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Il tempo della rivolta


Maurizio Cannavacciuolo, Fuerza!, 2008, olio e smalto ad acqua su tela, 12x10 cm



Un tempo avremmo scritto, invertendo l’ordine dei termini e optando per la figura retorica dell’endiadi, «rivoluzione e rivolta», indicando in questo modo lo stesso concetto con una coppia di termini fra loro coordinati. Si badi bene: coordinati, non dissimili. Fino a qualche tempo fa, ad esempio tra Otto e Novecento, la rivolta è stata pensata come il primo vagito di una rivoluzione a venire, in particolare in paesi capitalisticamente arretrati come l’Italia e la Russia. Nel 1898 la Luxemburg parlava dell’Italia come del paese delle rivolte della fame, pur confidando che prima o poi il popolo lavoratore avrebbe appreso come condurre veramente la lotta di classe «per sanare le generali condizioni»[1] del Paese. Un vecchio motivo, questo, sollevato già da Antonio Labriola, il teorico del nostro socialismo marxista, il quale, a proposito delle agitazioni promosse nel 1893 in Sicilia dai Fasci siciliani e stroncate dalla sanguinosa repressione crispina, invitava dalla «Critica Sociale» a non confondere il sacro col profano, a tenere distinta la rivoluzione dalla rivolta essendo quest’ultima «inaspettata», pronta a «ricadere nella fatuità dell’anarchismo», preda dei «passionati eccessi del proletariato»[2]. Per l’una e per l’altro valeva la lezione della Germania, con il suo partito operaio forte e organizzato e un proletariato capace di resistere e di progredire e, soprattutto, di camminare «sicuro, non alla rivolta di un giorno, non alla rivoluzione di un anno, ma alla conquista stabile e duratura della posizione»[3]. Come dire che il tempo delle sommosse e delle rivolte sarebbe finito presto per lasciare tutto lo spazio alla rivoluzione. E in effetti il nuovo secolo si aprirà all’insegna della rivoluzione, vittoriosa o sconfitta non importa.

1905: Pietroburgo. Non un cieco tumulto di contadini ma l’entrata in scena di masse proletarie legate in qualche modo al sistema di fabbrica, con alla testa una giovane classe operaia ancora numericamente troppo debole per assolvere i propri compiti. I socialdemocratici russi – la «sgradevole e caparbia compagnia», come la chiama la Luxemburg, dei Plechanov, degli Aksel’rod, delle Zasulič – l’aveva prevista a tempo e per questo preparata e favorita «con tutta la rocciosa tranquillità e sicurezza che solo una Weltanschauung scientifica [corsivo nostro] e saldamente organica fornisce»[4]. È stato il materialismo storico con i suoi dogmi e le sue certezze, afferma convinta la Luxemburg, a permettere loro di scoprire sotto l’autocrazia zarista la classe operaia come un soggetto politico, «come l’unica bandiera a venire, in primo luogo dell’emancipazione politica della Russia dall’assolutismo, secondariamente della propria emancipazione dal dominio capitalistico»[5].

1917: Pietrogrado, questo il nuovo nome scelto dallo zar allo scoppio della guerra per esorcizzare la temuta vittoria tedesca, ci riprova. La differenza questa volta – siamo a febbraio – è che a guidare la rivoluzione sono «operai coscienti e ben temprati che erano stati formati soprattutto alla scuola del partito di Lenin»[6]. Già, il partito di Lenin. La questione dell’insurrezione quanto prima era diventata qualche mese dopo la posta in gioco di una resa dei conti all’interno del Comitato centrale del partito, con Lenin a orchestrarne la campagna a favore, Kamenev e Zinov’ev a sollecitare il partito ad adottare una posizione difensiva e non violenta[7]. Per Lenin invece l’insurrezione è necessaria altrimenti, sostiene, la rivoluzione perisce. Ma l’insurrezione è un’arte…[8] Fresco del successo del 25 ottobre del ’17, il 6 marzo del ’19 è ancora Lenin a sostenere la vittoria della rivoluzione, questa volta in tutto il mondo, e la fondazione della repubblica sovietica internazionale. Parla a nome della neonata Terza Internazionale, in un contesto che sembra concludere il cammino della hegeliana storia universale[9].

1919: 21 marzo, Ungheria; 7 aprile, Baviera; 16 giugno, Slovacchia. Scambiare la breve e drammatica vicenda di queste esperienze di potere sovietico nel centro Europa per una pausa momentanea fu l’abbaglio in cui cadde il suo esecutivo. Per correggere il tiro si pensò che sarebbe stato sufficiente denunciare il tradimento dei socialdemocratici e finirla con la politica del fronte unico. L’autosufficienza organizzativa dei comunisti affiliati alla nuova Internazionale e la purezza ideologica sarebbero state la garanzia sufficiente contro ogni futuro insuccesso.

