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Il potere alla città, la potenza ai cittadini

Un testo di Franco Piperno in solidarietà a Mimmo Lucano



All’incredibile sentenza di condanna a 13 anni e due mesi pronunciata in questi giorni contro Mimmo Lucano occorre contrapporre un’ampia solidarietà da esprimere in forme diversificate. Una di queste è la valorizzazione del suo «laboratorio Riace». Da quell’esperienza concreta occorre ripartire per cercare di costruirne altre, altrettanto concrete, ad essa ispirate. È per questa ragione che proponiamo la lettura di un testo che Franco Piperno elaborò all’interno di Radio Ciroma, a Cosenza, nel 1997, quindi molto prima del «laboratorio Riace».


* * *


1. Restaurazione urbanistica e ripopolamento del centro storico per azione pubblica. Acquisizione immobiliare da parte del comune, di massa tale, ricorrendo eventualmente all’esproprio, da consentire il predominio del criterio del bene comune nel ripopolamento del centro storico, attraverso l’assegnazione o la vendita libera degli appartamenti e degli edifici restaurati. Interdizione totale al traffico nella città vecchia e istituzione di un servizio di trasporto pubblico adeguato alla struttura urbanistica.

2. Costruzione e posizionamento dei cavi per la comunicazione informatica in tutto il territorio del comune.

Oggi, la comunicazione tramite le reti informatiche ci appare come una inedita libertà cittadina, una facoltà di fare che la tecnica rende accessibile a tutti.

Così come è accaduto per l’acqua, il trasporto pubblico, l’energia elettrica, lo scambio d’informazioni sarà a … un servizio pubblico a carico della comunità.


3. Queste opere comunali, che comporteranno non solo posti di lavoro per alcuni cittadini ma anche e soprattutto bene comune, saranno progettate e gestite in cooperazione con l’ateneo cosentino (impropriamente chiamato Università della Calabria) e i centri di ricerca dell’istituendo parco tecnologico.

La cooperazione consegue il risultato di abbassare i costi e, a un tempo, di disporre delle acquisizioni e delle tecniche più affidabili sul mercato internazionale.


4. Servizio socio-sanitario comunale integrativo di quello nazionale.

La condizione dei bambini, degli anziani, degli immigrati che trascorrono malamente la vita nel territorio del comune non è un problema statale, di Roma, ma una questione pubblica, cioè cosentina.

Il comune istituisce il proprio servizio sanitario rifiutando che sia l’ospedale il luogo ideale della cura, e ripristinando, secondo l’antica tradizione comunale, il medico condotto come parola che cura

senza prescrivere farmaci illusori. Più terapie della parola, meno chimica. 5. Salario minimo garantito come diritto di cittadinanza.

La scarsa offerta di posti di lavoro salariato è un retaggio dell’era industriale. Essa è una responsabilità collettiva che non può essere imputata al singolo che si imbatte inconsapevole nella difficoltà.

Il comune riconosce il diritto dei cittadini adulti di disporre di un reddito minimo, convenzionalmente stabilito e socialmente garantito.


6. La sicurezza pubblica è un bene prodotto dal comune.

La pubblica quiete – cioè la minimizzazione delle azioni violente e la loro sanzione rituale – è una libertà costitutiva del comune – essa non può essere delegata allo Stato nazionale e ai suoi variegati eserciti.

Il comune potenzierà la polizia urbana e istituirà il vigile di strada, ricorrendo anche al volontariato o al servizio civile. 7. II comune amministra la giustizia. La regolamentazione rituale dei conflitti è un servizio pubblico eminentemente locale – il suo svolgimento avviene secondo le consuetudini comunali. Il comune istituisce il giudice della «pace comunale», al quale possono rivolgersi volontariamente i cittadini implicati nel contenzioso civile.


8. Il comune regola l’immigrazione dei lavoratori stranieri sul territorio cittadino.

L’immigrazione è solo un aspetto particolare della questione del domicilio e del lavoro per i non-cittadini. I diritti e i doveri dei non-cittadini sono materia comunale – essi infatti ineriscono, sia pure negativamente, alla definizione di cittadinanza.


9. Il comune, per assolvere il suo compito di volano pubblico della produzione locale, si dota di una banca comunale.

La ricostruzione del centro storico, la stesura della rete informatica, il servizio comunale d’assistenza, comportano dei problemi finanziari che possono essere affrontati debitamente con l’istituzione di una banca pubblica, in grado di emettere titoli collocabili sul mercato internazionale.


10. Ricostruire il rapporto tra la città e i suoi casali.

Il comune promuove l’associazione tra le città della valle del Crati per dar luogo a una comunità urbana bruzia capace di rilevare i poteri e la non attività dell’attuale provincia. 11. La città si divide in una molteplicità di comuni.

L’esercizio ordinario del potere comunale è automaticamente delegato alle rappresentanze di quartiere o rione o contrada.

La giunta comunale si configura non come il ministero del sindaco, ma come assemblea dei sindaci dei diversi rioni.


12. Il tempo è locale per sua natura. Il comune è il padrone del tempo comune e lo governa tramite il calendario urbano.

Il tempo, la sua definizione nonché il disporre di esso, è, fin dall’invenzione dell’orologio pubblico e ancor prima, materia del contendere sociale, della discordia. Ciò che davvero può cambiare, e cambia, è l’apprensione comune del tempo.

Il calendario civile – orari di negozi, scuole, uffici ecc. – deve essere ritmato sulla temporalità della città. Esso non può essere forzato dentro l’astratto tempo dello Stato nazionale, senza mutilare l’autenticità. Il tempo bruzio non è mai stato uguale a nessun altro, meno che mai al longobardo o al celtico.

Il comune istituisce un calendario cittadino rispettoso del clima, non spregevole, che ci è toccato in sorte; e cadenzato dalle «Feste Comuni», segno tangibile di una morale urbana devota al piacere.

Queste feste, fin da subito almeno quattro per celebrare le stagioni, non sono vacanze o parties affollati da sconosciuti. La festa non è evasione, divertimento – semmai il suo contrario; simile, in questo, alle antiche danze orgiastiche urbane, dove la città, ebbra, è sensualmente presente a se stessa.

E proprio a causa di questa natura sacra, la festa, l’abitudine alla festa, produrrà, leggero come un miracolo, il ritorno delle tecniche e dei ruoli che all’attività del festeggiare sono uterinamente legati: calzolai, ambulanti, attori, ciechi dal bianco sorriso, poeti, profeti, pittori, sarti, folli, falegnami, barbieri, giocolieri, storpi privi di handicap, perdigiorno, fornai, paninari – un mondo di odori, colori, suoni, sapori, contatti corporei che, forse, sono emozioni non più capaci di appagare da sole l’anima disincantata del cittadino che ha compiuto il viaggio nella modernità; senza le quali però, ormai lo abbiamo per certo, viene meno il senso del vivere urbano, l’animalità sociale dei cittadini.


Immagine: Gianfranco Brusatore. Quattro volti nella folla, 2001

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