Antropologia negativa o pensiero della rivoluzione?
- Gennaro Imbriano
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Sulla prospettiva di Carl Schmitt e Reinhart Koselleck

Inauguriamo questo spazio con una riflessione dedicata a due autori della tradizione storiografica e giuridico-filosofica del Novecento tedesco. Carl Schmitt e Reinhart Koselleck tematizzano, a partire dalla metodologia storico-concettuale, il rapporto tra crisi e ordinamento mediante un’indagine – quantomai utile e attuale – sull’uso ideologico del linguaggio politico, svelandone i presupposti. Il metodo genealogico della Begriffsgeschichte – pur non scevro da posizionamenti ideologici che si tratta di rintracciare – è un buon esempio di indagine storicamente consapevole e uno strumento (tra altri) utile al lavoro critico che aspiriamo a fare in questa sezione.
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Le parole della politica
È difficile trovare due autori del pensiero giuridico-politico del Novecento che più di Koselleck e di Schmitt abbiano edificato l’intera loro prospettiva teorica sull’assunto di fondo per cui «l’uomo non è buono». Questo slogan potrebbe essere il titolo che riassume la loro prospettiva antropologica, che si muove in quel rinnovato interesse per la filosofia di Hobbes che anima tanta parte del realismo politico del Novecento. Con questo intervento ci proponiamo, in prima battuta, di descrivere gli assunti fondamentali di questa concezione antropologica. Una volta compresi i suoi aspetti più rilevanti, si tratterà di capire cosa essi implichino sul piano della critica della filosofia della storia. Infine, si tratterà di trarre le conseguenze che sul terreno della teoria politica questi costrutti antropologici implicano, mettendoli in tensione da una parte con le prospettive liberali – cui essi, almeno nominalmente, si oppongono – e, dall’altro, con le teorie rivoluzionarie della modernità, al dunque il vero bersaglio polemico delle concezioni di Schmitt e di Koselleck.
Occorre fissare, fin da subito, un punto: i due autori non credono nel progresso, sono cioè critici dell’idea che la storia sia governata da un processo immanente di sviluppo. Più in generale, sono ostili – per motivi diversi – alla tradizione illuministica e giacobina, e ritengono il concetto di «progresso» un costrutto politico-ideologico finalizzato a sostenere sul piano filosofico le tendenze democratiche e repubblicane della modernità, alle quali essi (anche se con intonazioni diverse e differenti posizionamenti) si oppongono. Emerge qui un primo elemento di metodo, decisivo sia per la storia concettuale koselleckiana sia per la sociologia dei concetti giuridici di Schmitt. Quando indaghiamo i concetti e i loro utilizzi, bisogna sempre chiedersi – per Koselleck come per Schmitt – quali sono i contesti e le condizioni in cui questi concetti vengono utilizzati, da chi vengono impiegati e a quale scopo. I concetti e le parole della politica non sono veicoli neutri. Chi li utilizza lo fa sempre seguendo un determinato scopo e un determinato programma d’azione. Come scrive Schmitt nel Concetto di politico,
termini come Stato, repubblica, società, classe, e inoltre: sovranità, Stato di diritto, assolutismo, dittatura, piano, Stato neutrale o totale e così via sono incomprensibili se non si sa chi in concreto deve venir colpito, negato e contrastato attraverso quei termini stessi[1].
L’operazione proposta da Koselleck e Schmitt è, in certo senso, genealogica e critica: guardare dietro le parole, rendersi conto del modo in cui il parlante concreto le usa, le manipola, conferisce loro uno specifico significato perseguendo uno specifico scopo. «Cui prodest?» è la domanda che deve regolare lo storico che ricostruisce questi impieghi. Ora, però, gli stessi Koselleck e Schmitt non sono esenti da questa “legge” che regola l’uso della concettualità politica: anche loro hanno qualcuno (o qualcosa) da colpire, negare e contrastare. Lo abbiamo anticipato: si tratta dal loro punto di vista di contestare, mediante una indagine storico-concettuale dei termini, la filosofia della storia e del progresso. Bene, alla conclusione del nostro percorso dovremo chiederci: perché? Qual è lo scopo che si nasconde dietro l’uso delle parole fatto dai due autori che qui prendiamo in esame? Soprattutto: è possibile un uso delle loro concezioni indipendente dal contesto in cui esse sorgono, ovvero sganciato dalle intenzioni con cui i due autori le elaborano?
