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Il popolo a-venire come esercizio della pratica del conflitto





Qual è il destino politico delle opere e dei concetti di Deleuze e Guattari? Nel suo volume Come imporre un limite al capitalismo (appena pubblicato per i tipi di ombre corte), Jun Fujita Hirose sostiene la necessità di rileggere la trilogia dei due filosofi francesi (L’anti-Edipo del 1972, Millepiani del 1980 e Che cos’è la filosofia? del 1991) per rilanciare il pensiero rivoluzionario contemporaneo. In questo testo Federico Chicchi dialoga con il libro dello studioso giapponese, evidenziandone i meriti e le questioni aperte.


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Ci troviamo di fronte a un vero e proprio mistero della filosofia: l’opera di Gilles Deleuze e di Felix Guattari appare ai più dimenticata proprio nel momento in cui la loro macchina concettuale sembrerebbe essere indispensabile per muovere contro la pestifera e intollerabile tossicità del capitalismo contemporaneo. Nel 2020 è passato praticamente inosservato il quarantennale della loro opera più grandiosa: Mille piani, e sotto silenzio, sta trascorrendo quest’anno, il cinquantennale de L’anti-Edipo. Quali possano essere le ragioni di tale trascuratezza (se non addirittura di ostilità) culturale e politica non è davvero facile a comprendersi. Certamente complici sono il linguaggio particolarmente oscuro e a tratti impenetrabile di queste straordinarie opere e l’evidente difficoltà a tradurre le loro argomentazioni rivoluzionarie nelle prassi dei sempre più frammentati gruppi anticapitalistici. A onor del vero, recentemente ci sono state delle interessanti proposte che hanno tentato una riattualizzazione di alcune categorie dei due pensatori. Ad esempio, il concetto di governamentalità algoritmica avanzato da Antoinette Rouvroy ha avuto l’indubitabile pregio di descrivere le coordinate normative del capitalismo digitale a partire da alcune delle più significative intuizioni sulla società del controllo di Gilles Deleuze. I lavori sulla «società automatica» della filosofa del diritto belga restano però praticamente (e colpevolmente) sconosciuti in Italia e all’orizzonte non sembrano ravvisarsi rilevanti controtendenze a riguardo.

Diversamente e proprio per questa ragione il volume del giapponese Jun Fujita Hirose presentato in Italia dalla casa editrice ombre corte di Verona (nella sua ricchissima collana cartografie), acquista un valore del tutto particolare. Il testo di Hirose, infatti, mostra in modo molto convincente come sia possibile (se non doveroso) recuperare la trilogia di Deleuze e Guattari (L’anti-Edipo del 1972, Millepiani del 1980 e Che cos’è la filosofia? del 1991) per sostenere il rilancio del pensiero rivoluzionario contemporaneo. Che sia chiaro, Hirose attraverso questo volumetto (splendidamente curato e tradotto dallo spagnolo da Nicolas Martino) non rilascia certo – semmai fosse possibile – una esegesi complessiva e puntuale della praticamente inesauribile densità concettuale delle opere nate dal connubio elettivo tra Deleuze e Guattari. Esso ci fornisce, però, una lettura convincente, intrigante, e seppur parziale, sorprendentemente chiara delle loro opere, mostrandocele come strumenti indispensabili per mettere in tensione il capitalismo con quello che viene da lui definito il limite assoluto del suo funzionamento sociale. Vediamo di seguito alcuni dei ragionamenti proposti dall’autore a riguardo.

