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Il militante senza qualità




«È un concetto vano quello di compiere il proprio dovere nel posto che ci è assegnato; si sciupano forze enormi per nulla; il vero dovere è scegliere il proprio posto e piegare consapevolmente le circostanze».

(R. Musil, L’uomo senza qualità)

0. Riprendiamo la corretta scansione temporale proposta da Lanfranco Caminiti e Chiara Scaletta. Il loro ragionamento comincia tra Seattle 1999 e Genova 2001, eventi simbolici e periodizzanti del movimento no global. Lì si chiude, per un piccolo ma significativo noi, un ciclo: quello dei centri sociali. Diremmo di più: il ciclo del «Movimento», inteso come spazio di organizzazione politica che ha le proprie radici nell’anomalia forte del lungo Sessantotto italiano. Tra il «Movimento» rappresentato negli anni Novanta dai centri sociali e il movimento no global c’è un salto non solo spaziale, ma di soggettività e forma di azione organizzativa. La geografia dei gruppi di «Movimento», nel bene e nel male ereditata dagli anni Settanta, si esaurisce a fronte dell’emergere di un nuovo spazio di mobilitazione.

1. Quel nuovo spazio di mobilitazione presenta delle caratteristiche potenzialmente forti e altre concretamente deboli. L’elemento principale è che si apre dentro e contro la globalizzazione capitalistica e l’unificazione del mercato mondiale, incrinandone certezze e retoriche, riportando all’ordine del giorno la questione del conflitto sociale. È il periodo in cui la new economy entra in crisi, mentre le magnifiche sorti e progressive della flessibilità iniziano a svelare il volto della precarizzazione della vita e del lavoro. Il velo della promessa globale capitalistica comincia a squarciarsi, e si affaccia sulla scena un soggetto globale potenzialmente antagonista. Questo soggetto è multiforme, si materializza di evento in evento esercitando anche la forza (probabilmente troppo poca e in modo troppo ingenuo), fatica a condensarsi e radicarsi dentro la quotidianità dei rapporti sociali di produzione e riproduzione. Non riesce a divenire classe, per farla breve. Resta un soggetto liquido, per restare al gergo proprio di quel periodo. A cui corrisponde una militanza liquida. Tant’è che, cedendo alla moda anglosassone, il militante lascia il posto all’attivista. Il mettere in gioco la propria vita, rivoluzionarla collettivamente, lascia il posto alla buona coscienza, che talvolta viene poi messa a valore nell’industria umanitaria, oltre che in quella istituzionale. E qui sta la concreta debolezza.

2. Lì, dicevamo, si esaurisce il ciclo dei centri sociali e del «Movimento». Il non averlo capito, l’aver subito e non agito quella crisi, l’aver riprodotto artificialmente un cadavere anziché mettere fine all’accanimento terapeutico, è la radice della nostra miseria presente. Alla scommessa di un salto in avanti si è preferita la tranquilla gestione della marginalità. Del resto, in quello spazio di mobilitazione del movimento no global – parliamo dell’Italia – si è pensato di poter agire in continuità con le pratiche, le forme, i tic e i cliché del ciclo esaurito. Il risultato è evidente: l’incapacità di affrontare il problema dell’organizzazione all’altezza delle potenzialità e delle debolezze sopra accennate. I social forum sono diventati presto, diremmo ab origine, dei parlamentini di mediazione tra gruppi, associazioni, partiti. Una malriuscita caricatura dei soviet. Esauritosi quello spazio di mobilitazione, cessati gli eventi, terminata l’effimera fase «no war», le botteghe di «Movimento» hanno pensato di poter finalmente proseguire con le loro normali attività di amministrazione dell’esistente. Business as usual.