Un’avvertenza, prima di proseguire. Non abbiamo qui modo, per motivi di spazio, di seguire in tutte le loro articolazioni e in tutte le loro differenze – pure notevoli – i percorsi di Schmitt e di Koselleck. Finiremo quindi, inevitabilmente, per sovrapporre le due posizioni, che almeno fino a un certo punto e sotto certi aspetti restano simili. Se ne potrebbe ricavare l’impressione, in certo qual modo inesatta, di una completa sovrapposizione tra le due posizioni; occorre tener presente infatti che Koselleck, che pure si muove e pensa nel solco di Schmitt, a un certo punto della sua parabola intellettuale si separerà sensibilmente dal maestro. Se da un lato in Koselleck vi è un irriducibile residuo teorico schmittiano (particolarmente visibile soprattutto nella fase iniziale della sua riflessione), dall’altro emerse in lui, almeno a partire dalla seconda metà degli anni Sessanta, la volontà di addivenire a un compromesso con la tradizione liberal-democratica della Repubblica Federale Tedesca e a una pacificazione con il suo sentire comune.
Storia e natura
In cosa consiste, allora, l’antropologia dei due autori? Quando lavora alla sua storia dei concetti, Koselleck, sulla base di Schmitt, non si accontenta di elaborare una teoria della modernità e dei tempi storici, ma è alla ricerca dei fondamenti di una «istorica». Concepita come quella branca della storiografia che si interroga sui presupposti trascendentali dell’agire storico, essa pone la domanda sulle sue condizioni di possibilità. Posto che esistano delle storie, e che si dia un agire storico proprio dell’essere umano, che si articola lungo sviluppi e salti epocali, quali sono, si chiede Koselleck, le condizioni comuni a ogni storia (che essa sia realmente esistita o che essa sia soltanto pensata come possibile)?
Koselleck fornisce una risposta complessa a questa domanda, perché individua una serie di costanti – dunque non una legge, o una forma unica – che si ripetono nel corso del tempo. Tuttavia, con una certa dose di approssimazione queste costanti possono essere ricondotte a un unico elemento: presupposto della storia, e dunque suo costitutivo elemento, è il conflitto. Non l’armonia e la pace, ma la crisi e la guerra – o almeno: la loro permanente possibilità – muovono la vicenda storica nel suo complesso. Essa è il luogo di «tensione, conflitti, fratture, inconsistenze che come situazioni restano irrisolvibili»[2].
Non solo crisi contingenti, dunque, ma contraddizioni che restano, in sé, non ricomponibili. Il positivo è solo momento transeunte dello sviluppo storico, il negativo suo motore costitutivo. Non serve indugiare oltre per rendersi conto che questo quadro è tratto direttamente da Schmitt; del resto, tra le varie «coppie oppositive» che Koselleck individua per spiegare questo processo – poter uccidere/dover morire; servo/signore; esterno/interno; rapporto generazionale – quella che spicca è senz’altro la coppia amico/nemico, che in qualche modo condensa tutte le altre e conferisce all’intero quadro il suo senso complessivo: è appunto la dinamica del conflitto mortale tra amico e nemico che innerva tutte le relazioni tra esseri umani che compongono la trama di ogni singola storia possibile[3].