1923: 21 ottobre. L’appello allo sciopero generale e all’insurrezione armata lanciato dalla Kpd alla conferenza dei consigli di fabbrica della Sassonia cade nel vuoto[10]. L’ultimo tentativo di rivoluzione operaia in Germania si chiude con un insuccesso, tanto più grave se si pensa al coinvolgimento di Trockij e Zinov’ev nell’organizzazione dell’insurrezione.

1936: annus horribilis della Rivoluzione in Europa. A difesa del «socialismo in un paese solo» iniziano a Mosca i grandi processi contro i bolscevichi del ’17. L’Internazionale, ormai strumento della politica staliniana, sconfessato il socialfascismo, lancia la parola d’ordine del fronte unico da sperimentare, dopo la Francia di Léon Blum, nella Spagna di Manuel Azaña: un fallimento conclusosi nel ’39 con la «feroz matanza» orchestrata da Franco all’indomani della vittoria fascista[11].

Che dire? Che nel ’17 la «rivoluzione era stata fatta non per portare la libertà e il socialismo alla Russia, ma per innescare nel mondo la rivoluzione proletaria. Nella mente di Lenin e dei suoi compagni, la vittoria del bolscevismo in Russia era innanzitutto una battaglia nella campagna che doveva portare alla vittoria del bolscevismo su una scala mondiale assai più vasta, e solo in tal senso era giustificabile»[12].

L’ipotesi che il secolo breve della Rivoluzione – 1917/1939 – sia una conseguenza dell’abbandono di questo principio leninista da parte di Stalin[13] è vera solo in parte; dietro il XIV Congresso del Partito comunista russo (dicembre 1925) c’è una lunga storia che parte da lontano, dal Congresso di unificazione della socialdemocrazia tedesca a Gotha (1875). Il peccato d’origine allora fu l’abbandono del principio internazionalista sancito più e più volte negli statuti dell’Associazione internazionale degli operai fondata nel 1864 a Londra[14]. La Terza Internazionale vi si ispirerà al momento della sua fondazione (1919)[15] per abiurarlo, per l’appunto, nel ’25. È alla luce del nuovo ordine che si spiega tutto il resto, vale a dire le rivoluzioni, declassate a sordide rivolte, nelle province del nuovo impero, lungo tutto i primi trent’anni del dopoguerra[16].

Nel nuovo millennio, venendo meno la relazione strutturale tra rivoluzione e rivolta, la nostra endiadi perde di efficacia euristica. I tanti che continuano a tifare per la rivoluzione devono farsene una ragione. Da qualche tempo in giro per il mondo ci sono solo rivolte, per cui dobbiamo interrogarci su quanto succede sotto i nostri occhi, non fosse altro per la modalità del loro accadere. Intanto lo spazio della rivolta, ossia la piazza, si tratti di Atene, Madrid, Londra, Tunisi, Cairo, New York, Istanbul, Algeri, Bagdad, Santiago. Taluni nomi ci suonano ormai familiare, piazza Sintagma ad esempio oppure Puerta del Sol, Plaça de Catalunya, piazza Tahrir, Gezi Park, Zuccotti Park, Plaza de Armas. Saskia Sassen ha chiarito una volta per tutte la grande trasformazione di questi spazi urbani in concentrazioni di attività finanziarie e di servizi e, per quanto riguarda la composizione sociale e di classe dei suoi abitanti, le ragioni della crescente disparità di reddito al loro interno, della precarizzazione del lavoro e la ristrutturazione dei consumi[17]. A fronte di una rivoluzione – questa sì – gestita dall’alto, ha ancora senso utilizzare ad esempio l’apparato concettuale gramsciano (società civile, blocco storico, partito rivoluzionario, classe operaia e quant’altro) per investigare sulla rivolta[18]?

