Pubblichiamo, all'interno della nostra cartografia dei decenni smarriti, un articolo di Francesco Maria Pezzulli che nell'analizzare le forme di sviluppo del Mezzogiorno, legge il clientelismo come un vero e proprio sistema di riproduzione sociale volto a coniugare gli interessi dei potere locali con quelli statali e a garantire la coesione sociale, la governabilità del territorio e la stabilità elettorale.
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Negli anni ’80 «matura» il sistema di riproduzione clientelare del Mezzogiorno, sorto negli anni ’50 e perfezionatosi nei decenni successivi, in sintonia con le esigenze politico elettorali dei partiti di governo e con gli interessi del complesso industriale settentrionale. Per comprendere quanto stiamo dicendo bisogna tenere a mente due aspetti fondamentali di quel periodo. Il primo riguarda il carattere dualistico della struttura produttiva italiana, con il sud a volte «condizione», altre volte «risorsa» e «funzione» dello sviluppo capitalistico nazionale[1]. Il secondo è che, nel decennio in questione, era ancora presente e pressante la guerra fredda, che nei confini nazionali fu caratterizzata dalla lunga battaglia, competizione e mediazione tra i due grandi partiti di massa: quello dei comunisti (PCI) e quello dei cattolici (Democrazia Cristiana, DC).
Per quest’ultimo, che ha governato ininterrottamente dal 1948 al 1992, la «questione meridionale» (o, meglio, l’intervento straordinario decretato per la sua risoluzione) si è rivelata uno strumento politico fondamentale con il quale è stato possibile, in un primo tempo (anni ’50), trasformare le condizioni della produzione e riproduzione sociale e, in un secondo tempo (anni 60-70), gestire i problemi che la trasformazione aveva generato garantendo comunque la pace sociale e la stabilità elettorale[2]. Grazie al rapporto diretto con le casse dello Stato, infatti, la Democrazia Cristiana è riuscita a instaurare nel sud un sistema di potere di stampo clientelare efficace, pervasivo ed anche mutevole, in grado cioè di adattarsi ai tempi ed ai cambiamenti della composizione sociale meridionale. In principio, dal secondo dopoguerra, il sistema si è retto sulla figura dei notabili, i boss, a cui ci si legava in modo verticale attraverso una catena di obblighi, richieste e favori da contraccambiare puntualmente al momento del voto o quando il notabile lo esigeva. Un rapporto di fedeltà e soggezione che durava per tutta la vita e che richiamava in gioco valori e pratiche premoderne, quelle che i primi meridionalisti avevano identificato come «residui feudali». Con il procedere del «boom economico», invece, ovvero con le nuove esigenze e stili di vita generati dallo sviluppo economico, la figura del notabile comincia a perdere colpi e diventare anacronistica. Non che scompare del tutto, si badi, ma la sua efficacia diminuisce notevolmente ed al favore del boss si sostituisce l’organizzazione burocratica del partito, la quale raccogli voti, adepti e affiliati tramite l’offerta di programmi di sviluppo. In altri termini, il favoritismo vecchio stile che dipendeva dalla volontà del capo, si è trasformato all’apparire del partito politico di massa in un clientelismo che adotta le vecchie tecniche clientelari all’interno del piano straordinario di sviluppo che, com’è noto, è presente nel Mezzogiorno dal 1950, quando venne decretata la Riforma Agraria e istituita la Cassa del Mezzogiorno. Come osservò acutamente, tra i primi, Sidney G. Tarrow, che in proposito coniò la categoria di «clientelismo organizzativo»:
«la vita politica nello stato moderno non è più sensibile al metodo antiquato di concessione di favori che fioriva sotto il clientelismo dei notabili. La palese insufficienza del vecchio sistema stava nel tendere una catena di obblighi lungo una linea verticale di individui, piuttosto che aggregare orizzontalmente gruppi di interesse»[3].