Progresso e storicismo
Siamo di fronte, dunque, a una teoria del conflitto, almeno in apparenza. Torneremo in conclusione su questo punto, che va, come vedremo, problematizzato. Per il momento chiediamoci: se la storia è abitata dalla crisi, dalla guerra, se cioè costitutiva è la disarmonia tra gli esseri umani e insanabile la condizione di ostilità, che conseguenze se ne possono trarre sul piano della filosofia della storia? Cosa ne è, in questo quadro sconfortante, del progresso? È possibile che la condizione degli uomini evolva, che da questo originario stato derivi un miglioramento di questa arcaica situazione di guerra nella quale gli esseri umani si trovano? La risposta a questa domanda è, come ovvio, negativa. Con l’istorica ci troviamo, infatti, sul terreno dell’antropologia, e non della storia. È la natura umana ad essere fatta così: se queste condizioni sono strutturali, ontologiche, esse sono immodificabili. Nessun progresso storico potrà trasformare questa invariante naturale.
Per supportare sul piano teorico questa specifica prospettiva antropologica, Koselleck non si limita a ricorrere a fondazioni trascendentali, ma chiama in causa anche il metodo storico-concettuale. Risolvere l’enigma del progresso, infatti, è possibile intanto indagando quelle forme discorsive della filosofia della storia che, ipostatizzando il progresso in un concetto, ne hanno ipotizzato l’esistenza. Proprio dall’indagine storica del concetto di «progresso» Koselleck ritiene di poter desumere – sarà, questa, una delle tesi portanti della sua prospettiva – che esso è – non meno di altri a esso adiacenti e di esso complementari – una vera e propria invenzione della modernità. Invenzione in duplice senso: nel senso che prima dell’avvento del tempo moderno (che per Koselleck coincide con la fase che dall’illuminismo porta alla Rivoluzione Francese) questo concetto non esiste; e nel senso che è un costrutto ideologico, privo di verità materiale, la cui invenzione è finalizzata – questa la tesi di Koselleck – a giustificare la rivoluzione sulla scorta dell’ipotesi che la storia è destinata a progredire.
La filosofia del progresso fornì la certezza, non religiosa né razionale ma specificatamente propria della filosofia della storia, che la pianificazione indirettamente politica sarebbe stata realizzata[4].
Si trattava dunque di legittimare i tentativi di trasformazione rivoluzionaria della società dell’antico regime con l’argomento, inedito, secondo cui i sommovimenti violenti inscenati dal terzo stato non erano mere eruzioni violente, prive di direzione e di pianificazione, eccidi sanguinari privi di senso, ma momenti necessari interni all’oggettivo processo dello sviluppo storico. «Che la crisi politica sarebbe stata un momento transitorio ed avrebbe dovuto inevitabilmente portare a una situazione migliore, era opinione precisa della maggior parte dei borghesi, e scaturiva dalla certezza morale»[5]. Così agli occhi di Koselleck l’illuminismo politico si macchia della non trascurabile colpa di alimentare la crisi, di ingigantire e abbrutire sempre di più la guerra civile, ammantandola con la promessa della rivoluzione e rinvigorendola col veleno del fanatismo morale.
Complementare a questa polemica contro la filosofia della storia è l’invettiva contro lo storicismo. In cosa consiste, a giudizio di Koselleck, l’errore storicista? In una parola, nella forzata interpretazione delle trasformazioni storiche come momenti di una ordinata evoluzione. Lo storicismo riduce tutte le storie nell’ambito di un’unica storia; quest’ultima viene intesa appunto come «la» storia (al singolare), che coincide con «il» progresso. A partire da ciò, argomenta Koselleck, gli eredi della tradizione illuminista, rivoluzionaria e giacobina – i comunisti – concepiranno se stessi come interpreti e adeguati rappresentanti del destino storico. La storia è dialettica – soggettiva e oggettiva a un tempo –, e conduce inevitabilmente alla rivoluzione. E infatti il compito storico che i comunisti si danno, argomenta Koselleck, è quello dell’accelerazione del corso degli eventi in vista dell’auspicato momento finale. Spingere la storia verso il suo fatale compimento, accelerare la venuta della sua risoluzione, provocare quel salto «dal regno della necessità al regno della libertà», per dirla con Marx ed Engels[6]. Esattamente come aveva inteso fare, prima di loro, Robespierre. «Il progresso della ragione umana ha preparato questa grande rivoluzione, e siete proprio voi che avete il particolare dovere di accelerarla»[7].
