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Intellettuali, luoghi comuni e senso comune di fronte alla pandemia



È impensabile, anche se potrebbe forse rivelarsi un modo efficace di affrontare l’attuale trauma collettivo, che si decida in futuro di riformare il significato delle sigle a.C. e d.C., sostituendo Cristo con il Coronavirus. Non è plausibile che si istituisca un gap nel calendario mondiale saltando direttamente dal 2019 al 2021 come accade in alcune parti del mondo negli ascensori per evitare il 13° piano, anche se non è improbabile che, per un po’ di tempo, il 20 diventi un numero sfortunato (20-20). È possibile, tuttavia, che 8 miliardi di esseri umani – o quelli che ne rimarranno – intrappolati nell’esperimento senza precedenti di un blocco globale siano costretti a formarsi una nuova idea del collettivo e del politico. Ciò richiederà un ripensamento della funzione e del posizionamento della parola intellettuale e del ruolo degli intellettuali, così come dell’idea stessa di pensiero, in bilico tra il facile ricorso ai luoghi comuni e l’instaurarsi di quello che potrebbe essere un nuovo senso comune da combattere. È probabile, infine, che l’accusa generica al capitalismo e al neoliberalismo, sempre ben vista dal progressismo di sinistra, non sia più sufficiente per affrontare le trasformazioni che l’attuale pandemia si lascerà alle spalle. In ogni caso, sarà necessario analizzare quali tipi di capitalismo e neoliberalismo emergeranno nel nuovo scenario.

Pandemia di posizionamenti

All’inizio di tutta questa storia abbondavano le posizioni catastrofiste e profetiche degli intellettuali. I casi più noti sono stati quelli di Slavoj Žižek e Giorgio Agamben, ricorsi all’atto quasi riflesso di «denunciare» la situazione, cercando a tutti i costi di soffocare la novità dell’evento sotto il mantello delle proprie teorie e previsioni. Posizioni secondo le quali nulla cambia e tutto conferma quanto già si pensava sono frequenti tanto quanto posizioni che individuano novità assolute in ogni minima trasformazione. Ma affermazioni come quella che il capitalismo sta finendo, che il virus è stato un’invenzione per installare uno Stato di eccezione nazionale e mondiale, e che chiunque tenga una lezione virtuale in università andrebbe accusato di un crimine contro l’umanità, rischiano davvero di svalutare il senso della funzione di «sentinella» svolta dagli intellettuali. Se uno dei compiti del pensiero è certamente quello di opporsi al senso comune, tale compito non dovrebbe veicolare affermazioni così assurde da diventare incomprensibili al di fuori della cerchia dei già illuminati.

Man mano che la pandemia continuava il suo corso, sono emerse nuove interpretazioni e posizioni meno massimaliste che sfruttavano alcuni luoghi comuni. Autori di fama come Byung Chul-Han, Markus Gabriel o Yuval Harari hanno lanciato proposte che vanno dal «nuovo Illuminismo» al rifiuto del confinamento in quanto tecnica tipica del Medioevo, passando per speculazioni sulle differenze culturali tra Oriente e Occidente fino a teorizzare l’accettazione di misure estreme di controllo della popolazione. Soffermiamoci innanzitutto sulla posizione di Han. Han afferma che gli orientali, basandosi sull’uso intensivo dei big data, sostenuto dal collettivismo quale forma sociale dominante, hanno saputo attaccare chirurgicamente le fonti del contagio grazie a un controllo sociale ferreo e incontrastato. Gli europei, invece, individualisti e incapaci di accettare una sorveglianza così pervasiva dello Stato attraverso dati, algoritmi e piattaforme, sono stati costretti a impiegare una tecnologia obsoleta e generalista come la quarantena. Insomma, se Agamben e Žižek si sono allontanati troppo dal senso comune, si può dire che intellettuali come Han vi si sono avvicinati troppo. Il senso comune è in questo caso quello dell’orientalismo, analizzato molti anni fa dal grande intellettuale palestinese Edward Said, ovvero l’indulgere in un’immagine tipica dell’Oriente forgiata per il consumo degli occidentali.

