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Introduzione agli «Scritti inediti di economia politica» di Marx (II)


S.B., Scritture, 2010


Pubblichiamo la seconda parte dell’introduzione agli Scritti inediti di economia politica di Marx (inediti in lingua italiana), pubblicati da Editori Riuniti nel 1963 e da lui stesso tradotti. La prima parte è disponibile qui.


* * *


La critica dell’economia politica è dunque il filo conduttore del pensiero di Marx. «Per la critica dell’economia politica con l’aggiunta di un capitolo finale sulla filosofia di Hegel» è il titolo che Marx stesso dà alla sua opera del ’59. «Critica dell’economia politica» è il sottotitolo del Capitale, di tutti i quattro libri del Capitale. Intorno a questo filo si organizza e si intreccia tutta la vita e l’opera di Marx.

Abbiamo già visto. Dopo aver fatto i conti con la dialettica hegeliana, dopo essersi liberato della vecchia conoscenza filosofica, dopo aver esperimentato le prime forme utopistiche di rivolta morale contro il sistema, si trattava di operare una rottura radicale con tutto il vecchio modo di pensare. Questo si poteva fare soltanto a condizione di cogliere il vizio fondamentale, il carattere specifico, il tratto comune del pensiero allora dominante, attraverso un’analisi rigorosa che fosse al tempo stesso una critica distruttiva. Nel ’44 il programma era di dare, in diversi opuscoli separati, la critica del diritto, della morale, della politica ecc., per tentare infine di ritrovare la connessione dell’insieme, il rapporto organico delle singole parti, attraverso una critica unitaria e complessiva del comune contenuto speculativo. È a questo punto che si colloca l’incontro con l’economia politica. E questo incontro naturale e necessario modifica l’intero programma, sposta il centro essenziale dell’interesse, diventa esso il perno unitario e complessivo a cui tutto il resto – in ultima istanza – va riferito, per essere compreso. Troviamo quindi Marx, a Parigi, che studia con passione e annota e analizza con diligenza il periodo classico dell’economia politica; scopre – direi – l’esistenza di questa nuova scienza e subito se ne entusiasma, perché la scopre già come scienza borghese per eccellenza, come «testimonianza e sussistenza scientifica» degli empirici rapporti economici, esistenti nel presente. Qui la critica dell’economia politica tiene d’occhio ancora e soltanto questi empirici rapporti: ma già questo – anzi proprio questo – è sufficiente per scoprire e mettere a nudo la concordia discors che esiste tra teoria e pratica borghese, il modo rovesciato, mistificato, in cui l’economista teorico testimonia la sussistenza pratica del rapporto economico.