Chi riempie la nostra piazza? Una massa di gente indignata[19]? La moltitudine di Negri e Hardt[20]? E perché? E poi, come spiegarci quel tempo fratturato, evenemenziale, in cui la rivolta accade: 2008, 2009, 2011, 2018, 2019…? Una cosa certa è che il tempo della rivolta non è quello lineare in cui si inscrive la rivoluzione, che è poi la versione estrema, più radicale, del tempo rettilineo e irreversibile della Modernità e della sua idea di Progresso[21]. La rivolta dei gilets jaunes in Francia e quella promossa a Hong Kong da una moltitudine di giovani lavoratori cognitivi, operai manifatturieri e poveri, dicono che le cose stanno diversamente perché qui continuità e insistenza sono solo espressione della testardaggine e della capacità dei rivoltosi, come ha detto qualcuno, di intrecciare diverse forme di lotta e di iniziative politiche, dalle marce pacifiche alle azioni dirette e all’attacco di massa alla polizia e ai simboli del potere. Da mesi e mesi, ogni sabato le piazze e le strade delle maggiori città della Francia e quelle di Hong Kong non smettono di riempirsi di gente rumorosa nonostante il numero crescente di morti ammazzati, di feriti e arrestati. Un «miracolo» che si ripete puntualmente da un anno[22] e che ci ricorda piuttosto il ritmo insistito con cui il martello batte sul ferro rovente per piegarlo. È stato Benjamin, particolarmente sensibile alle aporie del materialismo storico, a insistere sul tema del continuum della storia assegnando il compito di scardinarlo alla rivoluzione da intendere, diceva, come il necessario «salto dialettico»[23]. Che la rivoluzione non abbia assolto il suo compito per non essere riuscita a scrollarsi di dosso, invece, proprio il fardello del materialismo storico «con la sua Weltgeschichte da strapazzo»[24]? E così, estremo ci pare oggi il tentativo di Althusser e della sua scuola di salvare a metà degli anni Sessanta rivoluzione e materialismo storico nel momento in cui il de profundis si levava solenne dalle fabbriche fordiste di mezzo mondo in suffragio di entrambi. A farci sorridere è l’idea che il materialismo storico fosse ancora considerato l’arma teorica della rivoluzione nelle mani del Movimento Operaio[25]. Ma tant’è.

Il tempo della rivolta, da declinare sempre al presente, è più vicina di quanto si creda all’immagine benjaminiana di rivoluzione. È nella tesi XIV di cui sopra che compare la nozione di «adesso», contrapposto al tempo «omogeneo e vuoto» del progresso e di ogni idea di evoluzione di kautskiana memoria[26]. Ogni sabato, dunque, i gilets jaunes a Parigi e gli Xiangangren a Hong Kong riempiono piazze e strade. Come intendere una ricorsività siffatta? Di primo acchito, che nell’hic et nunc dell’adesso torna a vivere un certo passato[27] e questo vale per i nostalgici della rivoluzione. Di contro, questa ricorsività di parole d’ordine, di gesti e azioni sempre uguali, non sembra poi tanto distante da quella dei giochi dell’infanzia da cui il bambino trae piacere e diletto. Eccoci allora alla peculiarità del tempo della rivolta: reversibile come l’ordine del gioco, privo di passato e di futuro, di durata senza limiti, che se ne sta perennemente nell’ora. Gli antichi greci lo chiamavano aion e lo associavano alla vita dell’infanzia e al gioco[28]. Il suo ordine non era pensato come quello della successione regolare degli avvenimenti scandita dall’altra figura del tempo-chronos cui appartiene la rivoluzione ma, come si diceva, della reversibilità indifferente al tempo che è propria di ogni gioco. Se a proposito della rivolta pensiamo a un gioco di guerra, il suo cui prodest? resta incerto e imprevedibile. Può anche non piacere ma è così. Abituati alle certezze propalate dal materialismo storico a proposito della rivoluzione, il problema ci sembra quello di cominciare a elaborare una Critica della sua ragione pratica per impugnarne la validità. Volendo giocare con Kant, il terreno della nuova Critica resterà quello dell’esperienza sensibile dell’individuo empiricamente dato, da cui la rivolta principia per spinta naturale o per timore comune. Mutuandolo da Kant, potremmo chiamare questo sapere «Antropologia pragmatica» ma, preferendo all’illuminista Kant il comunista Negri, «teleologia materialista»[29] a indicare l’assenza nella rivolta di finalità improprie – conquista del potere istituzionale e quant’altro – e un’idea di storia «che sorge dal basso animata dai desideri di chi fa la storia e dalla ricerca della libertà»[30].