Abbiamo credo oramai tutti afferrato che il capitalismo secondo i due autori francesi funziona secondo una logica assiomatica, che si caratterizza, in primo luogo, per la sua capacità di spostare/allargare i propri limiti operativi a seconda del tipo di resistenze che si organizzano contro di esso. Questo dona al capitalismo, rispetto alle società che l’hanno preceduto, un’inedita e peculiare plasticità. Potremmo addirittura sostenere, non forzando a nostro avviso la prospettiva deleuziana-guattariana, che il capitalismo funziona – assicurando l’accumulazione delle necessarie quote aggiuntive di valore – articolandosi in un movimento altalenante che continuamente scioglie e al contempo consolida i limiti al suo intrinseco funzionamento espansivo. Questo permette infatti al sistema di toccare terra e di riorganizzare, dentro un orizzonte di più generale e progressiva de-territorializzazione dei suoi processi, le codificazioni sociali e gli schemi gerarchici e normativi che presiedono alla sua necessaria riproduzione sociale. La determinazione di un limite assicura, infatti, la definizione e la misura degli interessi in gioco e la loro contabilizzazione. Il superamento dello stesso procura poi la possibilità dell’allargamento dei processi di valorizzazione quando questi ultimi cominciano a mostrare eccessive problematicità. Per tale ragione il capitalismo si organizza e si rilancia sempre a partire dai limiti (ostacoli, Schranken, avrebbe detto Marx) che gli si pongono davanti e sembra così difficile incepparne e risolverne il funzionamento una volta per tutte. Il pregio del volume di Hirose, ripercorrendo le opere comuni di Deleuze e Guattari, si posiziona proprio all’altezza di questo problema: come arrivare a consolidare un limite assoluto (e quindi non metabolizzabile) del capitalismo, capace in quanto tale di innescare un processo di superamento dello stesso?

Ecco perché Hirose apre il suo libro sottolineando come i lavori di Deleuze e Guattari debbano essere sempre considerati, come da loro pubblica ammissione, in continuità con la prospettiva aperta dal marxismo. Questa scelta non è casuale ed è importante per due ordini di ragioni. La prima riguarda la necessità di evitare di sviluppare l’argomentazione filosofica sulla politica dentro un ragionamento vuoto e astratto, collocandola invece sempre dentro l’analisi del sistema capitalistico. La seconda di considerare che tale analisi critica non possa mai stabilirsi una volta per tutte, e debba, diversamente, ricominciare da zero ogni volta che il capitalismo inaugura una nuova e storicamente determinata modalità di organizzazione sociale. Più specificamente «non è esatto dire che Deleuze e Guattari hanno analizzato il capitalismo e le sue fasi di sviluppo come si davano nel momento in cui stavano scrivendo ciascuno dei libri del trittico. Quello che hanno fatto nel loro trittico è stato, piuttosto, tornare ogni volta ad analizzare il capitalismo da zero, dal punto di vista della nuova fase di sviluppo, inventando un nuovo insieme di concetti» (p. 13). Secondo Hirose è così necessario rintracciare nell’opera dei due intellettuali francesi tre diverse proposte di filosofia politica (ognuna collocabile all’interno di una delle loro tre specifiche opere) che non possono, e non devono, essere mescolate tra loro perché affrontano la questione del limite del capitalismo così come quest’ultimo l’organizza in quel particolare momento. Al di là di questo, su cui torneremo tra poco, occorre ci pare anche chiedersi se qualcosa rimane invece invariato nel funzionamento del capitalismo e quindi nel tipo di azione che è possibile rivolgergli contro. Questo è un passaggio molto importante che serve a Hirose a imbastire tutta la sua argomentazione successiva. Ciò che permette di far saltare le strutture di base del capitalismo sarebbe in ogni caso, per l’autore, il passaggio dalle manifestazioni di interesse (delle controcondotte) alla manifestazione di desiderio: «è la manifestazione del desiderio che costituisce il limite ultimo per il sistema capitalista immanente, mentre nessuna manifestazione di interesse, per quanto radicale o rivoluzionaria possa essere, costituisce per esso qualcosa di diverso dal suo penultimo limite e non sfugge al piano del capitale» (pp. 14-15).