Nei quaderni di excerpta del ’44, il commento più diffuso e più interessante di Marx riguarda l’opera di James Mill (1773-1836). James Mill, insieme a Mac Culloch e – secondo Schumpeter – insieme a West e De Quincey, rappresenta il nucleo centrale della scuola di Ricardo, i ricardiani cosiddetti «ortodossi». Autore della Analysis of the Phenomena Of The Human Mind (1829), esponente ufficiale della teoria benthamiana dello Stato, autore della monumentale History of British India (1817), che raggiunse, postuma, i dieci volumi, J. Mill va ricordato qui per le sue due opere di economia: Commerce Defended (1808) e Elements of Political Economy (1821, I ediz.)[1]. In Commerce Defended, viene sviluppata organicamente e per la prima volta – secondo Dobb – quella legge degli sbocchi che viene di solito attribuita a J.B. Say e che comunque ricorre in molti scritti della scuola ricardiana[2]. I Princípi di economia politica costituiscono a loro volta «un modello che doveva servire di esempio a molte trattazioni posteriori e che costituì il prototipo del trattato di economia»[3]. Venne considerato in Inghilterra il «Manuale degli economisti». Mill dice nella Prefazione: «Il mio scopo è stato quello di comporre un libro elementare di Economia politica, separare i princípi essenziali della scienza da tutto ciò che è estraneo a essa, stabilire le proposizioni chiaramente e nel loro ordine logico, aggiungendo a ciascuna la sua dimostrazione... Io non posso temere taccia di plagiario, giacché dichiaro di non aver fatto alcuna scoperta». E infatti «quest’opera – dice Mac Culloch – riassume la dottrina di Smith intorno alla produzione, di Ricardo intorno alla distribuzione, di Malthus intorno alla popolazione...»[4]. Marx parla di J. Mill nelle Teorie sul mezzo di circolazione e sul denaro, a proposito della sua teoria monetaria[5]. Ma le più penetranti osservazioni di metodo – che sono quelle che qui ci interessano – Marx le espone nelle Teorie sul plusvalore[6]. «Mill da un lato vuole rappresentare la produzione borghese come la forma assoluta della produzione, e quindi cerca di dimostrare che le sue contraddizioni reali sono soltanto apparenti. Dall’altro cerca di rappresentare la teoria ricardiana come la forma teoretica assoluta di questo modo di produzione e di dimostrare l’inesistenza delle contraddizioni teoretiche messe in evidenza da altri o impostesi da se stesse». Il libro di J. Mill dà quindi a Marx la possibilità di entrare subito nel merito dei più grossi problemi del momento: il rapporto merce-denaro; il denaro come intermediario dello scambio; il problema complesso – più complesso evidentemente di quanto non appaia qui, dove viene preso nei suoi termini generalmente umani, come «giudizio dell’economia sulla moralità di un uomo» –, il problema, dicevamo del credito, della Banca, del capitale finanziario; il senso pratico dei concetti di alienazione e di reificazione; il senso teorico della proprietà privata e del lavoro; la pura e semplice apparenza del rapporto sociale umano dentro la realtà del rapporto capitalistico di produzione e di scambio. Questi sono i principali temi di questo scritto del ’44: ed è la problematica dei Manoscritti economico-filosofici, di cui ritroviamo qui la stessa terminologia, la stessa passione teorica e pratica insieme, lo stesso oggetto polemico, che è la realtà pratica della società borghese moderna, vista attraverso lo specchio deformante dell’economia politica teorica.

L’ulteriore cammino di Marx non è che l’ulteriore approfondimento di questi temi e insieme la collocazione di essi in un contesto specifico di ricerca e di analisi che sempre più assume il passo, e cioè il metodo, dell’analisi e della ricerca scientifica. Gli scritti qui pubblicati ci permettono di cogliere Marx nel suo genuino metodo di lavoro. E ci introducono alla lettura delle sue opere maggiori. Come questi scritti del ’44 ci riaprono davanti i Manoscritti economico-filosofici, così l’Urtext ci fa entrare nel processo stesso di composizione di Per la critica dell’economia politica.


Abbiamo già detto che dei tre quaderni in cui si trovava questo Urtext, è giunta a noi solo la conclusione del manoscritto, i quaderni B’ e B’’. Manca tutto il primo capitolo, sulla merce; manca la prima parte del secondo capitolo, sul denaro; diversa è la disposizione dei paragrafi rispetto al testo compiuto. In più c’è, alla fine del secondo capitolo, una prima esposizione del passaggio al capitale e l’inizio di quello che doveva essere il terzo capitolo, sul capitale, rimasto interrotto nel mezzo del processo di trasformazione del denaro in capitale. I Grundrisse documentano che questi ultimi passaggi erano stati elaborati da Marx tra il novembre del ’57 e il giugno del ’58, nei quaderni privati di questo periodo. Possiamo dire perciò che questa parte dell’Urtext è la prima esposizione, che abbiamo, del processo di trasformazione del denaro in capitale, – di quella parte cioè che formerà poi la seconda sezione del primo libro del Capitale. L’ultima parte è quindi di gran lunga la più importante. Ma sarebbe sbagliato tralasciare la prima parte da cui tutto il resto discende logicamente. Anzi sarebbe opportuno integrarla con il primo capitolo di Per la critica..., o con i due primi capitoli della prima sezione del Capitale, o anche, in parte, con la Forma di valore. Le definizioni del denaro come rappresentante materiale della ricchezza generale, come unico nexus rerum tra gli uomini, come proprietà «impersonale», come merce universale, si iscrivono tra le migliori trattazioni marxiane di questa materia. Inutile ricordare l’importanza teorica e pratica che Marx dava a questa ricerca. Un solo esempio: lettera a Weydemeyer, 1° febbraio 1859, quando parla della prossima uscita di Per la critica...: «In questi due capitoli viene contemporaneamente scalzato dalle fondamenta il socialismo proudhoniano, ora fashionable in Francia, il quale vuole conservare la produzione privata, ma vuole organizzare lo scambio dei prodotti privati, vuole la merce, ma non il denaro. Il comunismo deve prima di tutto sbarazzarsi di questo “falso fratello”. Ma, a prescindere da ogni fine polemico, tu sai che l’analisi delle forme semplici del denaro è la parte più difficile, perché più astratta, dell’economia politica»[7].

