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Il governo economico degli individui

Sul Foucault di Adelino Zanini


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Da molti anni il lavoro di Adelino Zanini è stato uno strumento prezioso per quanti abbiano voluto indagare la genesi della problematica economica della modernità europea a partire (o in connessione con) il suo ordine discorsivo filosofico. Nei suoi studi su Smith, Marx, Schumpeter, l’ordoliberalismo, Zanini riesce sempre – tra l’altro – a mostrare la complessa trama che agisce nella determinazione a un tempo politica ed economica del mondo moderno. In questo quadro generale, nell’opera di Zanini riemerge sovente l’analisi foucaultiana della governamentalità neoliberale, considerata dal nostro autore un fondamentale e privilegiato punto d’osservazione sulla costituzione politico-economica del capitalismo e della sovranità statualistica: efficace strumento da tenere in conto, dunque, per accedere da un lato alla ricostruzione storico-genetica del liberalismo classico e, dall’altro, alla critica del paradigma neoliberale. Convinti che la ricerca di Zanini sia di rara utilità per riflettere sulla configurazione dell’ordine del discorso neoliberale, sulla sua crisi attuale e sulla sua genesi storica, dedichiamo una riflessione a Invarianze neoliberali. A proposito di Michel Foucault (con un saggio di G. Preterossi, Derive Approdi, Bologna 2024), recente lavoro nel quale l’autore ha da ultimo approfondito il suo studio su questi temi. Lo facciamo con una recensione di un giovanissimo studente di economia politica dell’Università Bocconi di Milano, neo- laureato in filosofia all’Università di Bologna, proprio per restituire questo il libro «economico-filosofico» con lo sguardo prospettico di chi aspira a coltivare il campo di studi che Adelino Zanini ha contribuito a seminare e che, a conferma del valore della sua ricerca, continua a essere percorso da nuove generazioni di studiosi in formazione.


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 Si presenta come un’indagine «decentrata», quella condotta Adelino Zanini in Invarianze neoliberali. A proposito di Michel Foucault (DeriveApprodi, 2024, con un saggio di Geminello Preterossi). Tanto perché prende ad oggetto «un problema centralmente periferico» (p. 10) dell’opera di Foucault – l’ordine del discorso economico –; quanto per la natura dell’indagine, che il testo mena a partire da una questione specifica, centro periferico dello studio: «l’analisi del potere o l’analisi dei poteri può, in un modo o in un altro, dedursi dall’economia?»[1]. Il quesito – posto in forma retorica – non conosce risposte piane, né è possibile, come Zanini avverte, compendiare in «formula» l’itinerario teorico descritto dall’opera del filosofo francese. Certo, il suo punto d’arrivo è noto, e il titolo del lavoro lo rivela: è «l’analitica della governamentalità neoliberale» ciò a cui, al fondo, approda la ricostruzione di Zanini (e la vivace postfazione di Preterossi lo conferma). Senza pretese totalizzanti, ma tenendo fermo il carattere provvisorio delle osservazioni che Foucault lascia, in particolare, alle pagine dei Corsi tenuti presso il Collège de France, Zanini intende gettar luce su tale interrogativo, nella forma di «un lungo commento a Foucault, entro "la possibilità indefinita del discorso" (economico) da lui resa possibile» (p. 11).

 

Si tratta, dicevamo, di un’operazione complessa, che prende le mosse da un consuntivo dell’«archeologia del sapere economico» (p. 11) che Foucault svolge, in particolare, ne Le parole e le cose (1966)[2]. Ad essere qui indagato è il complesso sistema dei saperi dell’âge classique: discorsi disparati – grammatica generale, storia naturale e analisi delle ricchezze – riposano su una comune episteme, la quale, in un sistema d’identità e di differenze, risponde al compito fondamentale «di attribuire un nome alle cose, e in questo nome di nominarne l’essere»[3]. Cadono dunque in errore i moderni quando si rappresentano la genesi dell’economia politica – e, più in generale, delle scienze umane – nella forma di un’evoluzione graduale, a mezzo di una progressiva accumulazione, di conoscenze disperse e «prescientifiche». In realtà, ciò che prelude alla nascita della political economy è la genesi di un nuovo ordine epistemico, in cui si defila la «trasparenza fra l’ordine delle cose e quello delle rappresentazioni che se ne potevano avere», e «le cose [si ripiegano] sul loro spessore e su un’esigenza esterna alla rappresentazione»[4]. Solo in tal modo «la storia naturale cede il posto alla biologia, la grammatica generale, alla filologia, l’economia politica prende il posto dell’analisi delle ricchezze» (pp. 17-18).