Si dimentica che c’è stato un caso Snowden, un altro caso chiamato Cambridge Analytica, che ci sono stati scandali politici e giudiziari di ogni tipo, che Mark Zuckerberg è apparso davanti al senato degli Stati uniti ed è stato multato, che Trump e Bolsonaro devono i loro trionfi elettorali, in parte, a campagne di fake news basate su big data. Si dimentica che gli occidentali individualisti sono controllati quanto gli orientali collettivisti. Lo sanno e se ne lamentano, ma in fondo lo accettano come fa chiunque accetti i «termini e condizioni» necessari per accedere ai propri dati in cambio di un servizio su una qualunque piattaforma digitale. Se lo Stato di eccezione sanitario spaventa quanto la sorveglianza generalizzata, non è difficile immaginare il successo di un’eventuale applicazione digitale che richiedesse dati molto intimi per offrire in cambio una cura definitiva per il Coronavirus. In definitiva, la sorveglianza attraverso i dati non ha nulla a che fare con i tratti culturali, ma con una tendenza globale che non ha certo atteso la pandemia per affermarsi.

Un altro luogo comune, condiviso da svariati gruppi politici in tutto il mondo e non proprio di sinistra, fa riferimento alla natura non necessaria della quarantena come tecnica anti-contagio. «Affinché tale misura sia efficace, dovremmo tornare all’età della pietra», afferma Yuval Harari. Tuttavia, la verità è che di fronte a questa pandemia siamo davvero un po’ ripiombati nel Medioevo, al tempo della conquista delle Americhe o nel secolo di Pericle. Il coronavirus è estremamente contagioso, al momento non esistono cure o vaccini efficaci, non esiste un sistema sanitario che riesca a prendersi cura di un numero troppo alto di contagiati come accadrebbe se si puntasse sull’immunità di gregge che qualche importante statista ha pure evocato. Se il contagio non può essere controllato, allora l’unico modo per limitare la circolazione del virus, oggi come ieri – quando nemmeno si sapeva che cosa fosse un virus – consiste nel limitare la circolazione degli esseri umani che lo veicolano. In questo senso, si assume vi sia un progresso nel controllare lo spazio al fine di generare del tempo: il tempo necessario affinché si realizzi l’altro progresso, che consiste nella scoperta di nuove cure o vaccini.

Tale pandemia di interpretazioni è proseguita – pensiamo alla diffusione crescente del negazionismo, anche questo supportato da intellettuali più o meno famosi – mentre nel frattempo l’emisfero settentrionale ha raggiunto l’estate e l’emisfero meridionale il temuto inverno. Anche in America latina, dove è stato scritto questo articolo, sono proliferate le opinioni degli intellettuali, ma il denominatore comune (non luogo comune, non buon senso) nei media e sui social (il luogo dell’altra pandemia, l’infodemia) è stato un certo fastidio per il tono urbi et orbi delle riflessioni originate soprattutto nel contesto europeo. Anziché pontificare su di un tipo di trasformazione valido per qualsiasi paese, territorio o cultura, invece di assumersi il ruolo di parlare a nome dell’intera umanità, molte posizioni hanno sottolineato esclusivamente le conseguenze locali di questo evento. Il tema principale è stata la disuguaglianza: disuguaglianza di risorse sanitarie per affrontare la pandemia, di risorse economiche per sostenere «pacchetti di aiuti», di risorse sociali nei paesi in cui predomina un’economia informale devastata dal lockdown e in cui l’abbandono scolastico si moltiplica a causa della scarsità di mezzi digitali di connessione.

