, architetto di formazione, si è occupata di didattica e storia dell'arte. Ha insegnato per 35 anni storia dell'arte e ha partecipato a progetti di ricerca sulla didattica con l'IRRSAE e con la scuola di specializzazione interfacoltà. Ha collaborato con la fondazione Scuola del San Paolo e con la casa editrice SEI come consulente.
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