Attraverso tutta la serie delle sue determinazioni il denaro può presentarsi infine proprio come denaro: ma è qui che rivela il suo limite oggettivo. La circolazione semplice del denaro non ha in sé il principio dell’autoriproduzione e perciò accenna al di là di se stessa. Nel denaro – come lo dimostra lo sviluppo delle sue determinazioni – c’è il capitale. Ecco perché è importante seguire lo sviluppo delle determinazioni del denaro: è importante per arrivare al capitale. Per la critica dell’economia politica senza il Capitale non si regge. La prima sezione del Capitale, su merce e denaro, è solo la premessa della seconda sezione, sulla trasformazione del denaro in capitale. È la premessa necessaria, non solo teorica, ma storica. Quando Marx dice: nel denaro c’è il capitale, aggiunge subito: «Questo trapasso è nello stesso tempo storico. La forma antidiluviana del capitale è il capitale mercantile, che sviluppa sempre denaro»[8]. Ma non è tutto qui. Anzi la cosa più importante non è qui, nel fatto che nel denaro c’è il capitale, ma nel fatto apparentemente opposto, che bisogna partire dal capitale per arrivare al denaro; bisogna aver capito teoricamente la categoria storica del capitale per arrivare a sciogliere «l’enigma del denaro»; e bisogna aver sciolto questo enigma del denaro per arrivare a scoprire tutta la «mistica oscura» della merce; e – vogliamo arrischiare ancora di più – bisogna aver messo a nudo questa mistica oscura della merce per arrivare a svelare tutta la magia borghese che avvolge l’oggetto, le cose, il mondo materiale dei prodotti umani, dinanzi agli occhi disumani dell’uomo stesso. Lo sviluppo logico ci dà prima il capitale e dopo il capitale il denaro, dopo il denaro la merce, dopo la merce il prodotto puro e semplice, cioè l’oggetto. Lo sviluppo storico invece parte dall’oggetto e poi l’oggetto diventa merce, la merce diventa denaro, il denaro diventa capitale. «Sarebbe dunque inopportuno ed erroneo disporre le categorie economiche nell’ordine in cui esse furono storicamente determinanti. La loro successione invece è determinata dalla relazione in cui esse si trovano l’una con l’altra nella moderna società borghese, e questo ordine è esattamente l’inverso di quello che sembra essere il loro ordine naturale o di ciò che corrisponde alla successione dello sviluppo storico. Non si tratta del posto che i rapporti economici occupano storicamente nel succedersi delle diverse forme di società e ancora meno della loro successione “nell’Idea” (Proudhon), che non è che una rappresentazione nebulosa del movimento storico, ma della loro connessione organica all’interno della moderna società borghese»[9]. Quando Marx pubblica i due capitoli su merce e denaro in Per la critica dell’economia politica, aveva già elaborato anche il terzo capitolo sul capitale: era proprio questo che volevamo dimostrare.