 

Pertanto, è solo con Smith e Ricardo che la figura della produzione guadagna la centralità che le spetta nell’economia politica, soppiantando lo scambio delle ricchezze e il gioco di rappresentazioni che lo fonda (p. 32). Con essa viene meno la trasparenza fra l’ordine delle cose e quello delle rappresentazioni, significata dall’analisi – propria dell’âge classique – dei rapporti tra ricchezza e moneta, e si impone al centro della scena un nuovo concetto – quello di lavoro, sostanza e misura del valore (pp. 29-30). Con Ricardo, in particolare, «il valore ha cessato d’essere un segno: esso è divenuto un prodotto»[5]; la circolazione procura uno scambio di equivalenti, ma non crea nessun valore. Ovvero (Marx): il produttore (detentore di capitale) deve trovare all’interno della sfera della circolazione una merce (il lavoro) il cui valore d’uso possegga la peculiare qualità di esser fonte di valore. Quale che sia il grado di precisione con cui il problema viene formulato, resta che la rappresentazione dello scambio data nell’analisi delle ricchezze risulta spiazzata in toto (p. 37). Contestualmente, agli inizi del XIX secolo muta l’intera disposizione del sapere, entro il quale prendono forma, ad un tempo, le nozioni di «storicità dell’economia (in rapporto con le forme di produzione)», di «finitudine dell’esistenza umana (in rapporto con la rarità e il lavoro)» e di «scadenza d’una fine della Storia, o in quanto rallentamento indefinito, o in quanto rovesciamento radicale». «Storia, antropologia e interruzione del divenire si appartengono reciprocamente secondo una figura la quale definisce, per il pensiero nel XIX secolo, uno dei suoi reticoli più importanti»[6].

 

In questa torsione, individuata da Foucault, Zanini riconosce i preludi delle ricerche che il filosofo francese svolgerà intorno alle pratiche di governo. La rilevanza del «fuori», che opacizza il trasparente rapporto tra ordine delle cose e delle rappresentazioni, spiega e richiede l’interrogazione delle pratiche delle scienze umane, e rinvia a ciò che quelle pratiche interamente pervadono – il bios, il vivente, oggetto di osservazione, sapere e intervento da parte del potere (pp. 44-46)[7].

 È a partire da tale considerazione che Zanini rivolge la propria attenzione agli «operatori di dominazione» – è il titolo del secondo capitolo del lavoro – che stanno al centro delle indagini che Foucault conduce nella seconda metà degli anni Settanta. A questo riguardo, un nodo decisivo è rappresentato dal Corso del 1975-76, «Il faut défendre la société». È qui che Foucault, ponendo termine ad una serie di ricerche frammentarie e infruttuose, rilancia la questione del potere – «l’analisi del potere o l’analisi dei poteri può, in un modo o in un altro, dedursi dall’economia?»[8]. La risposta è affermativa, ma ha da essere debitamente circoscritta. Quanto Foucault rigetta con decisione è l’«economicismo» che egli attribuisce tanto alla dottrina giudico-liberale, quanto alla concezione marxista: mentre la prima si figurerebbe il potere nella forma di un bene cedibile o acquistabile in conformità ad uno «scambio contrattuale», il secondo ridurrebbe il potere alla sua «funzionalità economica» di classe. «Nell’un caso, l’economia costituirebbe, attraverso il processo dello scambio, il modello formale del potere; nell’altro caso, ne rappresenterebbe la ragione storica» (p. 51). Se è chiaro che il rapporto tra economia e politica non prende le forme né della subordinazione, né dell’isomorfismo, una risposta compiuta sulla natura di tale nesso giungerà solo con i Corsi del biennio 1977-79 (p. 53). A quest’altezza, però, è già evidente che «per risituare l’ “ordine del discorso economico” è necessario buttar per aria l’“ordine del discorso politico” generatosi sul calco del Leviatano» (p. 55). Com’è noto, Foucault individua in questo passaggio una nuova «meccanica di potere», dotata di procedure specifiche, e rivolta innanzitutto ai corpi, organizzati in popolazione, piuttosto che alla ricchezza e ai prodotti della terra. Le tecniche governamentali vengono esercitate su esseri sociali dotati di «spessore» – esseri che vivono, lavorano, si ammalano – per mezzo di meccanismi regolatori e assicurativi che, senza esaurirsi nella political economy, fanno tuttavia perno su di essa e la comprendono al loro interno (pp. 57; 67). Prende insomma forma un’episteme specifica che, sulla scorta del concetto di popolazione, nel XIX secolo «si articolerà come lotta di classe, o come affrontamento biologico, razzismo di stato» (p. 68).