È pur vero che la distanza temporale è servita a placare la sete di profezie. Le settimane impiegate dal coronavirus ad atterrare – letteralmente, visto che giungeva su aerei provenienti dall’emisfero settentrionale – in America latina sono servite a verificare che la quarantena potesse prevenire i decessi, che una tale misura non equivalesse a uno stato di eccezione permanente e che il capitalismo continuasse a funzionare. Così, a maggior ragione, mentre al nord stanno per iniziare con grande incertezza l’autunno e il nuovo anno lavorativo e accademico, al sud si avvicina la primavera e i rigidi controlli lasciano il posto a una vita sempre più normale in cui i tassi di contagio, le curve e i picchi, i livelli di morbilità e mortalità non spaventano più la popolazione come all’inizio di tutta questa storia. Forse, più che di previsioni e giudizi, è ora tempo di diagnosi, tracciamento di tendenze e identificazione di pericoli tangibili.

Dalla biopolitica alla biostoria

La nozione foucaultiana di biopolitica, su cui tanto è stato scritto, può offrire preziosi indizi per cogliere la novità dell’attuale pandemia, o comunque per ordinare interventi di intellettuali e scienziati non dominati da un pathoscatastrofico. Foucault ha posto il problema nei termini delle relazioni tra biologia, medicina e politica e, al loro interno, del filo rosso che collega le vecchie preoccupazioni contrattualiste con le nuove ossessioni per la salute. Nel corso Sicurezza, territorio, popolazione (1977-1978), Foucault sposta la contrapposizione hobbesiana tra libertà individuale e sicurezza collettiva sul piano delle teorie e pratiche del liberalismo politico ed economico del XVIII secolo, coniando l’idea che il capitalismo affronti, in successione, diverse «crisi di governamentalità» in cui si riorganizza la distribuzione delle responsabilità assegnate allo Stato e agli individui nella gestione dei processi sociali. Una di queste grandi crisi cicliche, legata alla crisi di una specifica modalità di accumulazione, è stata la contrapposizione tra il modello del welfare e la dottrina neoliberalista emersa 90 anni fa.

Nella conferenza Crisi in medicina o crisi in antimedicina, originariamente pubblicata in spagnolo, Foucault trasferisce al campo della biologia e della medicina la semantica della crisi della governamentalità. Sottolinea, in primo luogo, che le trasformazioni della biologia molecolare, soprattutto nel campo della genetica e dell’immunologia, hanno evidenziato la nascita di una «biostoria» in cui le biotecnologie si sono dimostrate in grado di alterare la vita delle specie e l’ambiente in generale (non solo quello degli esseri umani e dei loro discendenti), generando processi che possono essere incontrollabili e allo stesso tempo utilizzati per esercitare un controllo politico di tipo catastrofico.

Si tratterebbe in ogni caso di un «normale incidente», secondo la formula addottata dalla scienziata argentina della comunicazione Flavia Costa nell’incrociare la biostoria foucaultiana con uno dei termini alla moda: «tecnocene». La specie umana, che ha modificato radicalmente il pianeta al punto da renderlo, in un futuro non poi così lontano, invivibile, ne è diventata anche il maggior pericolo in termini strettamente demografici. Citando l’entomologo Edward Wilson, il quale sostiene che «il modello di crescita della popolazione umana nel XX secolo è stato più simile a quello dei batteri che a quello dei primati», Costa apre alla possibilità di pensare molto oltre le zoonosi che sarebbero la causa di questa e di altre pandemie. In realtà la questione non ha a che fare con pipistrelli, laboratori segreti o pangolini, ma con l’umanità stessa in quanto entità fuori controllo.

In questo scenario di processi apparentemente fuori controllo, come ha efficacemente affermato Agamben, la crisi del coronavirus mostra che è possibile trasformare il mondo intero in un grande laboratorio in cui le popolazioni accettano di essere rinchiuse. Allo stesso tempo, in quanto laboratorio di biostoria, gli Stati e le corporations stanno a loro volta sperimentando la propria capacità di controllo, studiando contagi, cure, farmaci e, fondamentalmente, l’amministrazione della paura. Vi è, infine, una sperimentazione delle popolazioni su loro stesse quando si sottomettono alle regole del lockdown per paura di una morte che, in ogni caso, è più astratta di quella cui è sottoposta, ad esempio, una popolazione civile durante una guerra.