Così la Forma di valore viene logicamente dopo. E la difficoltà della sua comprensione è data proprio dal fatto che nasce storicamente prima. La sua natura è la più semplice e la più astratta; ma assume il massimo di semplicità e di astrazione logica solo al livello storico del capitale. «La forma di valore, della quale la forma di denaro è la figura perfetta, è poverissima di contenuto e semplicissima. Tuttavia, invano l’umanità da più di duemila anni ha cercato di scandagliarla a fondo, mentre d’altra parte l’analisi di forme molto più ricche di contenuto e molto più complicate è riuscita per lo meno approssimativamente. Perché? Perché il corpo già formato è più facile da studiare che la cellula del corpo. Inoltre, all’analisi delle forme economiche non possono servire né il microscopio né i reagenti chimici: l’uno e gli altri debbono essere sostituiti dalla forza d’astrazione. Ma per quanto riguarda la società borghese, la forma di merce del prodotto del lavoro, ossia la forma di valore della merce, è proprio la forma economica corrispondente alla forma di cellula. Alla persona incolta, l’analisi di tale forma sembra aggirarsi fra pure e semplici sottigliezze: e di fatto si tratta di sottigliezze, soltanto che si tratta di sottigliezze come quelle dell’anatomia microscopica»[10]. Si potrebbe ripetere per la forma di valore lo stesso discorso che Marx fa per il lavoro: che sembra una categoria del tutto semplice e molto antica; e tuttavia è una categoria tanto moderna quanto lo sono i rapporti che producono questa semplice astrazione. Perché «le astrazioni più generali sorgono solo dove si dà il più ricco sviluppo del concreto... Così l’astrazione più semplice che l’economia moderna pone al vertice e che esprime una relazione antichissima e valida per tutte le forme di società, appare tuttavia praticamente vera in questa astrazione solo come categoria della società più moderna»[11]. Di qui l’errore di considerare eterne le categorie storicamente determinate della società borghese; l’errore di vederle come punto di arrivo di tutta l’evoluzione del genere umano. L’economia politica al suo nascere ha creduto di partire dal concreto, dall’insieme vivente, dalla popolazione, la nazione, lo Stato; ma ha finito col trovare per via d’analisi alcune relazioni generali astratte: la divisione del lavoro, il denaro, il valore. Soltanto a questo punto cominciò il cammino inverso, che dava la possibilità di salire dal semplice al complesso, che è il metodo scientificamente corretto. Mi sembra inutile riesporre qui sia la critica di fondo che Marx fa al procedimento dell’economia politica, sia la costruzione positiva del suo metodo. Finirei per ripetere male ciò che è stato detto molto bene in altri luoghi: rimando senz’altro a quelli che mi sembra si iscrivano tutti in un medesimo orizzonte di pensiero e che danno nell’insieme una visione organica della cosa[12].


Il cammino attraverso gli scritti qui pubblicati ci trascina ora oltre l’economia politica classica e ci lascia in mezzo alla classica confusione della Vulgarökonomie. Marx ha avuto ben chiaro il senso di questo passaggio. E lo ha espresso molto chiaramente. L’economia classica si sforza di ricondurre, mediante l’analisi, le differenti forme della ricchezza, estranee l’una all’altra, alla loro unità intrinseca. Vuole comprendere questa connessione intrinseca, liberandola dalla molteplicità delle forme fenomeniche. Così essa ha ridotto all’unica forma del profitto tutte le forme del reddito; e ha reso possibile così la risoluzione del profitto in plusvalore, la risoluzione del lavoro pagato in salario, del lavoro non pagato in pluslavoro; la sussunzione di tutto questo movimento sotto la categoria del capitale. Il difetto dell’economia classica è stato quello di «risolvere la forma fondamentale del capitale, la produzione rivolta all’appropriazione di lavoro altrui, non come forma storica, ma come forma naturale della produzione sociale». Tuttavia, l’economia politica è andata di pari passo con lo sviluppo reale degli antagonismi sociali, con l’evoluzione delle lotte di classe implicite nella produzione capitalistica. Ma quanto più essa giunge a compimento, quanto più penetra in profondità e si sviluppa come un sistema delle antitesi, tanto più si libera all’interno di essa e si rende autonomo da essa il suo elemento volgare, – l’elemento cioè che «rappresenta la semplice riproduzione del fenomeno», la sua immediata forma di manifestazione, che in questo caso serve soltanto a nascondere l’intima contraddizione, la reale antitesi interna. Così «l’economia volgare diventa coscientemente sempre più apologetica e cerca di eliminare forzatamente a chiacchiere i pensieri in cui sono espresse queste antitesi». La sua migliore espressione diventa «una compilazione dottamente sincretistica e classica senza carattere». E allora anche l’apologetica perde il suo calore, la sua passione, diventa pura e semplice erudizione, pacifica compilazione. L’ultima forma dell’economia volgare è «la forma professorale, che procede “storicamente” e, con saggia moderazione, raccoglie qua e là il meglio, senza badare alle contraddizioni, ma solo badando alla compiutezza»[13]. Da James Mill siamo arrivati ad Adolph Wagner.