 

Queste intuizioni vengono approfondite durante i Corsi del 1977-78 e del 1978-79, dove Foucault ricostruisce partitamente i processi che scandiscono il passaggio da un «regime di sovranità» ad una topografia governamentale più complessa, in cui i dispositivi di governo e disciplinari riarticolano le prerogative dello stato moderno. L’economia politica, che nasce al servizio di questo programma, funge da punto di connessione tra governo della ricchezza e governo della popolazione (p. 86) e permette di far fronte alla «finitudine dell’esistenza umana», intonata alla perpétuelle carence e sovrastata dalla’imminence de la mort come minaccia costante e quotidiana (p. 93). Politica agricola, gestione delle risorse, sanità pubblica e amministrazione delle infrastrutture commerciali divengono funzioni della police statale, che si occupa della popolazione per incrementare le forze dello stato. Quanto ne risulta è un’immagine dello stato del tutto diversa da quella – hobbesiana – di una «macchina automatica»; sbalzano, invece, le figure plurali di una nuova governamentalità, di cui la political economy è parte integrante[9].

 

In questa genealogia trova posto il discorso economico liberale e neoliberale, a cui Foucault dedica vieppiù i propri interessi[10]. Prendendo in analisi prima il modello ordoliberale e poi, più succintamente, quello statunitense (p. 100), Foucault individua un rapporto di mutua interferenza tra sfera politica ed economica (p. 104). Nell’interpretazione ordoliberale, infatti, l’economia di mercato non emerge spontaneamente, né fa appello al laissez-faire, ma esige, di contro, un principio di formalizzazione, e quindi una decisione politica fondante. «In contrapposizione al liberalismo classico, la praxis governamentale è quindi pervasiva e penetrante, opera una Umsorgung, una presa in cura, e una vera e propria “Kultivierung des Marktes”» (p. 104). Ecco dunque che l’Ordnung governamentale codifica, attraverso gli strumenti del diritto, lo spazio dinamico dei mercati e della concorrenza (e rende così impossibili facili riduzioni ad un’unipolare «logica del capitale»). Lungi dal suggerire una banale apologia «atomistica» di un mercato lasciato a se stesso, il neoliberalismo rappresenta piuttosto una nuova tecnica di governo – ovvero, una pratica governamentale destatalizzata. Sotto questo profilo, «la crisi del keynesismo e del welfare a esso abbinato, più che essere intesa come il venir meno del potere di regolazione e controllo da parte dello stato, è interpretata come la riorganizzazione o ristrutturazione delle tecniche di governo, ora attribuite a individui "responsabili” o “razionali”» (p. 113)[11].

 

Zanini evidenzia con lucidità la portata di queste valutazioni. Essa non può essere sottovalutata, giacché in gioco è la possibilità stessa di pensare la plausibilità della sovranità economica. «Foucault mostra che l’art of government non è limitata al campo della politica nella sua separatezza dall’economico; piuttosto, il costituirsi di uno spazio concettualmente e praticamente distinto, governato da leggi autonome e da una propria razionalità, è in se stesso un elemento del governo “economico”» (p. 122). Si eclissa con ciò la possibilità di esercitare un controllo democratico sull’economia, laddove essa venga resa «autonoma», dotata di leggi e di una propria razionalità specifica? Non sembra pensarlo Zanini, che problematizza, in tema, una presunta (e certamente ambigua) «tentation libérale» di Foucault (p. 126 ss.), né paiono dimostrarlo i fatti degli ultimi decenni, segnati da crisi economiche ricorrenti, di fronte alle quali il mito ordoliberale di una governance globale anestetizzata dagli spettri dell’esercizio democratico – quand’anche sotto la forma delle politiche di monetary dominance delle banche centrali – risulta ormai insostenibile. La governance globale entra tanto più in crisi, quanto più la discrezionalità, di cui essa si nutre, leva le basi dell’ordine che essa intendeva affermare. In altra sede, Zanini rilevava che, in un cortocircuito ultramoderno, il generalizzarsi del concetto di crisi mina la possibilità di de-cidere sulle possibilità aperte dalla crisi stessa. Anziché essere il momento di una scelta risolutiva, la crisi si fa ineffettuale e diventa condizione patologica. Questa crisi della crisi originerebbe dall’incapacità, da parte dello stato sovrano, di «mettere in atto una ritrascrizione politica (sovra)-nazionale, di cui, in questo momento, disperatamente necessita»[12]. L’analisi, sia pure acuta, non toglie al lettore un certo senso di spaesamento. Al fondo, la logica generale della crisi ultramoderna, descritta con vasta dottrina da Zanini, dice poco sia sulla natura specifica delle crisi che viviamo, sia sul soggetto a cui la risoluzione della crisi andrebbe ascritta; sicché entrambi si presentano sotto il segno dell’astrazione. In Nascita della biopolitica, Foucault notava che «l’economia è una disciplina senza totalità»[13]: è su questo terreno – quello della policrisi[14] e della surdeterminazione di contraddizioni plurali, non sussumibili in un’unità semplice – che è possibile dare principio ad analisi specifiche delle pratiche economiche e (bio)politiche. Piuttosto che liquidare frettolosamente il concetto di sovranità (economica), o di incensarlo sull’altare dello Stato-nazione – in fin dei conti, si tratta di due operazioni altrettanto superficiali –, occorrerebbe approfondire lo studio delle pratiche di dominio, delle strutture istituzionali e dei processi di accumulazione, distribuzione e circolazione del capitale, attraverso cui il potere circola e la sovranità si compone. Foucault ci aiuta a superare un’immagine unilaterale, e francamente inadeguata, dello Stato e dei meccanismi di dominio. Questo Foucault ha ancora molto da dirci. Sul terreno dell’economico, però, i risultati a cui egli perviene non raggiungono lo stesso grado di consapevolezza del metodo che egli codifica. In una formula, probabilmente un poco consunta, occorre spingere Foucault oltre Foucault. Qui, molto lavoro resta ancora da fare. La ricostruzione di Zanini indica, forse, non una via da seguire, ma un’eredità da accogliere e da meditare.