Come ha detto tra gli altri Bruno Latour, si è dimostrato che il mondo può essere arrestato in breve tempo. Ma si è anche dimostrato che questo arresto durerebbe poco. In Europa durante l’estate, in alcuni paesi latinoamericani a causa del prolungamento temporaneo della quarantena e in altri paesi a causa della mentalità omicida dei loro leader (Trump negli Stati uniti, Bolsonaro in Brasile), le curve di contagio non spaventano più, tant’è che c’è chi comunque esce per strada a condurre una vita normale. Gli argomenti di alcuni governanti per inquadrare legalmente la violazione delle restrizioni sono dell’ordine della governamentalità foucaultiana: d’ora in avanti i contagi dipenderanno dalla responsabilità individuale nell’utilizzo delle mascherine, dal rispetto della distanza sociale e delle procedure igieniche all’interno dello spazio pubblico.

Questa interpretazione della biopolitica e della biostoria ci fornisce la chiave per leggere l’attuale pandemia nel quadro di una crisi di governamentalità il cui esito non è affatto scontato. L’opposizione tra libertà e sicurezza si traduce oggi in termini di contrapposizione tra economia e salute – su cui si insiste tanto, non solo in America latina – e si proietta sulla dicotomia individuo/Stato. Da un lato, la libertà appartiene agli individui ed è soprattutto una libertà di natura economica che si esprime nelle forme di un senso comune distrutto dopo decenni di neoliberalismo. Ecco perché Trump e Bolsonaro, essi stessi neoliberali, possono invocare una decisione di tipo schmittiano e scontrarsi frontalmente con l’ampliarsi della pandemia (la politica è al di sopra della scienza e della medicina, e l’economia è al di sopra della conta dei morti), con al seguito coloro che, in ogni paese, marciano a favore della libertà al prezzo di negare la realtà stessa del virus. Dall’altro lato la sicurezza, invece, è invocata da quei governi – ora Argentina e Cile nell’emisfero sud, prima Germania, Spagna e Italia – che, facendosi garanti della salute pubblica e della vita stessa, usano lo schermo del verbo medico e scientifico per promuovere determinate rappresentazioni del collettivo. Poiché è ormai evidente che a morire saranno i più deboli, si può affermare senza correre il rischio di ricadere in teorie complottiste che il processo di ridimensionamento dei sistemi previdenziali marcia lungo la via della biologia e della medicina.

Modulare e improvvisare

Per qualunque governo, in ogni parte del mondo, la politica e la scienza sono aree di controllo, ma l’attuale fase del capitalismo, grazie a un’accelerazione tecnologica e biologica forse senza precedenti, pone piuttosto il problema della mancanza di controllo. L’attuale pandemia rivela che l’analisi e l’intervento in un campo biopolitico in cui si mescolano politica, scienza e biologia, sono assolutamente necessari. In termini di posizione intellettuale, è forse allora più importante prestare attenzione a questa novità e studiare il modo in cui si producono queste relazioni tra conoscenza e controllo, che riferire la questione a figure troppo generiche come «stato di eccezione» o «capitalismo» senza distinguere le particolarità specifiche di ogni tempo e luogo.