Crisi o progresso?
Giungiamo così alla parte nodale del nostro discorso. Si tratta adesso di comprendere la natura politica della critica schmittiano-koselleckiana della filosofia della storia e, contestualmente, di comprendere le ragioni ultime che informano la logica del discorso del realismo politico e dell’antropologia negativa. In prima battuta, occorre notare che la posizione che sinora abbiamo richiamato è dotata di una specifica capacità critica. Essa si rivolge contro i residui della teologia e del discorso moralistico per evidenziare che la nuda realtà della dimensione del politico non può essere obliterata dai sogni utopistici: è la crisi, è il conflitto l’elemento costitutivo dell’agire storico. Mascherare questo conflitto come progresso – attribuire, cioè, su basi morali o filosofiche a una delle parti in lotta la patente della legittimità storica, criminalizzando l’altra – equivale, in buona sostanza, ad autorizzare l’estensione di quel conflitto e a rinnovarlo. L’esperienza storica, insistono i nostri autori, insegna che un conflitto è un conflitto, e da esso non scaturisce alcun elemento progressivo, dialettico, ma solo il rinnovamento, sotto nuove forme, di una condizione di crisi permanente dalla quale di fatto non si può uscire.
Il fatto è, appunto, che l’uomo non è buono: se abbandonato a se stesso e alle sue pulsioni, non potrà che rinnovare le forme della lotta di tutti contro tutti che discende dalla natura umana. Ecco che la costruzione di una antropologia negativa diventa funzionale – proprio come accadeva in Hobbes – all’invocazione del Leviatano come elemento di neutralizzazione coatta di quegli istinti mortali che governano l’anima ferina degli uomini. La filosofia della storia, per contro, e con essa la concezione del progresso, sono attaccate precisamente perché rappresentano un antidoto teorico a questa costruzione, ovvero uno strumento nelle mani di una concezione della trasformazione rivoluzionaria dell’esistente: rileva, insomma, che se l’antropologia negativa è funzionale a dire che nessuna trasformazione è possibile, la filosofia della storia, per contro, è stata da sempre strumento del pensiero rivoluzionario della modernità come potente leva per agire (per legittimare) la trasformazione.
Oltre l’eterno presente liberale
Questa opposizione plastica tra antropologia negativa e pensiero della rivoluzione ci consente, in conclusione, di sciogliere alcuni possibili equivoci teorici che da questa costellazione di problemi derivano, e che riguardano, in ultima analisi, il modo in cui lo schermo dell’ideologia maschera l’uso delle parole e l’impiego dei significati dei concetti e dei discorsi politici. Vale la pena, in conclusione, di mettere in evidenza tre nodi problematici: il rapporto tra crisi e progresso; il ruolo che in questa opposizione tra pensiero della rivoluzione e antropologia negativa gioca un terzo incomodo, e cioè il pensiero liberale; infine, la natura e le implicazioni della critica alla filosofia della storia.
