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Il ciclo del 15M e il ceto medio

Intervista a Emmanuel Rodríguez López




15M e ceto medio
Immagine: Roberto Gelini

Quello a ridosso della crisi del 2008 è stato un importante ciclo di lotte globali che ha travolto, con forme, intensità, caratteristiche ed effetti molto diversi tra loro paesi europei e della sponda sud del Mediterraneo fino agli Stati uniti. In Europa, il ciclo si è aperto in Italia tra il 2008 e il 2009 con il movimento dell’Onda, che poi portò all’affermazione del Movimento 5 Stelle. Nell’intervista che qui presentiamo, Emmanuel Rodríguez López militante e ricercatore, analizza criticamente il movimento 15M che nel 2011 prese il testimone dall’Onda spostando il baricentro delle lotte in Spagna e portando successivamente all’affermazione di Podemos. Come si può evincere dalla lettura dell’intervista, molte sono le caratteristiche che accomunano il caso spagnolo e quello italiano, a partire dal ruolo che in quelle mobilitazioni hanno avuto i ceti medi dei rispettivi paesi. Osservare la Spagna del movimento 15M e di Podemos ci consente quindi di capire meglio anche l’Italia dell’Onda e del Movimento 5 Stelle. L’intervista è degna di interesse anche per come mette in relazione la costruzione del ceto medio ad opera dello Stato, che svolge una funzione di ingegneria sociale, la produzione di consenso e il neoliberismo attraverso la finanza, la proprietà immobiliare, l’investimento in credenziale educative e altri asset. Sono questioni rilevantissime ancora oggi se pensiamo per esempio a come la rendita immobiliare consente a molte famiglie di mantenere i livelli di consumo, agganciandole alla «turistificazione» delle città. A più di dieci anni da quell’ultimo importante ciclo di ambivalenti lotte globali, come si sta riconfigurando il ceto medio? Può essere di nuovo un fattore di destabilizzazione oppure, chiusa quella fase, continuerà a svolgere la sua funzione di mediazione dell’antagonismo di classe?


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Emmanuel Rodríguez López, editore e membro di «Traficantes de Sueños» e della «Fundación de los Comunes», ha svolto un ampio lavoro di ricerca sull'evoluzione istituzionale e sull'economia politica spagnola. In questo filone si collocano le sue opere Fin de ciclo. Financiarización, territorio y sociedad de propietarios (con Isidro Lopez, 2010), ¿Por qué fracasó la democracia en España? (2015), La política en el ocaso de la clase media, el ciclo 15M-Podemos (2017) e il suo ultimo libro, El efecto clase media (2022), tutti pubblicati da Traficantes de Sueños. Fin dall'inizio della sua ricerca, Rodríguez ha studiato i meccanismi di accumulazione e di riproduzione del capitale che si sono sviluppati nella società spagnola. Nell’analisi di questi processi che si sono dispiegati tra lo sviluppismo franchista degli anni Cinquanta e gli anni della bolla finanziaria-immobiliare e delle politiche di austerità per far fronte alla crisi sistemica del capitalismo scoppiata nel 2008, Rodríguez ha focalizzato l’attenzione sulla crisi di regime aperta dal ciclo del 15M e sui successivi tentativi di portare avanti un processo di politica istituzionale, segnato soprattutto dall'esperienza di Podemos in Spagna.


La questione dell'integrazione della classe operaia nell'apparato statale è sempre stata una questione spinosa nella tradizione rivoluzionaria. Ne sono un esempio la particolare reinterpretazione di Togliatti dei Quaderni del carcere di Gramsci o il dibattito nel Partido comunista de España (Pce) tra la posizione di Santiago Carrillo e quella di Jorge Semprun e Fernando Claudin. In queste discussioni, il tema dell'integrazione nello Stato è una delle questioni centrali. Potresti approfondire il modo in cui questa questione ha condizionato le successive letture della «sinistra» nei paesi con forme di governo liberal-democratiche?