Se quanto detto finora non è troppo assurdo, se la biostoria e il tecnocene costituiscono lo sfondo su cui verranno dispiegate le politiche future, vale la pena chiedersi, prendendo come riferimento le molteplici dimensioni dell’attuale pandemia, quali figure dell’avvenire si profilano all’orizzonte. Il sociologo argentino Ezequiel Gatto ha dichiarato, già durante la curva ascendente dei contagi in America latina, di essere passato dal panico dovuto all’impossibilità di sbarazzarsi di un’immagine – ad esempio qui, come in Italia, quella dei camion pieni di bare che sfilano per le strade – all’incertezza che consiste nell’impossibilità di farsi un’immagine di ciò che sta accadendo, il tutto nell’attesa che si producano le figure riparatrici di una «nuova normalità». Per comporre questa incertezza inventando nuove forme del comune, secondo Gatto, sarà necessario dare spazio alla capacità di improvvisazione tanto dei governi che delle politiche «dal basso», nella consapevolezza che i progetti statali, per quanto lo stiano facendo in nome della salute, non possono, da soli, né rappresentare né inventare quelle nuove forme di comunità.

È possibile che il capitalismo, in sinergia con le forme neoliberali di governo e le tecnologie dell’informazione, sia riuscito a «contenere» all’interno del calcolo delle probabilità la costitutiva incertezza della governamentalità. «Improvvisazione perimetrale» è l’eloquente espressione scelta da Gatto. È persino plausibile sostenere che in questi calcoli sia inclusa la normalizzazione degli incidenti e dei danni collaterali. Ma ciò non significa, per gli Stati e le corporations, che sotto un caos apparente tutto sia davvero «sotto controllo», quanto piuttosto che, come accade nella corsa scientifica per arrivare al vaccino saltando i passaggi canonici, non c’è un piano prestabilito, ma solo la ricerca di modi limitati di affrontare l’incertezza.

Forse l’immagine che ci potrà aiutare d’ora in poi a leggere questi processi è quella della modulazione. «Modulazione» è un termine di origine tecnica al quale il filosofo francese Gilbert Simondon ha dedicato un considerevole volume di riflessioni. Modulare significa, da un lato, stabilire il limite, determinare un possibile raggio di attività per qualsiasi entità, assumendo che non sia possibile determinare completamente la sua linea di condotta. Ma, d’altra parte, la modulazione è anche un’operazione flessibile, è «stampaggio permanente», secondo Simondon. È un concetto che, in termini politici, si attaglia esattamente al concetto foucaultiano di governamentalità e che, di fatto, lo stesso Deleuze utilizza per collegare le due strutture teoriche nel suo famoso Postscritto sulla società del controllo. Similmente, nel lavoro di Maurizio Lazzarato, ad esempio, il concetto di modulazione fornisce una chiave per comprendere le relazioni di potere nel contesto dell’utilizzo delle tecnologie digitali nell’ambito della «virtualizzazione forzata globale», in cui il modulare rappresenta proprio una modalità di controllo che consente di dare origine all’improvvisazione e affrontare l’incertezza. Come dice Gatto, «improvvisare» non sarà più un difetto per un politico. Sarà da vedere se la gestione delle probabilità si dimostrerà un metodo adeguato ad affrontare la situazione attuale. Il capitalismo non cadrà, come diceva Žižek all’inizio della pandemia, ma è possibile immaginare che adotterà nuove forme e che altre forme gli resisteranno.

Legislatori e interpreti, civette e colibrì

Questa riflessione ci permette di tornare infine alla questione della parola intellettuale e del ruolo degli intellettuali. Da che luogo si può parlare quando si verificano eventi di questo tipo? Cosa si può dire quando la gravità di ciò che accade richiede che, per un momento, si cerchi di smettere di spiegare tutto? Qual è la posizione del sapere che garantisce un discorso «illuminante»? C’è davvero qualcosa da «illuminare»? Si può dire, con Zygmunt Bauman, quando non era ancora impegnato in cose «liquide», che gli intellettuali sono passati dall’essere legislatori a essere interpreti?