Insomma, il pericolo comunista in casa, il mondo diviso in due blocchi, l’opportunità data dai piani di sviluppo, spinsero il partito dei cattolici ad assumere l’assetto organizzativo delle machine americane[4]. Nei fatti, detto altrimenti, l’opportunità politica fu quella di «gonfiare» a dismisura la classe media meridionale, in funzione anticomunista, indipendentemente dagli effetti che evidentemente si sarebbero generati sulla struttura economica e produttiva. A tal proposito, basti pensare che, solo tra il 1970 e il 1989, l’occupazione totale meridionale cresce di 900 mila unità, di cui i due terzi nella Pubblica Amministrazione, mentre il Prodotto lordo per abitante cresce la metà rispetto a quello dei consumi privati per abitante. Senza entrare nel dettaglio, dal momento che esiste una vastissima bibliografia sull’argomento, restano proverbiali in merito a quanto stiamo dicendo le annotazioni di Augusto Graziani sui poli di sviluppo che, diceva il fine economista, furono tre o quattro quelli effettivi mentre sotto il profilo amministrativo, tra aree e nuclei, ne sorsero almeno un centinaio.
Ciò premesso, negli anni ’80, la sovradeterminazione politica dei piani di sviluppo e delle dinamiche economiche era divenuta pressappoco totale, al punto che, anche gli studiosi nostrani (lo vedremo in un prossimo articolo) furono costretti a mettere da parte le lenti sfocate della teoria della modernizzazione e riuscirono finalmente a leggere il clientelismo come un vero e proprio sistema di riproduzione sociale. Un esempio calzante di quanto le reti e i rapporti clientelari fossero effettivamente articolati e diffusi negli anni ’80 (e asfissianti! per noi ragazzi che volevamo cambiare le cose) ci è stato mirabilmente offerto dall’ex Ministro del Mezzogiorno Remo Gaspari, per amici, parenti e affiliati zio Remo, che in una trasmissione televisiva ha citato a memoria il prototipo della lettera di raccomandazione:
«Egregio Direttore, il mio conterraneo, il sig. Tizio, ha presentato la domanda Tale con Curriculum che Le allego. Le sarò molto grato se Lei vorrà esaminare la possibilità di farmene conoscere l’esito».
Un capolavoro a norma di legge. In un passaggio successivo, attaccato dalla giornalista a proposito di uno scandalo sulle assunzioni pubbliche dove zio Remo appariva diverse volte, la letterina viene inquadrata nei termini dell’aiuto cristiano. E don Remo aggiunge:
«quasi mai, poi, i conterranei ti comunicano gli esiti, i risultati (che ingratitudine risponde la giornalista con tono ironico). No. Non è ingratitudine, il mondo è questo, bisogna prenderlo cosi com’è, io non ho mai voluto cambiarlo. (Svelato l’arcano, un’altra domanda: ma la scriveva di suo pugno?) Macchè, questa era la fotocopia che i miei collaboratori avevano a piacimento ed ogni volta che serviva la spedivano»[5].
Una prassi usuale non soltanto per l’arciduca degli Abruzzi, bisogna aggiungere, ma per ogni zio e don presente nelle regioni (provincie e comuni) meridionali: Vincenzo Gava in Campania, Riccardo Misasi e Giacomo Mancini in Calabria, Emilio Colombo in Basilicata, per citare i più noti, per poi scendere verso pletore di politici locali e galoppini vari dediti all’estensione della rete d’influenza della propria consorteria d’appartenenza.