3. Qualche anno dopo, in Italia, un’altra mobilitazione periodizzante. L’onda lunga della promessa del capitalismo globale crolla bruscamente: è il tempo dell’Onda, «noi la crisi non la paghiamo». Nelle assemblee del 2008 prende parola una generazione nuova, che avverte il tradimento della promessa, si sente derubata del futuro e vuole che le venga restituito il maltolto. Per questo non esita a far appello alla meritocrazia, perfino alla legalità e ai giudici: se facciamo fuori i corrotti potremo riavere ciò che ci spetta. Dentro quei comportamenti c’è un’ambiguità, concretamente inquietante e potenzialmente produttiva, che fatichiamo a comprendere: certo, si perde la dimensione strutturale dei processi e si ricorre all’odioso lessico meritocratico; e tuttavia, questa generazione individua con facilità i nemici e, quando occorre, agisce contro di essi senza farsi eccessivi problemi. Prevale, da parte dei militanti, pardon attivisti di «Movimento», una sorta di atteggiamento pedagogico nei confronti degli studenti, anziché una capacità di inchiesta. Il risultato è una giustapposizione dei gruppi politici alla composizione reale, il tentativo di rappresentarla senza afferrarla materialmente. In Italia il cosiddetto «populismo» – termine inappropriato per varie ragioni che non è qui la sede per affrontare – nasce proprio dalla sconfitta dell’Onda. Nella misura in cui quei sentimenti, quei comportamenti, quelle attitudini ambivalenti non trovano uno sbocco in processi di organizzazione autonoma, diventano rappresentabili in una forma istituzionale, ancorché caoticamente atipica e per un non breve periodo aperta a più direzioni. Da allora, dici Movimento e la gente intende i 5 stelle. Quell’altro «Movimento» continua a sopravvivere artificialmente attaccato ai sempre più sgangherati respiratori dei centri sociali.

4. Il cosiddetto «populismo», divenuto una tendenza sul piano internazionale, sussume i campi lasciati vuoti: la critica della globalizzazione, la crisi del ceto medio, l’abbandono e marginalizzazione di disoccupati e periferie sociali. E li piega talora nella direzione di un mistificato scontro e ricambio tra élite, talaltra in una direzione tecnocratica o di innovazione istituzionale – si veda la parabola dei 5 stelle italici, ma anche di Podemos, che pure ha altri riferimenti ideologici e nasce dalle acampadas spagnole. Il punto non è accusare i malfattori dei partiti «populisti» che ci hanno scippato la trasformazione per conservare lo status quo. Il punto è che non siamo stati in grado di stare dentro le faglie sociali che si sono aperte nella crisi e piegare quei pezzi di composizione in una direzione opposta. Si potrebbe dire che ha prevalso la tendenza più probabile, ed è vero; la questione, però, è che non era l’unica possibile. Proprio qui, del resto, nello scontro tra probabilità e possibilità, si situa lo spazio dell’iniziativa politica rivoluzionaria. La crisi della militanza aveva lì l’occasione per rovesciarsi, di reinvenzione.

5. Nel gennaio del 2012 in Sicilia, e poi il 9 dicembre dell’anno successivo a Torino, compare un movimento strano, fatto di piccolissimi imprenditori e disoccupati, di mercatari e giovani, di gente che viene dalle campagne, dalle città, dalle periferie. Sono figure molto diverse tra di loro, hanno in comune che sono stufi di pagare i costi della crisi al posto di chi l’ha creata (ovviamente non mancano affatto personaggi loschi o caricaturali, come sempre avviene quando i movimenti sono reali). C’è chi vorrebbe tornare alla condizione di relativa agiatezza che aveva prima, c’è chi è incazzato perché quell’agiatezza non l’ha mai avuta. Magari i primi in altri periodi avrebbero sfruttato i secondi, ma ora si sentono un po’ dalla stessa parte. Li chiamano i «forconi», durano abbastanza poco, è il primo movimento che in Italia esprime la rabbia di un ceto medio colpito e declassato. Non è un ceto medio che possa o voglia occuparsi dei grandi temi ideali, come il «no war». È incazzato perché toccato nei suoi interessi, però capisce anche che per recuperarli ha bisogno di mettersi insieme ad altri e fare una cosa che, quando era ceto di mediazione e diga rispetto alla contrapposizione di classe, era pagato per evitare: lottare. La sinistra italiana, istituzionale e di «Movimento», li ha bollati come fascisti o oggettivamente reazionari. Quando qualche anno dopo è venuto fuori un altrettanto strano movimento, questa volta in Francia, con delle buffe pettorine gialle e che ha iniziato a occupare le strade e le rotonde per non far aumentare il prezzo della benzina, i giudizi si sono ribaltati, e ognuno ci ha proiettato il proprio wishful thinking. Tanto a distanza di sicurezza dalla possibile smentita pratica ogni fantasia ideologica è lecita e i conti tornano sempre.