In un’intervista di 40 anni fa, Foucault – sì, ancora una volta Foucault – stabilì la differenza tra «intellettuale universale» e «intellettuale specifico». Il primo agisce come un legislatore, che si ritiene la voce dell’umanità e rivendica «il diritto di parlare come insegnante di verità e giustizia». L’intellettuale specifico è, invece, «settoriale» e si occupa di «problemi che sono determinati, “non universali”». Egli intendeva riferirsi in questo modo a coloro che intervengono nelle lotte in luoghi determinati (ospedali, università, fabbriche), anziché parlare dalla posizione dello scrittore o dell’avvocato. Tuttavia, l’esempio da lui fornito era Robert Oppenheimer, il fisico che guidò il Progetto Manhattan rendendo possibile il bombardamento di Hiroshima e Nagasaki. Dopo la guerra, Oppenheimer giocò un ruolo centrale nel tentativo di fermare la corsa nucleare tra il suo paese e l’Unione sovietica, ma finì per essere accusato di essere comunista e la corsa, come sappiamo, continuò senza ostacoli. Einstein corse un rischio ancora maggiore nel sollevare lo stesso problema mentre la bomba era ancora in corso di progettazione, nonostante proprio una sua lettera al presidente avesse innescato il progetto che il suo collega aveva in seguito portato a termine. L’analogia atomica potrebbe essere oggi estesa al Covid-19, la cui invisibile diffusione assomiglia sempre di più a quella di radiazioni nucleari, mentre Wuhan è sempre più simile a una nuova Chernobyl. Ma l’analogia potrebbe essere valida, a maggior ragione, per il fatto che, in effetti, virologia, epidemiologia, infettivologia e terapia intensiva sono diventati temi di discorsi che concretamente interessano tutti, ma richiedono «intellettuali specifici».

Capire oggi che cos’è un rivestimento proteico, quali sono i recettori cellulari, quali i tempi di permanenza sulle diverse superfici di questo misterioso e minuscolo virus e quale sia il modello statistico più efficace per comprendere le dinamiche dei contagi sembra essenziale per vivere «responsabilmente» nell’incertezza. Foucault diceva che gli «intellettuali universali» stavano cedendo il passo a quelli «specifici». Si potrebbe notare che ciò accade solamente in momenti di urgenza come quello che stiamo vivendo. O forse si potrebbe affermare, parafrasando ancora una volta Latour, che anche questi esperti non sono in senso stretto «intellettuali specifici», ma solo portatori di alcune verità e anche di falsità che dovremo imparare a conoscere. Se c’è un’urgenza per gli intellettuali nella situazione attuale, è allora quella di scendere dal piedistallo di una presunta universalità e smetterla di affidarsi a luoghi comuni elaborati nell’ambito delle proprie teorie. Si tratterebbe di iniziare a pensare in termini di conoscenze specifiche che è necessario possedere per entrare in dialogo con altre conoscenze. Forse è giunto allora il momento di essere autenticamente interdisciplinari o transdisciplinari, qualcosa che forse suona politicamente corretto, ma che certamente abbiamo poco praticato fino a ora, annegati come siamo nell’iperspecializzazione della conoscenza.

All’inizio della pandemia di opinioni che ha segnato il 2020, il filosofo spagnolo Antonio Diéguez Lucena sottolineava come la fretta di assumere una posizione rischiasse di portare molti intellettuali a dimenticare la massima hegeliana secondo cui la filosofia inizia a volare, come la nottola (civetta) di Minerva, al crepuscolo, quando il tempo storico è ormai passato. Anche su questo potremmo decidere invece di seguire Foucault: forse il pensiero non dovrebbe aspettare tanto a lungo, ma piuttosto mettersi al lavoro su un’ontologia del presente. Forse, invece di civette sacre e lente, gli intellettuali potrebbero assomigliare ad agili colibrì, che becchettano spiegazioni imparando sempre di più, poco per volta, ciò che ancora non sanno, anziché presumere di aver già saputo tutto molto prima o aspettare che tutto sia depositato nel senso comune per poterne parlare. Solo Socrate fu davvero chiaro sul fatto che l’intellettuale si trova nella condizione di dover pensare e agire nel presente e con la consapevolezza di non sapere.

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