Il problema, a mio avviso, è contenuto proprio nella tradizione di «sinistra» così come nella maggior parte delle correnti marxiste. In entrambe, non c'è solo un deficit concettuale nell’esaminare lo Stato o il reale portato storico dell'asse Stato-Capitale. Anche nella pratica, almeno a partire dalla Seconda Internazionale, non esiste altra politica se non quella organizzata intorno allo Stato. In questo senso, il leninismo e il marxismo rivoluzionario (con alcune eccezioni: il consiliarismo, l'operaismo, ecc.) non sono andati oltre l'essere la versione di sinistra di una politica di riforme, intorno e dentro lo Stato, con effetti spesso disastrosi.

Mettere al centro lo Stato, come costellazione istituzionale che monopolizza la politica, che integra e pacifica la società di classe, è un compito intellettuale complesso e fondamentale che difficilmente è stato intrapreso da quella che chiamiamo sinistra.


Oggi sembra che non esistano più le forme di conflitto segnate dall'antagonismo sociale del XIX e dell'inizio del XX secolo (ricchi e poveri, borghesi e proletari, proprietari e diseredati, ecc). Nonostante ciò, i ricchi e i poveri continuano a esistere. Tu individui nella figura del ceto medio lo strumento per disinnescare questo conflitto. Quali sono gli elementi principali che definiscono questo posizionamento sociale?


Innanzitutto, si tratta di considerare la classe media come una categoria sociale che gli antropologi definirebbero emica. La stragrande maggioranza delle società ricche del mondo si autodefinisce di classe media. Nel caso della Spagna, tra il 70% e l'80% della popolazione ha risposto così alla domanda «a quale classe sociale appartiene?». In termini politici, ciò significa che la maggioranza sociale si considera al margine (in un «altro luogo», nel «giusto mezzo») delle vecchie polarità che articolavano la lotta di classe. La domanda da porsi è quindi: come è possibile che delle società di classe, in cui vi è una chiara concentrazione di ricchezza e di potere politico effettivo, raggiungano un tale grado di consenso sostanziale rispetto alla questione che ha determinato la lunga storia della modernità? Anche in questo caso, la capacità dello Stato di produrre questo «effetto classe media» [l’espressione riprende il titolo dell’ultimo libro dell’autore,ndt], cioè di disattivare, correggere e neutralizzare ogni potenziale conflitto sulle reali disuguaglianze di potere politico ed economico, è di importanza centrale.


Forse, uno degli elementi analitici più interessanti che si possono trovare nel tuo ultimo libro è l’allontanamento dal grande rompicapo che comporta per la sociologia lo studio della classe media attraverso diversi indicatori, come hanno fatto le diverse scuole di pensiero (weberiana, marxista, strutturalista, parsonsiana, ecc.), per proporre, invece, un approccio soggettivo. Cosa ti ha portato a proporre questo approccio?


Non si tratta di considerare una prospettiva soggettiva, ma di prendere sul serio il fatto che i processi sociali esistono nella doppia dimensione della loro oggettivazione, nelle istituzioni sociali specifiche, e della loro soggettivazione nelle forme di identificazione, azione, ecc. In effetti, basterebbe qui considerare la vecchia tradizione della storia sociale, da E.P. Thompson in poi, per affermare che le classi non esistono in quanto tali, ma sono costituite da un insieme di materiali complessi e che vanno oltre le determinazioni strutturali. L'esperienza, la rielaborazione di vecchie tradizioni, le lotte sono altrettanto o più decisive degli elementi «strutturali» nel produrre le forme di soggettivazione che danno origine alle classi. D'altra parte, e in relazione alle letture marxiste più classiche, credo che il contributo principale dei miei lavori (che sono spesso collettivi) sia duplice. Da un lato, crediamo di contribuire a una nuova considerazione della finanziarizzazione delle economie nazionali, quella che potremmo chiamare la centralità del «capitalismo popolare», che nel caso dei Paesi europei (e soprattutto nel caso della Spagna) assume materialità fondamentalmente attraverso la proprietà immobiliare. La proprietà è, infatti, un elemento centrale nel gioco finanziario nazionale, nella capacità di fare leva, di investire e di ottenere reddito per molti settori sociali. Oggi la proprietà è un fattore determinante dello status di classe tanto quanto la posizione socio-professionale. Il possesso o il non possesso di una proprietà crea differenze sociali significative, attraverso l'eredità, l'ottenimento di affitti, il consumo o meno di una parte del salario nel pagamento di affitti a terzi (ad esempio, se è necessario ricorrere al mercato degli affitti). D'altra parte, il nostro secondo contributo consiste nel riconsiderare il ruolo dello Stato come ingegnere sociale, nella sua specifica capacità di produrre una struttura sociale e quindi delle identificazioni di classe; o addirittura di superare la società di classe, attraverso questo «effetto classe media».