Adolph Wagner (1835-1917), Kathedersozialist, fondatore del partito cristiano-sociale, membro del Verein für Sozialpolitik, fautore della politica sociale bismarckiana, era uno dei leaders accademici più rumorosi del suo tempo. Ha a suo credito un notevole lavoro sulla moneta: Sozialökonomische Theorie des Geldes (1909) e una vasta opera sulla finanza pubblica: Finanzwissenschaft (4 voll. 1877-1901). Ed è «su questi risultati – dice Schumpeter – che dobbiamo aspettarci di veder consolidare la sua reputazione storica». Come economista analitico si ritenne un «teorico» e si oppose quindi alla scuola storica. «Soleva affermare che Rodbertus e Schäffle erano i due economisti dai quali aveva imparato di più e sempre mostrò un interesse critico per Ricardo che rimase per lui il teorico. Del lavoro della sua epoca non assimilò che i significati superficiali... Sempre eccettuando il campo della moneta, la sua originalità o addirittura la sua competenza in economia analitica non possono considerarsi elevate... Delle sue voluminose opere che sono, in misura quasi intollerabile, affette da rabies systematica, soltanto i suoi Princípi (Grundlegung der politischen Oekonomie, I ed., 1876), sostituiti dalla sua impresa cooperativa, il Manuale (Lehrund Handbuch der politischen Oekonomie), devono essere qui menzionati»[14].

Marx ha estratto e criticato dalla seconda edizione di questo testo gli accenni al Capitale, che si trovano tutti nel primo capitolo di Grundbegriffe, in particolare nel paragrafo sul valore. Ne sono venute fuori quelle Glosse a Wagner, che sono tuttora un lavoro quasi ignorato nella letteratura marxista e su cui ha il merito di aver attirato l’attenzione – credo per la prima volta – lo Sweezy nella sua Teoria dello sviluppo capitalistico[15].


L’ultimo lavoro economico di Marx si scontra dunque con l’ultima forma – la forma professorale – dell’economia volgare. Il Manuale di A. Wagner sembra scritto apposta per servire da esempio di questa forma. Si può dire di esso quello che Marx diceva dell’economia volgare in generale. «Poiché lavori di questo genere appaiono solo quando l’economia politica, come scienza, è morta, essi sono nello stesso tempo la tomba di questa scienza»[16].

Marx ha percorso così tutto il cammino dell’economia politica. L’ha presa dal suo folgorante inizio e l’ha seguita fino alla sua lenta morte. In questo senso ha potuto mettere in testa alle sue maggiori opere il titolo: Critica dell’economia politica. E cioè critica delle categorie economiche borghesi, ovvero «il sistema dell’economia borghese esposto criticamente». Nel metodo classico di Marx: «In pari tempo esposizione del sistema e critica di esso per mezzo dell’esposizione»[17]. Bisogna capire che è intorno a questo cammino che si struttura tutto il pensiero di Marx. Per evitare di separare, di scindere l’unità scientifica di questo pensiero. Ma questo si può fare soltanto a condizione di ritrovare nelle categorie dell’economia politica il sistema dell’economia borghese, e nel sistema dell’economia borghese la storia stessa della società borghese. Critica dell’economia politica vuol dire per Marx critica del capitalismo. Con lo stesso metodo: storia del sistema e critica di esso per mezzo della sua storia. È così che nel cammino teorico dell’economia politica noi vediamo muoversi tutto il cammino storico della società capitalistica.


La scoperta di Marx è proprio nella ricerca del carattere specifico che assume questa parte della storia umana, nella ricerca dei tratti determinati che la isolano e la fanno apparire come bersaglio unico su cui e contro cui va organizzata nello stesso tempo la ricerca teorica e la lotta pratica, l’una sempre intrecciata all’altra, l’una sempre in funzione dell’altra. Il richiamo alla biografia stessa di Marx aveva il valore di documentare questa tesi.