Ma se fino agli anni ’80 le reti politico clientelari sono riuscite straordinariamente bene a coniugare gli interessi dei poteri locali con quelli statali e garantire coesione sociale, governabilità del territorio e stabilità elettorale; con la fine dell’intervento straordinario, l’instaurarsi della seconda repubblica e la nuova dimensione politica europea, le cose in parte cambiano. Nuovi attori, nuove regole, e soprattutto il fatto di non avere più una «Cassa» (o una Agenzia[6]) dalla quale attingere, hanno causato una serie di problemi sconosciuti a chi, abituato a muoversi con disinvoltura nella acquisizione dei trasferimenti nazionali, si è trovato imbrigliato in vincoli sovranazionali per l’utilizzo dei fondi strutturali per le aree obiettivo 1. Dal decennio ’90 le reti clientelari sono state costrette a diventare più selettive, a riorganizzarsi in molte funzioni e attività, a ricalibrare alcune azioni al fine di ridurre le complessità del nuovo corso e mantenere le posizioni di privilegio acquisite[7]. Negli anni ’80, insomma, possiamo dire che il clientelismo meridionale ha toccato il suo apice e la logica del do ut des ha connotato gran parte delle relazioni sociali e generato situazioni paradossali, per le quali, anche per una banale operazione quotidiana (la richiesta di un certificato amministrativo, la visita medica in ospedale, l’acquisto di un bene particolare, eccetera) si era soliti ricorrere al favore dell’amico, di un amico, di un amico, per poter aggirare la regola e procedura vigente indipendentemente dal peso reale di essa. Sul versante politico, in altri termini, gli anni ’80 sono contraddistinti da un efficace sistema di coesione e riproduzione sociale, fondato sul particolarismo, che ha indotto i meridionali a mercanteggiare diritti in cambio di favori e tutele. Un sistema che ha plasmato la loro mentalità al punto di diventare radicalmente differente da quella dei loro padri che, chi più chi meno, avevano comunque conosciuto le forme solidaristiche espresse dalle comunità contadine. È emblematico in proposito che Leonardo Sciascia, al principio degli anni ’80, commentando quel proverbio siciliano secondo cui «chi è ricco di amici è povero di guai» dice che si tratta di un proverbio nefasto! Nefasto si, come i danni che le politiche clientelari hanno scaricato sulle generazioni successive; nefasto, come l’etimologia vuole, perché ha negato la possibilità di una vita felice nel mezzogiorno a chi ha deciso di trasferirsi altrove per paura che:
«rimanere nella mia città avrebbe cambiato anche me, mi avrebbe reso disposto a far parte del circuito dell’amico dell’amico, forse mi avrebbe reso un cliente. Ho vissuto questi pensieri come una sorta di trauma, ho sempre pensato: no, a me non deve capitare (…) non potevo restare perché restare avrebbe significato pagare un prezzo troppo alto, sottostare ai compromessi dove conta chi è più forte e più furbo»[8].
Eppure, nonostante la pax clientelare del mezzogiorno democristiano, ci sono stati anche negli anni ’80 nuovi gruppi e movimenti sociali che, come vedremo in un prossimo articolo in questa sezione di Machina, hanno resistito alle sirene corruttrici e provato a riprendere in modo nuovo le fila dell’antagonismo e della critica sociale.
Note [1] Il Mezzogiorno si è rivelato sempre decisivo nei processi di sviluppo nazionale. Come ricordava un grande storico liberale a proposito del periodo unitario, ovvero della formazione del moderno capitalismo in Italia: «non solo venne ripreso sotto nuova forma quel processo di sfruttamento dell’agricoltura a vantaggio dell’industria e della città in genere, che nei primi decenni dell’unità era avvenuto essenzialmente attraverso il fiscalismo statale e il contenimento dei consumi rurali; ma vennero generalmente aggravati e approfonditi i caratteri antagonistici del processo attraverso il quale si era compiuta l’Unità nazionale, tra città e campagna, tra Nord e Mezzogiorno. E volle dire, tutto questo, accentuazione non solo della inferiorità economica del sud, ma anche del suo scadimento sociale e civile, e della miseria e della sofferenza delle genti meridionali, che avrà la sua espressione più vistosa nel grande dramma dell’emigrazione, ma che si rinnova ogni giorno nella vita di tanti borghi e città, o pseudocitta, sparse per le assolate campagne del sud. E certo non saremo noi a sottovalutare di tutto ciò la negatività storica e morale. Ma accanto e aldisopra di tutto questo e giocoforza ricordare che, proprio in virtù del sacrificio imposto per tanti decenni alla campagna e al mezzogiorno un paese povero di territorio