Questo approccio aperto permette di costruire un quadro ordinativo non chiuso e molto più flessibile. Tuttavia, ci sono cinque istanze a cui attribuisci una maggiore centralità nella riproduzione della classe media. L'istruzione, il ruolo dello Stato sociale, la proprietà, la famiglia e la figura del modernizzato. Brevemente, potresti riassumere il ruolo di questi elementi nella generazione dell'immaginario sociale della classe media?


In effetti, si tratta di includere nell'analisi più elementi di quelli che di solito vengono considerati quando si analizza quella che normalmente viene chiamata struttura sociale. Da qui la centralità della proprietà, già citata. Anche l'importanza dei titoli di studio (che ha indubbiamente una lunga letteratura alle spalle), in società sostanzialmente scolarizzate e in cui le credenziali educative sono un elemento determinante della posizione socio- professionale. Così come la famiglia, in quanto agente primario della riproduzione di classe e della posizione sociale che, nella lunga crisi del capitalismo neoliberale, diventa ancora più rilevante attraverso l'investimento educativo, l'eredità e la capacità di fornire o meno un quadro di relativa sicurezza. I rispettivi elementi ideologici, basati sulla fiducia dell'individuo nelle proprie capacità di realizzazione sociale, ecc.


Passiamo alla questione politica. La crisi capitalistica globale degli anni Settanta ha provocato contemporaneamente la crisi del sistema di regolazione keynesiano- fordista. Da questo momento in poi, i pilastri del welfare e dello Stato come regolatore sono entrati in crisi con l'irruzione di nuove forme di accumulazione finanziaria. In Fin de ciclo hai individuato, insieme a Isidro Lopez, che l'integrazione di gran parte delle unità familiari nei processi di finanziarizzazione ha costituito uno dei punti chiave per il rilancio di un ciclo di accumulazione attraverso l'indebitamento personale e l'aumento dei prezzi degli asset. In che modo questo keynesismo dei prezzi degli asset ha plasmato la struttura delle classi medie della società spagnola prima della crisi del 2007?


In una maniera fondamentale, senza dubbio. Consideriamo la storia di un Paese che ha vissuto un processo di industrializzazione a fasi alterne, come il lungo dopoguerra spagnolo, durato quasi vent'anni (dal 1939 al 1956-1959). È anche un Paese con un modello di concentrazione industriale geograficamente diseguale come l’Italia, che sta subendo un rapido processo di deindustrializzazione iniziato già negli anni Settanta.