Note [1] R. Luxemburg, Scritti scelti, Einaudi Editore, Torino 1975, p. 705. [2] A. Labriola, Democrazia e socialismo in Italia, Universale Economica, Milano 1954, pp. 78, 79. [3] Ivi, p. 33. [4] Luxemburg, Scritti scelti, cit., p. 242. [5] Ivi, p. 243. Sul tema del materialismo storico come nuova scienza della storia e vademecum della rivoluzione vedi M. Sersante – W. Montefusco, Pensare la rivolta. Un percorso storico e filosofico, DeriveApprodi, Roma 2019, cap. 2. [6] G.G. Cavicchioli (a cura di), Ottobre 1917, Edizioni Lotta Comunista, Milano 2017, p. 29. [7] Come si evince da A. Rabinowitch, 1917. I bolscevichi al potere, Feltrinelli Editore, Milano 2017, pp. 228-245. [8] V.I. Lenin, Il marxismo e l’insurrezione, in Opere complete, vol. XXVI, Editori Riuniti, Roma 1966, p. 17. [9] A. Agosti, La Terza Internazionale, Editori Riuniti, Roma 1974, p. 74. E Zinov’ev nella sua veste di presidente dell’Ic: «Il movimento sta progredendo con una rapidità talmente vertiginosa, che si può affermare con certezza che entro un anno avremo già cominciato a dimenticare che c’è stata in Europa una lotta per il comunismo, perché fra un anno l’Europa intera sarà comunista. E la lotta si sarà estesa all’America, forse anche all’Asia e agli altri continenti”, cit. in ivi, p. 75. [10] M. Hájek, Storia dell’Internazionale comunista (1921-1935), Editori Riuniti, Roma 1975, p. 72: «Soltanto ad Amburgo i comunisti del posto diedero il via all’insurrezione che però restò isolata. Nelle file degli insorti combatterono appena 200 uomini, contro di loro: 6.000 poliziotti e marinai e in più 700 ausiliari di polizia provenienti in maggioranza dalle file socialdemocratiche». [11] Nel cosiddetto «feroce massacro» morirono 200.000 «marxisti», cioè antifascisti, mentre altre centinaia di migliaia furono condannati a pene varie e altri 300.000 presero la via dell’esilio. Sulla rivoluzione in Spagna vedi A. Nin, Guerra e rivoluzione in Spagna 1931/1937, Feltrinelli Editore, Milano 1974; G. Munis, Lezioni di una sconfitta, promessa di vittoria, Edizioni Lotta Comunista, Milano 2007. [12] E.J. Hobsbawm, Il secolo breve – 1914/1991–, BUR, Milano 2000, p. 73. [13] G. Procacci (a cura di), La rivoluzione permanente e il socialismo in un paese solo, Editori Riuniti, Roma 1970. [14] Dagli «Statuti dell’Associazione internazionale degli operai approvati dal congresso di Ginevra» in G.M. Bravo, La prima internazionale, Editori Riuniti, Roma 1978, p. 138: «[…] l’emancipazione della classe operaia, non essendo né un problema locale né nazionale ma sociale, abbraccia tutti i paesi nei quali esiste la società moderna, e per la sua soluzione dipende dal concorso pratico e teorico di questi paesi». [15] Agosti, La Terza Internazionale, cit., p. 30: «Nel subordinare gli interessi cosiddetti nazionali a quelli della rivoluzione mondiale, l’Internazionale realizzerà il reciproco aiuto dei proletari dei vari paesi, giacché senza questo aiuto, economico e di altra natura, il proletariato non sarà in grado di organizzare una società nuova». E per concludere: «L’Internazionale comunista chiama il proletariato del mondo intero a questa lotta estrema. […] Viva la repubblica internazionale dei soviet proletari!». [16] Sul tema Sersante – Montefusco, Pensare la rivolta, cit., pp. 121-126. [17] S. Sassen, Le città nell’economia globale, Il Mulino, Bologna 2000. [18] G.D. Pianta, L’Egitto tra rivoluzione e controrivoluzione, Il Mulino, Bologna 2019. [19] A. Badiou, Il risveglio della storia, Ponte alle Grazie, Firenze 2012. [20] M. Hardt – A. Negri, Assemblea, Ponte alle Grazie, Firenze 2018. [21] Che poi è quella fatta propria dalla Seconda Internazionale e trasmessa alla Terza. In proposito vedi W. Benjamin, Sul concetto di storia, Einaudi Editore, Torino 1997, tesi XIII, p. 45. [22] Sul tema della rivolta come «miracolo» vedi P. Virno, L’idea di mondo. Intelletto pubblico e uso della vita, Quodlibet, Macerata 2015, pp. 151-152. [23] Benjamin, Sul concetto di storia, cit., tesi XIV, p. 47. [24] M. Tronti, Operai e capitale, Einaudi Editore, Torino 1977, p. 149. [25] L. Althusser – E. Balibar – R. Establet – P. Macherey – J. Rancière, Leggere il Capitale, Mimesis Edizioni, Milano 2006. [26] In proposito K. Kautsky, Etica e concezione materialistica della storia, Feltrinelli Editore, Milano 1975, § V. [27] Benjamin, Sul concetto di storia, cit., p. 47: «Così, per Robespierre, l’antica Roma era un passato carico di adesso, che egli estraeva a forza dal continuum della storia». [28] «Il tempo è un fanciullo che gioca spostando i dadi: il regno di un fanciullo» in U. Curi, a cura di, Dimensioni del tempo, Franco Angeli, Milano 1987, p. 15, nota 11. [29] Sersante – Montefusco, Pensare la rivolta, cit., cap. 3. [30] M. Hardt – A. Negri, Comune. Oltre il privato e il pubblico, Rizzoli, Milano 2010, p. 69.

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