Tutte le categorie economiche portano le tracce della loro storia. «Nell’esistenza del prodotto come merce sono racchiuse determinate condizioni storiche». Per divenire merce, il prodotto non deve essere prodotto come mezzo immediato di sussistenza per colui che lo produce. Cioè la rappresentazione del prodotto come merce esige una divisione del lavoro dentro la società, sviluppata fino al punto che sia già compiuta la separazione fra valore d’uso e valore di scambio. Ma tale grado di sviluppo è comune a formazioni economico-sociali storicamente molto diverse l’una dell’altra. Così è per il denaro: esso presuppone un certo livello dello scambio delle merci. Le forme particolari del denaro – equivalente puro e semplice della merce, mezzo di circolazione, mezzo di pagamento, denaro tesaurizzato, moneta universale – indicano di volta in volta gradi molto diversi del processo sociale di produzione. Eppure una circolazione delle merci relativamente poco sviluppata è sufficiente per la produzione di tutte queste forme. «Ma per il capitale la cosa è differente. Le sue condizioni storiche d’esistenza non sono affatto date di per se stesse con la circolazione delle merci e del denaro. Esso nasce soltanto dove il possessore di mezzi di produzione e di sussistenza trova sul mercato il libero lavoratore come venditore della sua forza-lavoro e questa sola condizione storica comprende tutta una storia universale. Quindi il capitale annuncia fin da principio un’epoca del processo sociale di produzione»[18].


Quest’epoca del processo sociale di produzione è appunto la formazione economico-sociale capitalistica. Questa formazione economico-sociale ha evidentemente una sua storia interna, che non finisce, ma comincia con la nascita del capitale. La storia del capitalismo non è che la storia delle successive determinazioni del capitale: determinazioni storiche di un medesimo soggetto: e il soggetto è il capitale. Una volta che si è arrivati a distinguere le varie fasi di passaggio del capitalismo, una volta che si è arrivati a coglierle nella loro differenza specifica, a isolarle nella loro determinatezza storica, occorre fare il cammino inverso: ritrovare l’unità del movimento, riallacciare il filo della continuità, riscoprire il carattere comune che lega insieme queste varie parti e le colloca tutte in una medesima epoca del processo sociale di produzione, tutte dentro una determinata formazione economico-sociale. Continuità all’interno e rottura all’esterno: questo è il processo di sviluppo e di dissoluzione della formazione economico-sociale capitalistica.

Non tenere fermo questo punto, vuol dire cadere in un duplice errore. Il primo è l’errore di chi vede una cesura storica, una frattura irreparabile tra almeno due parti, due fasi del capitalismo stesso, che distinguerebbero appunto due epoche della società. Di qui il rimpianto, la nostalgia di quella che fu l’epoca d’oro del capitale e la sterile velleità di una sua restaurazione. Di qui la critica alla seconda fase del capitalismo in nome della prima: che è critica reazionaria, critica romantica, peggiore di quella del passato, perché ripetizione fuori tempo di quella del passato, – romanticismo di ritorno. Un tratto specifico della società capitalistica è proprio questo: che tali sono i rivolgimenti che si verificano al suo interno, tanta la rapidità con cui si realizzano, che danno spesso l’illusione di una radicale frattura storica, che venga a cambiare non solo il modo di esistenza, ma l’essenza stessa, o – come si dice oggi – la natura del capitalismo. Il discorso allora è sempre lo stesso: si vogliono le premesse, ma non si accettano le conseguenze. Prima si voleva la merce senza il denaro; poi si voleva il denaro senza il capitale; adesso si vuole il capitale senza lo sviluppo capitalistico. Mentre il punto è proprio quell’altro: che la libera concorrenza va vista proprio come premessa storica del monopolio; perché l’ipotesi astratta di una libera chance per tutti non poteva che concentrarsi nel privilegio economico di pochi, dei pochi possessori del capitale. Ecco perché Marx dice: la libera concorrenza è il monopolio. E l’altro punto è questo: che la civiltà dell’individuo liberale è proprio la premessa storica della civiltà democratica di massa; perché l’ipotesi dell’individuo astratto non poteva che rovesciarsi nel culto della massa empirica indistinta. Molti di coloro che oggi discettano sull’alienazione dovrebbero ricordare che quello che essi sperimentano oggi sulla loro produzione intellettuale, l’operaio moderno lo ha sperimentato sulla sua produzione materiale da quando esiste il capitale e insieme al capitale la classe dei capitalisti.