Tuttavia, si tratta di un'economia con una forte specializzazione nel turismo e un'altrettanta rapida terziarizzazione, in cui il circuito territoriale del capitale (edilizia abitativa, costruzione di nuove abitazioni, infrastrutture, turismo, ecc.) è stato centrale nel generare dinamiche di accumulazione estremamente redditizie per gli agenti capitalistici locali (banche, imprese di costruzione, sviluppatori). Nello stesso Paese, la dittatura di Franco e successivamente la democrazia hanno optato per la promozione della proprietà immobiliare come pilastro della stabilizzazione sociale e della moralizzazione della classe operaia. In Spagna, a partire dagli anni Settanta, tre famiglie su quattro possiedono almeno un'abitazione, percentuale che ha raggiunto l'82% negli anni Duemila. Se consideriamo il grande ciclo di crescita dell'economia spagnola sotto la democrazia (tra il 1997 e il 2008), osserviamo che in quel periodo il valore delle attività in termini costanti nelle mani delle famiglie si è moltiplicato per un fattore di 3,5, il volume dei prestiti alle famiglie per un fattore di 10 e l'aumento dei consumi delle famiglie per il 90%, il tutto in un'economia in cui i salari sono rimasti praticamente stagnanti. Questo è ciò che ha permesso all'economia spagnola di crescere più velocemente di qualsiasi altra grande economia europea durante quel decennio, e la sua bolla immobiliare è stata certamente più intensa di quella degli Stati Uniti o del Regno Unito. Ѐ interessante considerare che gli effetti in termini di aumento della ricchezza, di plusvalenze immobiliari e di accesso al credito hanno lasciato fuori solo una ristretta minoranza della società spagnola, non più del 20% e in gran parte costituita dagli immigrati più recenti. Durante questo periodo, il consenso sociale nei confronti del modello immobiliare-finanziario neoliberista era praticamente assoluto.


Tuttavia, il crollo del 2007 ha causato una crisi di molti degli elementi su cui poggia materialmente la classe media, accelerando e aggravando i processi di smantellamento di questo segmento della società spagnola. Puoi spiegare in che modo alcuni elementi della crisi economica costituiscono la base materiale di un movimento come il 15M?


Quella iniziata nel 2008 potrebbe essere considerata la fase «b» di questo ciclo economico basato sul settore immobiliare e finanziario. Le famiglie si sono trasformate in società di investimento e hanno subito una sorta di massiccio processo di distruzione creativa. Che in termini più banali ha significato un rapido calo dei prezzi delle case, il fallimento di molte famiglie (aggravato da un'ondata di licenziamenti) e gli sfratti. Si stima che in un decennio un milione di famiglie abbia perso la propria abitazione principale. Ciò che è avvenuto dopo il movimento di piazza del 2011, quello che in Spagna chiamiamo movimento 15M (nome che viene dal 15 maggio di quell'anno, data inaugurale delle proteste), è la conversione delle crisi sociali in crisi politiche. Nel 2011 la società spagnola si è trovata sull'orlo del baratro, spinta dalle politiche di austerità dell'Unione Europea. La disoccupazione è passata da 2,5 milioni a oltre cinque milioni nel 2013, il debito pubblico è salito dal 40% a quasi il 100%, i tagli e il deteroriamento dei servizi pubblici è stato spettacolare, persino i dipendenti pubblici sono stati minacciati nelle loro condizioni di lavoro e nelle loro garanzie più basilari. Le stampelle finanziarie che per due o tre decenni avevano mitigato le conseguenze più disastrose dell'applicazione della ricetta neoliberista, sono apparse per quello che sono.


In questo senso, quali furono le figure di spicco di questo movimento? Quali tendenze, che poi si espressero pienamente nell'assalto alle istituzioni, furono anticipate dal protagonismo politico che gruppi come «Juventud Sin Futuro» [Gioventù Senza Futuro] occuparono all'interno di questo movimento?


È interessante sottolineare che le componenti che hanno guidato le proteste, e che in qualche modo hanno galvanizzato l'identificazione delle maggioranze sociali con il 15M, non erano i settori sociali più colpiti dalla crisi. È stata una giovane generazione nata negli anni Ottanta, o poco prima, a occupare la maggior parte delle piazze, a strutturare l'organizzazione delle proteste e a produrre la dinamica «tecnopolitica» che ha articolato il movimento nelle reti sociali. Si trattava anche del segmento con la migliore posizione all'interno di quella fascia generazionale: laureati, figli della classe media professionale, ma emarginati dalla crisi economica, relegati in una precarietà troppo estesa nel tempo e certamente separati dalle promesse di carriera e di realizzazione personale a cui sembravano destinati. Questo tipo di composizione sociale spiega anche il successo delle proteste: nel ragazzo o nella ragazza con un master ma «senza futuro» era in qualche modo contenuta la rappresentazione del collasso generale del Paese. Questo spiega anche la natura conservatrice del movimento, che ha immediatamente innalzato la bandiera della democrazia contro la «dittatura finanziaria», la corruzione e la casta politica. Indubbiamente, nella sua massività e nei processi di politicizzazione che il 15M incoraggiò, c'era anche una tendenza alla radicalizzazione della democrazia e a possibili orizzonti di alleanza sociale con i settori sociali più colpiti, come dimostra il sindacalismo edilizio che iniziò a respirare in quegli anni. Ma questo elemento «restauratore» e conservatore non può essere trascurato, perché è quello che alla fine è diventato dominante.