Quali sono allora le forme di conflittualità che è possibile rintracciare nella celebre trilogia di Deleuze e Guattari per contrastare e quindi rivoluzionare lo stato delle cose presente? Come abbiamo già sottolineato non è possibile, secondo Hirose, applicare sempre la stessa tattica di lotta ed è altrimenti necessario regolare il divenire rivoluzionario all’interno della congiuntura raggiunta dal sistema capitalistico in uno specifico momento del suo sviluppo. A riguardo ne L’anti Edipo (ricordo che il volume è scritto durante le lotte di fine anni Sessanta e inizio Settanta del Novecento) per produrre un taglio di desiderio all’interno degli interessi di classe (della classe proletaria) occorre formare quello che Deleuze e Guattari chiamano un gruppo-soggetto. «Ecco la tesi centrale dell’Anti-Edipo: l’autocontrotaglio proletario è l’unico capace di de-assiomatizzare i flussi decodificati assiomatizzati. Di farli scorrere sul “corpo senza organi”, e di trasformare il gruppo assoggettato proletario in un “gruppo-soggetto”, il cui investimento inconscio nel campo sociale non è più reazionario o paranoico, ma rivoluzionario e “schizoide”» (p. 35). Echeggiano evidentemente qui le parole d’ordine del maggio parigino e il suo bagaglio di rivendicazione artistica. Il gruppo-soggetto si forma così nel taglio desiderante, supera la sua composizione di interesse e produce un diluvio libidinale che non permette di gestire la crisi attraverso la risposta assiomatica del sistema. Oggi sappiamo, però, che non è stato proprio il diluvio l’esito di quei favolosi momenti.

In Mille piani (scritto all’inizio del riflusso che caratterizzerà gli anni Ottanta) la musica cambia. L’asse (metaforicamente geopolitico) Nord-Sud diventa più importante dell’asse Ovest-Est, che aveva caratterizzato l’epoca precedente. La lotta rivoluzionaria ora si sposta dalle mani del proletariato alle minoranze (e sull’asse centro-periferia). Mille piani è un’opera straordinariamente complessa e articolata e noi possiamo qui rendere conto in modo molto circoscritto e parziale delle questioni che Hirose ci propone a riguardo. L’accento è posto sulle lotte minoritarie: «di fronte a un tale fiorire di lotte minoritarie nella periferia e nelle enclavi interne del centro, insieme alla formazione di una maggioranza attraverso il patto di classe socialdemocratico tra la borghesia e il proletariato nel centro, i due filosofi si resero conto che gli elementi rivoluzionari non potevano più essere trovati nei proletari, ma nelle minoranze». Possiamo dire, seguendo ancora Hirose, «che da L’anti-Edipo a Mille piani, gli autori passano dalla tattica leninista a quella guevarista, anche se la strategia rimane invariata e consiste nel divenire-rivoluzionario del mondo intero» (p. 58). Tale prospettiva è proposta dai due filosofi francesi nel momento in cui il capitalismo assiomatico organizza il processo di accumulazione attraverso una dinamica che fa dello spostamento del valore dalla periferia al centro il suo modo prevalente di funzionare. Il mondo che viene formandosi a partire dalle linee di minorità spezza la catena assiomatica capitalistica in quanto la connessione che si può costituire tra le linee, l’«e» che si produce tra gli elementi, rende innumerabile e quindi non assiomatizzabile queste nuove molteplicità. Ciò che conta è così in questa fase la produzione di risonanze molecolari che entrando tra loro in connessione producono stati di forte instabilità che determinano la possibilità dell’insorgenza di un evento. È in questo senso che qui Deleuze e Guattari parlano di soluzione creativa, come capace di portarci fuori dal piano capitalista.

In Che cos’è la filosofia?, l’ultimo testo della loro trilogia, i due autori francesi spostano l’attenzione su di un altro tipo di divenire: il divenire animale. «Si diventa animali perché anche l’animale diventi altro da sé» (Cf., p. 103). In questo testo del 1991 in effetti prevale una certa rassegnazione. Non so però se il termine rassegnazione sia quello giusto. Come sottolinea Hirose, in quest’ultima opera non c’è più nessuna lotta minoritaria che possa portare alla vittoria. Ciò che sorprendentemente prende la scena è invece l’agonia intollerabile delle vittime del capitalismo; in altre parole, sono le sofferenze inaudite e lo sterminio delle minoranze a essere le protagoniste dell’opera. In questo contesto di totale aberrazione avviene forse la torsione più sorprendente dei due autori, la stessa che non ci aspettavamo: le vittime, rappresentate dalla condizione animale, non hanno più nessuna possibilità di riscattarsi da sole, e per questa ragione, occorre costruire un nuovo umanitarismo che abbia lo scopo di portare a galla la vergogna dell’essere uomo e innescare così un processo di de-territorializzazione animale, capace di rispondere e quindi finalmente di farsi carico dell’urlo soffocato dell’animale.