Ma dicevamo che c’è un secondo errore: quello di chi cerca di prolungare la continuità che è presente nello sviluppo storico della società capitalistica, oltre i confini di questa società; dando quindi a quella continuità un carattere eterno e definitivo, astratto e non storicamente determinato. Anche l’idea della società socialista viene fatta coincidere con l’ultima e più moderna forma di esistenza che è capace di assumere la società capitalistica. Di qui la critica al capitalismo solo dall’interno del capitalismo: che è critica menscevica, critica riformista, peggiore anch’essa di quella del passato, perché è un riformismo nemmeno più conquistato, ma concesso; riformismo non più del movimento operaio, ma del capitalismo stesso. Un altro tratto specifico del capitalismo è proprio il senso di eternità che riesce a dare alla sua storia: da una parte ci sono continui rivolgimenti che intervengono all’interno del modo di produzione capitalistico, d’altra parte proprio perché questi continui rivolgimenti non riescono a intaccare la natura del capitalismo, nasce l’illusione che questa sia la natura di ogni società umana e che quindi il problema sia solo quello di riformare, rammodernare, e magari razionalizzare questa forma naturale eterna di società. Il socialismo finisce per essere così solo una variante, e più precisamente la variante ultima del capitalismo: il passaggio dall’uno all’altro, se implica un rivolgimento, implica uno di quei rivolgimenti che avvengono normalmente all’interno del capitalismo e che mutano ora alcune forme tecniche della produzione, ora alcune forme politiche del potere. È così che sparisce dall’orizzonte, o meglio viene recuperato e dissolto dentro l’orizzonte borghese, il concetto stesso di rivoluzione: che per il movimento operaio è un concetto specifico, non generico; una realtà che consiste di determinatezza storica, perché è già in sé un concetto scientifico e non una figura retorica. Rivoluzione: cioè necessità di una frattura, di una rottura che coinvolga complessivamente la totalità della società: le forme economiche insieme a quelle politiche, le forme sociali insieme a quelle statali.

È più che chiaro quindi a questo punto il perché noi non partiamo da concetti. Il punto di partenza non può che essere la realtà storicamente determinata della formazione economico-sociale capitalistica. Per il marxista, l’oggetto dell’analisi è il capitalismo. Ma il concetto del capitalismo si presenta al tempo stesso come realtà storica concreta della società capitalistica. L’oggetto da studiare è nello stesso tempo la realtà che si deve combattere. Di qui, da questa contraddizione positiva, il dramma felice del teorico marxista, che si trova a voler distruggere l’oggetto del proprio studio; anzi, a studiare l’oggetto esattamente per distruggerlo: l’oggetto della propria analisi è il proprio nemico. E questo è il carattere storicamente specifico della teoria marxista: la sua obiettività tendenziosa. Che è poi nient’altro che la situazione materiale dell’operaio, che si trova a dover combattere contro quello che egli stesso produce, e vuole eliminare le condizioni stesse del proprio lavoro, e spezzare il rapporto sociale della sua propria produzione. Il punto, cioè, della massima consapevolezza antagonistica, che basta, da solo, a racchiudere nell’operaio rivoluzionario moderno la condizione umana più alta di tutto il presente. È per questa via che il teorico marxista deve tendere sempre più a identificarsi con l’esistenza storica dell’operaio collettivo: fino al punto di sentirsi come parte organica, momento necessario, della lotta di classe operaia; al punto da concepire la propria costruzione teorica già come distruzione pratica, e il proprio pensiero come articolazione materiale del processo rivoluzionario. È vero che la teoria ha la forza di ricomprendere in sé il momento della pratica: ma è anche vero che non riesce mai completamente in questo compito. È vero che bisogna tendere ogni giorno a esaurire dentro il pensiero la conoscenza dei rapporti sociali materiali, ma sapendo in anticipo, con certezza, che non si potrà riuscire. Il primato materialista della prassi non ha che questo solo senso. Se già la teoria – per suo conto e come fatto specifico – deve avere in corpo il momento dell’analisi e quello della sintesi, induzione e deduzione, materia e ragione, – a sua volta poi tutta la teoria deve essere considerata solo come atto sintetico rispetto al momento analitico della pratica rivoluzionaria. Proprio perché la teoria si presenta già come «teoria della pratica», può essere ricompresa poi – correttamente – tutta quanta dentro la pratica. Il metodo di salire, dentro la teoria, dall’astratto al concreto, è quello stesso che ci porta poi a risalire dal concreto parziale della teoria al concreto globale della pratica. La via stessa che porta l’operaio a salire dalla sua condizione operaia alla propria organizzazione di classe, dal regime di fabbrica al sistema della produzione, dalla necessità di essere parte del capitale alla possibilità di farlo saltare, proprio per questo, dal suo interno. E questo è il carattere storicamente specifico della rivoluzione operaia: un atto di volontà obiettivo. Se la critica dell’economia politica rientra tutta dentro l’analisi del capitalismo, la critica del capitalismo rientra poi tutta dentro la lotta di classe operaia. Anzi, la lotta di classe operaia è la critica decisiva del capitalismo, perché scopre teoricamente il segreto del capitale e materialmente lo colpisce. Non a caso, abbiamo messo qui, dopo la critica dell’economia politica, l’Enquête ouvrière.