6. Quello di occupy ha costituito indubbiamente un ciclo importante, per tante ragioni che si sono più volte argomentate e che non è qui il caso di ripetere – non in Italia: il «Movimento» si è rivelato ancora una volta un tappo. (I movimenti internazionali di donne e, su un piano diverso, le mobilitazioni ambientaliste meritano discorsi e approfondimenti specifici, che ci piacerebbe fare con lo spazio che meritano.) Abbiamo però l’impressione, e non certo da oggi, che siano stati proprio quelle strane mobilitazioni a prefigurare le caratteristiche dei movimenti a venire dentro la crisi permanente. Diremmo che sono stati dei segnali, dei sintomi prefiguranti. Crisi economico-finanziaria, crisi sociale, crisi pandemica, crisi di civiltà. Crisi del ceto medio, crisi della promessa di progresso. Movimenti ben più che strani: ambigui, sporchi, bastardi, venati dalla follia, aperti a tutte le direzioni. Ci piacciono? Non ci piacciono? È irrilevante. Benvenuti nel deserto del reale. O anticipiamo delle possibili tendenze di minoranza, o sarà inutile lagnarsi del prevalere della probabilità di maggioranza. Le profezie che si autoavverano, il «ve l’avevo detto io, miei cari», non sono cose da militanti. Se ancora ne esistono.

7. Arriviamo all’oggi, a questi giorni, alle rivolte «no lockdown». Non per farne la cronaca, ma per inquadrare l’analisi. Ancora una volta strani movimenti, che sfuggono alle categorie interpretative a cui siamo (decisamente troppo) affezionati. «Negazionisti» e «responsabili», su cui si sono divisi i follower di destra e sinistra, c’entrano poco o nulla. Virus o non virus, pericolo di morte o enfatizzazione mediatica, in piazza cominciano a riversarvi persone che non ce la fanno più a sopportare un clima di paura, che non vogliono essere posti di fronte al ricatto governativo se crepare di covid oppure di fame, se ammalarsi di polmonite interstiziale o di depressione, che pensano che adesso davvero ci stanno prendendo per il culo, e che sono stufi di pagare i costi della crisi, ora pure di quella sanitaria. Ceti medi già declassati o che temono di esserlo, si trovano vicino a precari e disoccupati che il futuro non l’hanno mai conosciuto o non se lo ricordano più, e poi giovani a cui hanno tolto tutto, ora perfino il bar, il calcetto e lo stadio, e mo proprio basta. Questa babele sociale precipita e si infiamma, soprattutto e non a caso, dentro i contesti urbani e metropolitani. In una quotidianità segnata da un clima e un linguaggio mortuari, ribellarsi è l’unico modo per vivere, per tornare a respirare. We can’t breath: i riot negli Stati Uniti, lì evidentemente profondamente segnati dalla questione della razza, sono poi così avulsi rispetto a queste tensioni?

Vediamo almeno tre rischi da evitare: estetizzare la rivolta, bollarla come fascista ovvero ricondurla alle esauste coordinate destra-sinistra, appiccicare delle parole d’ordine estranee alla sua caotica composizione soggettiva. Per una volta, allora, proviamo a farci spiazzare radicalmente, a concentrarci sulla discontinuità netta dei movimenti a venire rispetto a ciò a cui siamo stati abituati, a evitare un continuismo che è sinonimo di pigrizia mentale, di autodifesa di un orticello ormai insignificante, di ostinato negazionismo della crisi della militanza. Questa volta i conti ideologici e politici proprio non tornano, ed è qui che si apre uno spazio di possibilità.

Siamo ancora in tempo? Chissà. In ogni caso, non ci sono alternative al provarci interamente. A meno che non vogliamo conteggiare anche la possibilità di reinventare la militanza tra i morti col – e non certo di – covid. Non si tratta di consolarsi con le massime di Mao, di pronosticare se andrà tutto bene o andrà tutto male. Parafrasando quell’altro, ci limitiamo a constatare che – ci piaccia o no – la confusione sotto il cielo è nelle cose, non nelle parole che descrivono le cose. Se la situazione sarà eccellente dipende da noi, o almeno anche da noi. Conquistare l’anno zero non significa cancellare la nostra storia. Al contrario, significa la decisione soggettiva di farla ricominciare. Il nostro angelus novus ha un cuore antico e occhiali nuovi.

…to be continued…

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