Partiamo dal primo aspetto. Non è casuale che alla base dell’antropologia negativa vi sia una specifica teoria della crisi che mira, se così possiamo dire, a un annacquamento della sua carica esplosiva. Pensiamo a Marx. Anche per lui la crisi è la regola: il conflitto è legge della storia. Ma ci sono due rilevantissime differenze rispetto a Schmitt e Koselleck. La prima: per Marx non si tratta di evocare un generico conflitto, ma di gerarchizzare i conflitti. Conflitto che muove la storia è il conflitto di classe, non una generica ostilità politica o esistenziale tra amico e nemico. La seconda (con la quale tocchiamo il punto decisivo): se il conflitto che struttura la storia è quello di classe, e non un generico scontro tra nemici politici, ne deriva che nella storia si dà progresso. La storia non è, cioè, lo spazio vuoto e sempre uguale a se stesso di una ostilità che rinnova sempre, in forme diverse (e tutto sommato equivalenti), la brutale lotta per la primazia. Questa lotta produce trasformazioni effettive, e queste trasformazioni producono esiti progressivi. Così Marx, pur non assumendo il dogma dell’esistenza di un destino preordinato e l’autoconsolatoria ipotesi di una razionalità che, dispiegandosi nella storia, condurrà inevitabilmente a esiti felici – come se essa dovesse di per sé vincere l’eterna battaglia contro il Male –, resta tuttavia convinto che la vicenda umana abbia dato prova, a uno sguardo puramente analitico, del fatto che le modalità con cui via via le formazioni sociali si sono organizzate hanno subito, sulla base delle sollecitazioni delle contraddizioni concrete (e delle conseguenti lotte tra gli attori sociali), precise e verificabili progressioni, fino a individuare nella modernità il luogo di un effettivo avanzamento rispetto al passato. In effetti le teorie di Schmitt e Koselleck appaiono, al dunque, consapevoli ribaltamenti della concezione materialistica della storia, che aveva posto – essa sì! – il conflitto (e dunque il progresso!) a legge della storia.
Nello stesso momento in cui sorge la civiltà, la produzione comincia a fondarsi sull’antagonismo degli ordinamenti, degli stati, delle classi, infine sull’antagonismo del lavoro accumulato col lavoro immediato. Senza antagonismo non vi è progresso. Questa è la legge che fino ai nostri giorni la civiltà ha seguito[8].
Sulla scorta di questa opposizione plastica (da un lato crisi senza progresso, dunque sterilità e inefficacia del conflitto, dall’altro contraddizioni che generano progresso e trasformazione) veniamo alla seconda, decisiva questione, che chiama in causa il rapporto tra antropologia negativa e liberalismo. Il pathos della prima – in apparenza antiliberale – finisce, in verità, per condividere proprio con la tradizione liberale l’opzione strategica dell’«individualismo possessivo»[9]. Come nel liberalismo, anche in questo caso si tratta di evocare società e individui riottosi (nominare la crisi) per incanalare le forme della convivenza nell’ordine dello Stato che garantisce la proprietà. In fondo, in queste concezioni sopravvive lo schema della fondazione immanente del potere statale, dove però l’immanenza è descritta come il conflitto tra gli individui proprietari che cedono il loro potere allo Stato per continuare a poter fare i loro affari in seno alla società borghese.
In effetti, il punto di accordo tra antropologia negativa e pensiero liberale sta nel fatto che in entrambi la crisi è, al dunque, apparente, non costitutiva, anche se declamata come centrale. A giudicare dalle conseguenze che genera, infatti, essa è posta come premessa soltanto perché, in fondo, a essere davvero ricercata è la pace. Esibire la crisi (una crisi depotenziata dalla sua dimensione sociale, cioè edulcorata come conflitto tra individui o gruppi) per chiedere la pace: questo è il progetto politico dell’antropologia negativa. A ben guardare, tutta l’elegia schmittiana per l’eccezione e la retorica del conflitto esistenziale è il modo surrettizio per invocare costantemente la norma, il Katechon, l’ordine. Il vuoto è esibito come spauracchio per porre il pieno dell’ordine e della forma. La crisi non è lietamente accolta come segno della trasformazione – come accade invece in Marx ed Engels – ma come tetro presagio che deve indurre alla sottomissione allo Stato, ordinatore del caos e custode unico della violenza legittima. Il lamento weberiano per l’ordine borghese minacciato dalle orde proletarie è il vero pungolo di questi pensatori della crisi che, di fronte a essa, arretrano, invocando impietriti l’ordine contro il progresso.