All'interno di questa «Juventud Sin Futuro», in contrapposizione alla classica figura dell'organizzatore politico, si è distinta quella dell'esperto di comunicazione che, seguendo i postulati politici del populismo teorizzati da Mouffe e Laclau, ha svolto un ruolo decisivo che spiega in parte il trionfo di un segmento di Podemos, dopo Vistalegre [nome dell’edificio di Madrid dove si sono tenuti importanti congressi di Podemos, ndt] sulle altre famiglie o frazioni che componevano il partito politico. In diverse occasioni hai sottolineato che ciò è dovuto al fatto che la politica di sinistra è una politica senza popolo o soggetto politico, ridotta a posizioni politiche di rappresentanza istituzionale e di opinionisti, dove non esistono forme di base che possano instaurare una sorta di dialettica movimento-partito. Puoi approfondire ulteriormente questa tesi?


Il fatto che questo tipo di composizione sociale fosse dominante nel movimento spiega anche, seppur parzialmente, la successiva deriva politica. Esaurita la fase più creativa e potente della mobilitazione tra il 2011 e il 2013, molte voci all'interno dei settori attivi hanno iniziato a parlare in termini di costruzione di un'alternativa elettorale. Podemos è stato il risultato più compiuto di questa opzione. Non è stato l'unico: ci sono state candidature comunali come quella di Ada Colau a Barcellona e altre esperienze precedenti. Ma è stata la risposta più completa e duratura. L'emergere di Podemos nel 2014 ha cambiato significativamente il panorama politico spagnolo: ha praticamente rotto il sistema bipartitico e, per qualche tempo, è sembrato rappresentare un'opzione politica nuova e progressista, a tratti quasi dirompente. Tuttavia, Podemos ha rappresentato anche un modo diretto di istituzionalizzare l'evento del 15M. Da un lato, il partito ha assunto rapidamente una sorta di modalità politica di tipo aziendale. Tutto il potere decisionale è stato ridotto al nucleo fondatore, che troppo rapidamente si è sciolto in un'interminabile lotta tra fazioni che dura tuttora. Lungo il percorso sono state «sacrificate» diverse decine di migliaia di persone che si erano organizzate nei cosiddetti «circoli», le assemblee di base di Podemos. Questa enorme massa politica ha abbandonato l'organizzazione, ridotta a un semplice comparsa dei plebisciti di Pablo Iglesias, delle campagne elettorali e delle lotte tra fazioni della leadership. D'altra parte, i «dirigenti» del partito hanno giustificato fin dall'inizio la necessità di fare a meno di una militanza ampia e plurale all'interno dell'organizzazione. Iglesias ed Errejón hanno adottato la teoria «sofisticata» del populismo di Laclau e Mouffe. Diventati apprendisti stregoni, hanno affidato tutto a un modello di comunicazione diretta con il «popolo», che intendevano organizzare a partire dalle televisioni e dai talk show politici, poi convertiti in un prodotto da prima serata. L'ingenuità di Podemos oggi è quasi commovente. Nel quadro di questa politica, che è diventata tutta un discorso e una comunicazione, Podemos è stato presto silurato da campagne mediatiche aggressive, incoraggiate praticamente dall'intero spettro politico e mediatico. Abbandonata, la leadership di Podemos fu letteralmente fatta a pezzi. A distanza di appena otto anni, dei principali protagonisti del primo Podemos non rimane una sola figura sulla prima linea della politica. I leader del Sumar (partito succeduto a Podemos) non sono figure nuove, ma erano secondarie in quei primi anni «eroici». Ogni possibilità di sperimentare un nuovo tipo di esperienza politica, a metà strada tra il partito e il movimento, è stata lasciata nel dimenticatoio.