Attenzione però perché, come precisa molto bene David Lapoujade i divenire non avvengono a livello molare, ma al livello molecolare delle potenze o delle molteplicità. Il divenire-animale non mette cioè in relazione diretta l’uomo con l’animale presi individualmente a uno a uno, ma diversamente congiunge la potenza che compone l’animale con l’affettività che l’uomo sente manifestarsi in sé in presenza dell’animale. In questo senso si apre un nuovo scenario politico basato sul divenire animale: «divenire è il sentimento che queste potenze sono prese in un destino comune» (Lapoujade, p. 295). «Il divenire sensibile è l’atto in virtù del quale qualcosa o qualcuno non cessa di divenire-altro (continuando a essere ciò che è)» (Deleuze e Guattari, 1991, p. 177). Se dunque è l’affetto che ci riconsegna al politico, questo è in virtù del fatto che diveniamo il popolo che l’intollerabile fa sollevare.

In conclusione, vorremmo proporre un paio di riflessioni. La prima riguarda la necessità (che questo volume ci mostra) di pensare a nuove armi della critica anticapitalistica. Quelle proposte dai due autori francesi nelle loro opere e in modo così suggestivo descritte da Hirose sono infatti fondamentali, ma devono essere ricomposte e ripensate in una tattica adeguata al presente. La seconda. Condividiamo l’importanza che l’autore giapponese rivolge al tema del desiderio come limite del capitalismo: è solo desiderando ardentemente un altrove che possiamo trovare un varco dentro gli strati incrostati del capitalismo. Resta però un problema: quello di ben intendere che lo stesso desiderio, lontano dal rappresentare una falda inaccessibile e purificata del vivente (e quindi una figura di limine assoluto del capitalismo), è anche lo spazio dove la cattura capitalistica, resa possibile dalle nuove tecnologie algoritmiche, muove oggi le sue azioni più subdole e predatorie. Insomma, occorre, applicando le stesse coordinate metodologiche proposte da Hirose a partire da Deleuze e Guattari, considerare lo stesso desiderio come un vero e proprio campo di battaglia dove, da un lato grazie a esso si può consolidare una linea di fuga dal sistema e dall’altro però si precisa qualcosa che potrebbe essere influenzato, corrotto e messo a sua volta a valore dal sistema. Insomma e ancora, benissimo fare l’elogio dei margini, nella consapevolezza politica però che questi stessi margini sono anche i luoghi dove il capitalismo organizza la sua cattura per favorire assiomaticamente l’accumulazione continua del valore e che quindi, per sfuggire all’assioma, occorre produrre (e desiderare!) nella frattura che il margine produce una pratica conflittuale all’altezza del presente.

Se facciamo riferimento, a titolo di esempio, ai sistemi algoritmici che si occupano di «sicurezza» e al sempre più diffuso desiderio di protezione sociale che li origina, ci rendiamo facilmente conto che nel perseguire il governo di tali obiettivi il capitalismo contemporaneo produce una nuova temporalità in cui passato, presente e futuro appaiano sempre meno distinguibili. In altre parole, il sistema tenta di aderire immediatamente a una realtà da evitare, che si verifica solo in quanto non si manifesta compiutamente, ed è così presente solamente nella sua continuamente agitata e spettrale aleatorietà. Ecco allora che il potere agisce in modo da gettare esche, tracce e segni capaci di incidere sulla qualità e sulla genesi degli stessi flussi desideranti, flussi che in questo caso desiderano l’evitamento dell’insicurezza sociale. I segnali che troviamo disseminati nei media costituiscono infatti una sorta di focolai di proto-enunciazione che suggeriscono surrettiziamente, rendono possibile immaginare e desiderare, incitano, incoraggiano, o al contrario impediscono, azioni, pensieri, affetti senza che sia possibile rendersene pienamente conto. La nuova tattica, tutta da costruire, deve così partire dai conflitti esistenti allo scopo di disinnescare tale inedito e narcotizzante cortocircuito spazio-temporale che le nuove tecnologie digitali rendono possibile.

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