Note [1] J.A. Schumpeter, Storia dell’analisi economica, II, Einaudi, Torino 1959, p. 579. [2] M. Dobb, Economia politica e capitalismo, Einaudi, Torino 1950, p. 49. [3] E. Roll, Storia del pensiero economico, Einaudi, Torino 1954, p. 49. [4] Biblioteca dell’economista. Prima serie. Trattati complessivi. Vol. V (Lauderdale, Malthus, Senior, Giac. Mill, Bentham, J.B. Say), Pomba, Torino 1854. Qui Giacomo Mill, Elementi di economia politica, pp. 703-823. Il brano della sua Prefazione è a p. 705. Mentre il brano di Mac Culloch è citato nell’Introduzione a tutto il volume, p. XLV. [5] K. Marx, Per la critica dell’economia politica, Editori Riuniti, Roma 1957, pp. 161-164. [6] K. Marx, Storia delle teorie economiche, II, Da Ricardo all’economia volgare, Einaudi, Torino 1958, pp. 94-166. [7] Marx a Weydemeyer, 1° febbraio 1859, in Briefe über «Das Kapital», cit., p. 96. [8] Marx a Engels, 2 aprile 1858, Carteggio, IV. [9] Introduzione alla critica dell’economia politica (1857), Rinascita, Roma 1954, p. 49. [10] Il Capitale, I, 1, Rinascita, Roma 1955, Prefazione, pp. 15-16. [11] Introduzione alla critica dell’economia politica (1857), cit., pp. 43-44. [12] G. Della Volpe, Per una metodologia materialistica dell’economia e delle discipline morali in genere, in Rousseau e Marx, Editori Riuniti, Roma 1962, pp. 99-141 e ancora Logica come scienza positiva, D’Anna, Messina-Firenze 1956, soprattutto il quarto capitolo da p. 185 in poi. G. Pietranera, Marx e la storia delle dottrine economiche, «Società», febbraio 1955 e soprattutto La struttura logica del «Capitale», «Società», n. 3 e n. 4, 1956; v. anche Capitalismo ed economia, Einaudi, Torino 1961, soprattutto la Parte quarta. L. Colletti, Il marxismo e Hegel, Introduzione ai Quaderni filosofici di Lenin, Feltrinelli, Milano 1958, specialmente pp. CXXVII-CXLIV, e ora, sempre di Colletti, la Prefazione (pp. LIX) a E.V. Il’enkov, La dialettica dell’astratto e del concreto nel Capitale di Marx, Feltrinelli, Milano 1961. [13] K. Marx, Storia delle teorie economiche, III, cit., pp. 517-519. [14] J.A. Schumpeter, Storia dell’analisi, III, Einaudi, Torino 1960, p. 1046. [15] P.M. Sweezy, La teoria dello sviluppo capitalistico, Einaudi, Torino 1951, pp. 50-51. [16] K. Marx, Storia delle teorie economiche, III, cit., p. 520. [17] Marx a Lassalle, 22 febbraio 1858, Briefe über «Das Kapital», p. 80. [18] Il Capitale, I, 1, cit., p. 187.

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