Il processo di ristrutturazione capitalistica già menzionato implica anche che il «nuovo proletariato» dei servizi che il regime neoliberale di accumulazione ha generato abbia delle caratteristiche particolari, che in molti casi tendono a corrispondere alla riproduzione stessa di una classe media. Che impatto ha sull'immaginazione di un nuovo ciclo di lotte l'incontro con un proletariato per molti versi superfluo, che produce poco valore o che è facilmente sostituibile?


Una delle lezioni più rilevanti sul ciclo di mobilitazione che ha spinto il 15M è che sicuramente la crisi sociale prodotta nel 2008 non è stata sufficiente a rompere il miraggio della classe media per la maggioranza sociale, intendendola come realtà di fatto o come aspirazione (ideologica). Credo che sia stato anche il timore di una più ampia disgregazione sociale a scatenare la risposta dei politici europei, che dopo l'esperimento di ristrutturazione della Grecia hanno deciso di alzare leggermente il freno con le politiche di acquisto del debito pubblico e il Quantitative Easing (Qe) della Bce. La fine della politica di austerità ha ampliato il margine di manovra dei governi. E in un certo senso, ha agito da argine determinante per ciò che è scoppiato in diversi Paesi nel 2011. Il contenimento della crisi sociale ha a sua volta dissolto le possibilità di alleanza tra le classi medie in via di proletarizzazione e i segmenti già proletarizzati e ipersfruttati. Questi segmenti, nel caso spagnolo, possono essere considerati sotto la figura di una sorta di proletariato multinazionale dei servizi, che lavora nella ristorazione, nel turismo, nella logistica, nel commercio, nei servizi domestici, nel lavoro sessuale, ecc. Questo proletariato è quindi impiegato in settori economici relativamente marginali: attività di servizi alla persona e al mercato, generalmente con una composizione organica del capitale molto bassa e bassi tassi di produttività. Questo proletariato dei servizi è molto frammentato professionalmente e in termini di composizione interna (migranti, cittadini nazionali, ecc.). Inoltre, ha pochissimo potere strutturale all'interno della catena globale del valore. Si tratta quindi di un settore socialmente invisibile, che al momento ha poca capacità organizzativa. In un certo senso, è il grande elefante nella stanza della società della classe media. Ma paradossalmente si tratta di una minoranza al suo interno, sia nei termini di Deleuze e Guattari che in termini statistici. Questa nuova figura proletaria è il grande punto interrogativo e la grande promessa politica per il futuro.


Infine, vorrei porti un’ultima domanda: che cos'è il comunismo oggi? È possibile ripensare la comunità in una società così frammentata come la nostra, così individualizzata, con soggettività così atrofizzate? Cosa possiamo recuperare dal bagaglio di lotte passate per pensare e articolare le lotte del presente?


Credo che si debba sempre considerare che il comunismo non è un modello di società ideale, tanto meno una forma politica (alla maniera degli Stati socialisti). Ѐ il «movimento reale» che mina la società attuale. Ciò che dobbiamo essere in grado di fare è decifrare le forze che operano oggi come tendenza comunista della società futura.


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Pablo Oliveros (1996) è membro del collettivo Txarraska Gaztetxea dell’area metropolitana di Bilbao, del sindacato degli inquilini Batu e della redazione di Hordago-El Salto. Si occupa di ricerche sulla relazione tra il territorio e i processi produttivi e finanziari.


Emmanuel Rodríguez López (1974) è membro della casa editrice Traficantes de Sueños, con cui ha pubblicato diversi libri, e della Fundación de los Comunes. Svolge richerche sull’economia politica spagnola e sui movimenti politici di base.


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