Note

[1] M. Foucault, «Bisogna difendere la società». Corso al Collège de France 1975-1976, Feltrinelli, Milano 2009, p. 17 (ed. or. «Il faut défendre la société». Cours au Collège de France. 1975-1976, Seuil-Gallimard, Paris 1997).

[2] M. Foucault, Le parole e le cose. Un’archeologia delle scienze umane, Rizzoli, Milano 1967 (ed. or. Les mots et les choses, Gallimard, Paris 1966).

[3] M. Foucault, Le parole e le cose, cit., p. 139.

[4] M. Foucault, Archivio Foucault. Interventi, colloqui, interviste. 1. 1961-1970, a cura di J. Revel, Feltrinelli, Milano 1996, pp. 113-114 (ed. or. Dits et écrits, tome 1, Gallimard, Paris 1994, p. 50).

[5] M. Foucault, Le parole e le cose, cit., p. 275.

[6] Ivi, p. 284.

[7] Su questo punto, sarebbe utile estendere il confronto con Marx, a partire dal ruolo decisivo che in esso assume la triangolazione di forza lavoro, lavoro vivo e lavoratore. Cfr. M. Tomba e R. Bellofiore, «Letture del “Frammento sulle macchine”», Quaderni Materialisti, nn. 11–12 (2013), p. 161.

[8] M. Foucault, «Bisogna difendere la società», cit., p. 17.

[9] M. Foucault, Sicurezza territorio popolazione. Corso al Collège de France 1977-1978, Feltrinelli, Milano 2005, pp. 92-93 (ed. or. Sécurité, territoire, population. Cours au Collège de France. 1977-1978, Hautes Études, Gallimard-Seuil, Paris 2004).

[10] M. Foucault, Nascita della biopolitica. Corso al Collège de France 1978-1979, Feltrinelli, Milano 2005 (ed. or. Naissance de la biopolitique. Cours au Collège de France. 1978-1979, Hautes Études, Gallimard-Seuil, Paris 2004).

[11] Occorre tuttavia rilevare l’assenza, in Foucault, di una compiuta analisi dei concreti «modi di regolazione» dell’economia. In proposito, quale modello paradigmatico, cfr. M. Aglietta, Régulation et crises du capitalisme : l’expérience des États-Unis, Calmann-Lévy, Paris 1976. Su ciò, inoltre, andrebbe rilanciata una discussione critica sull’ambigua eredità del «foucaultismo» nell’ambito delle scienze sociali. Oltre alla postfazione di Preterossi, che mette a tema questi problemi, si veda, ad esempio, Adam Tooze, «Neoliberalism’s World Order», Dissident Magazine, 2018.

[12] R. Koselleck, Crisi. Per un lessico della modernità, introduzione a cura di Gennaro Imbriano e Silvia Rodeschini, postfazione di Adelino Zanini, ombre corte, Verona 2012, p. 97.

[13] M. Foucault, Nascita della biopolitica, cit., p. 231.

[14] A. Tooze, «Welcome to the world of the polycrisis», Financial Times, 28 ottobre 2022.


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Giacomo Orelli frequenta la laurea magistrale in Economic and Social Sciences (ESS) dell’Università Bocconi. Si è laureato in Filosofia presso l’Università di Bologna con una tesi sul pensiero di Claudio Napoleoni. Presso la stessa Università è stato allievo del Collegio Superiore, e ha trascorso periodi di studio presso la Sorbona e l’École Normale Supérieure di Parigi. Si interessa di storia del pensiero filosofico, filosofia dell'economia, economia politica, storia della moneta e della finanza.

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