e di risorse naturali e sottoposto ad una fortissima pressione demografica come l’Italia è riuscito, unico tra quelli dell’area mediterranea, a creare un grande apparato industriale e una civiltà urbana altamente sviluppata, che in gran parte del paese ha diffuso più civili e indipendenti rapporti tra gli uomini e tra le classi, una più moderna concezione della vita una più larga partecipazione degli italiani ai beni materiali e morali del mondo moderno». Rosario Romeo, Risorgimento e capitalismo, Laterza, Bari 1978. Cit. pag. 179 - 180. [2] Vedi, in proposito, l’ottimo lavoro di L. Ferrari Bravo e A. Serafini, Stato e sottosviluppo. Il caso del Mezzogiorno italiano, Ombre Corte, Roma 2007; nel quale, sulla base di una ricerca ampiamente documentata, viene espressa una tesi originale, allora controcorrente, secondo cui: «il sottosviluppo non è soltanto il “non ancora sviluppo”, cosi come voleva già l’“ottimismo” dei classici dell’economia politica […]; ma non è neppure solo il “prodotto” dello sviluppo, secondo un modo statico, “strutturalista”, di leggerne la fisionomia […]. Esso è una funzione dello sviluppo capitalistico: una sua funzione materiale e politica». Cit. pag. 19 (1 ed. Feltrinelli, Milano 1971) [3] Sidney G. Tarrow, Peasant Communism in Southern Italy, Yale University Press, 1967. Tr. it, Partito Comunista e contadini nel Mezzogiorno, Einaudi, 1972. Cit. pag. 301 [4] Tarrow rintracciò numerose analogie tra la Democrazia Cristiana, alla quale dedica un capitolo centrale del libro, e la cd “machine” americana, nella quale «l’organizzazione politica di partito appare come una di quelle forme di associazione secondaria squisitamente adattabile alla politica di tipo paternalistico e clientelare» (cit. pag. 18). Più precisamente, lo studioso americano rileva importanti similitudini a proposito: dell’evoluzione da partiti di notabili a partiti burocratici che si basano sulla distribuzione di favori; della capacità di inglobare al proprio interno gruppi tra loro molto differenti senza subire spaccature ideologiche; del metodo di inglobare nuovi gruppi tramite vasti finanziamenti. [5] La figura di Remo Gaspari è fondamentale per comprendere la politica democristiana nel Mezzogiorno durante la prima repubblica. Nato in provincia di Chieti nel 1921 è stato nove volte deputato e sedici volte ministro. La sua carriera comincia nella II legislatura (1953 – 1958) con una proposta di legge per «modificare l’ordinamento del personale dell’azienda di stato per i servizi telefonici» e con oltre cento interrogazioni parlamentari per la destinazione di finanziamenti ad opere da realizzare nel suo collegio elettorale e nelle vicinanze di esso. L’ultima legislatura da ministro è stata la X (1987 – 1992) nella quale è stato costretto a difendersi dalle autorizzazioni a procedere a suo carico per peculato aggravato, approvate dal parlamento e confluite poi nell’amnistia del 12/04/1990 (n. 75). La trasmissione televisiva dalla quale è stato riportato il brano nel testo è Matrix (puntata del 14/09/2005). [6] Con la legge 64 del 1986 le risorse finanziarie un tempo della Cassa vengono delegate a una «Agenzia per la promozione e lo sviluppo del Mezzogiorno» dando inizio al secondo intervento straordinario, che non ha fatto meglio del primo sul versante della programmazione dello sviluppo, ha fatto solo meno avendo a disposizione minori risorse economiche. [7] I vari scandali sulle frodi dei «fondi strutturali» destinati al Mezzogiorno sono significativi dei problemi che le reti clientelari meridionali hanno dovuto affrontare con l’instaurarsi della seconda repubblica. Ad esempio, secondo la Corte dei Conti, tra il 2003 e il 2006, gli importi “da recuperare” superano i 185 milioni di euro, per un numero di 200 frodi e irregolarità scoperte. Quasi tutte hanno riguardato le regioni meridionali. Cfr. Corte dei Conti, Irregolarità e frodi in materia di fondi strutturali con particolare riguardo al FESR nelle regioni obiettivo 1, Relazione Speciale 1/2007. [8] F. M. Pezzulli, In fuga dal sud. Migranti qualificati e poteri locali nel Mezzogiorno, Bevivino editore, 2008. Cit. pag. 27.
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Francesco Maria Pezzulli, sociologo e ricercatore indipendente. Ha insegnato presso l’Università La Sapienza di Roma e svolge attività di ricerca e inchiesta nel Laboratorio sulle Transizioni, il mutamento sociale e le nuove soggettività dell’Università degli Studi di Roma Tre. Si occupa delle tematiche inerenti lo sviluppo capitalistico e il mezzogiorno italiano.
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