Arriviamo così alla terza, e ultima, questione. Se è vero che la negazione della filosofia del progresso propria dell’antropologia negativa stringe un’alleanza strategica con il pensiero liberale, come si giustifica l’utilizzo, che pure quest’ultimo fa, del costrutto progressista della filosofia della storia? Possiamo rispondere così: in molta parte del pensiero liberale è all’opera, se così possiamo dire, un consapevole tentativo teorico di limitazione e neutralizzazione della concezione rivoluzionaria del progresso – proprio come nel pensiero reazionario è in atto un annacquamento della concezione della crisi –, ovvero la sua traduzione nel fideistico affidamento alle «magnifiche sorti e progressive» per giustificare qualunque condizione data (o qualunque trasformazione), legittimandola come progresso. Si tratta cioè del fatto che la filosofia della storia non è impiegata come leva per la trasformazione in senso universalistico dei rapporti sociali (come avviene nel marxismo), ma come costrutto retorico per santificare il presente che, in quanto tale, non è il positivo da superare (come nel dispositivo dialettico), ma il risultato già conseguito di una progressione che ha già risolto le contraddizioni del passato e ha già prodotto il migliore dei mondi possibili.
Si tratta allora, se tutto ciò ha un senso, di evitare di considerare queste degenerazioni della filosofia del progresso come sue autentiche espressioni – cioè di mettere a fuoco il fatto che la fede nel progresso è di per sé un vettore della trasformazione, non un fattore di legittimazione dell’esistente – e di non lasciarsi con ciò affascinare da una critica che finisce per colpire un bersaglio sbagliato. Lo storicismo e la filosofia della storia, in sé considerati, non sono lo strumento ideologico di un pensiero della conservazione. Al contrario: sono non casualmente – proprio in virtù della loro carica di movimento e del loro orientamento temporale – il bersaglio del pensiero antirivoluzionario, che in essi scorge (giustamente!) un pericolo teorico di primo piano. In altri termini, si tratta di destituire di fondamento il realismo politico e la sua critica della filosofia della storia e di non cedere, in termini subalterni, alle sue lusinghe: svelare le intenzioni (cui prodest?) che si nascondono dietro le trame concettuali e non farsi portatori inconsapevoli di posizioni funzionali all’egemonia dell’eterno presente liberale.
Note
[1] C. Schmitt, Il concetto di “politico”, in Id., Le categorie del “politico”, il Mulino, Bologna 1972, p. 113.
[2] R. Koselleck, Istorica ed ermeneutica, in R. Koselleck – H.-G. Gadamer, Ermeneutica e istorica, il melangolo, Genova 1990, pp. 11-37, qui p. 28.
[3] Ivi, pp. 11 segg.
[4] R. Koselleck, Critica illuminista e crisi della società borghese, il Mulino, Bologna 1972, p. 177.
[5] Ivi, p. 178.
[6] F. Engels, Anti-Dühring (1878), in K. Marx – F. Engels, Opere complete, vol. 25, Editori Riuniti, Roma 1974, p. 273.
[7] M. Robespierre, Œuvres, 10 voll., Société des études robespierristes, vol. 9, Paris 1958, pp. 495-508, qui p. 495.
[8] K. Marx, Miseria della filosofia. Risposta alla «Filosofia della miseria» di Proudhon, in K. Marx – F. Engels, Opere complete, vol. 6, Editori Riuniti, Roma 1976, p. 133.
[9] C.B. Macpherson, Libertà e proprietà alle origini del pensiero borghese. La teoria dell’individualismo possessivo da Hobbes a Locke, ISEDI, Milano 1973.
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Gennaro Imbriano insegna Storia della Filosofia presso l'Università di Bologna. Si è occupato di storia concettuale e di filosofia moderna e contemporanea di area tedesca, con particolare riferimento a Marx e Heidegger, ai quali ha dedicato i volumi Il tempo della contraddizione. Storia, lavoro e soggettività in Marx e Heidegger (Mucchi 2019) e Il lavoro e le cose. Saggio su Heidegger e l'economia (Quodlibet 2019). Per DeriveApprodi ha pubblicato, nella collana input, Marx e il conflitto. Critica della politica e pensiero della rivoluzione (2020) e dirige la collana «Labirinti», nella quale ha pubblicato Le due modernità. Critica, crisi e utopia in Reinhart Koselleck (2016).