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I ruggenti anni Novanta e la costellazione disforica

Sugli anni Novanta in letteratura



Immagine anni Novanta

Continuano le pubblicazioni riguardanti la «cartografia dei decenni smarriti» che Machina sta portando avanti. Nello specifico, l'articolo di Giorgio Mascitelli ci parla degli anni Novanta nella letteratura, analizzando testi come Underworld e Cosmopolis di Don DeLillo, Cecità di Josè Saramago, L’estensione del dominio della lotta e Le particelle elementari di Michel Houellebecq, Una mattina ci siam svegliati di Nanni Balestrini e, infine, la poesia Currunt di Andrea Zanzotto.


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Gli anni Novanta nell’ambito letterario e culturale appaiono innanzi tutto caratterizzati, a livello di organizzazione della cultura, dal pieno sviluppo del postmoderno, che in Italia e in Europa negli anni Ottanta era stato conosciuto essenzialmente sul piano delle poetiche e delle prese di posizioni filosofiche (vedi I due inizi del postmoderno) in un contesto in cui le istituzioni culturali della modernità ancora reggevano. In quel decennio si comincia a registrare, insomma, la crisi della società letteraria moderna e del suo peculiare modo di organizzazione della cultura, già toccata nell’intervento sopra citato, che è probabilmente il senso più vero della trasformazione postmoderna. In aggiunta a ciò, può essere interessante rileggere quegli anni alla luce di un elemento innanzitutto di psicologia collettiva e, in secondo luogo, di ideologia, che ne caratterizza profondamente la cultura diffusa. Alludo all’euforia che mi sembra il tratto più specificamente «novantesco» degli anni novanta. In quel decennio possiamo con facilità rintracciare tutta una serie di euforie collettive da quella per la deregulation, che avrebbe consentito all’economia di arricchire larghe fasce della popolazione, a quella per la globalizzazione, che avrebbe garantito un mondo pacifico, per passare a quella della rete, che avrebbe messo a disposizione di tutti ogni conoscenza umana migliorando la cultura e la pacifica convivenza. E, tuttavia, non è una forzatura indicare la radice di queste numerose euforie in quella che potremmo chiamare l’euforia principale e storica della sconfitta e della scomparsa del blocco sovietico nel biennio 1989-91. L’euforia, insomma, nasceva dalla convinzione che la storia avesse emesso il suo verdetto definitivo e quindi non restava che godersi il presente luminoso di una liberaldemocrazia pacifica e perenne. Il successo di due libri, un successo che va al di là dei contenuti specifici e perfino della loro effettiva lettura, dovuti più che altro all’idea che i due libri veicolavano nel titolo, Fine della storia di Francis Fukuyama (1992) e Il libro nero del comunismo( 1997) a cura di Stéphane Courtois con l’intervento di diversi studiosi, è la testimonianza più eloquente di questo clima euforico. In un certo senso, questi due libri valgono come icone di un nuovo mondo che stava nascendo a prescindere dal loro effettivo contenuto, che almeno nel caso di Fukuyama è più articolato di quanto la sua ricezione, o meglio la ricezione del suo titolo, testimoni. Eppure, forse ancora più significativo di un ambito storico e politico, dove tale euforia è più facilmente spiegabile, è interessante guardare all’ambito informatico. Non alludo certo al tipico tormentone di quel decennio sulle autostrade informatiche che avrebbero portato a una situazione comunicativa perfetta, ma per restare a uno studioso di valore come Manuel Castells, che sottolinea anche problemi e limiti della rivoluzione informatica, queste parole scritte negli anni novanta costituiscono un’evidente prova di uno stato d’animo collettivo: «Anche se il pubblico riceveva sempre più materia prima con cui costruire l’immagine dell’universo propria di ogni individuo, la Galassia McLuhan (n.d.r.: il sistema mediatico moderno incentrato sulla televisione) ha rappresentato un mondo di comunicazione univoca, non di interazione. [….] La televisione ha avuto bisogno del computer per essere libera dallo schermo. Ma il loro connubio, con conseguenze potenziali di primaria importanza per la società nel suo complesso, si è realizzato solo dopo la lunga deviazione realizzata dai computer per imparare a comunicare tra loro, e per riuscire a parlare anche alla televisione. Soltanto allora il pubblico ha avuto la possibilità di farsi sentire» ( Castells La nascita della società in rete, trad.it., Milano 2008, ma originale 1996, p.396). Qui vediamo esposta la certezza, che grazie alla sola possibilità tecnica dell’interattività, si realizzerà un sistema mediatico democratico, realizzando quel villaggio globale, che McLuhan aveva teorizzato e auspicato, ma rimasto a livello di mera potenzialità nei media della sua epoca, perché l’organizzazione stessa della televisione, ancorata ai modelli di industrializzazione massiva moderna, impediva di svilupparlo compiutamente. La categoria dell’euforia è in fondo utile anche nel contesto italiano per descrivere il principale evento politico del decennio, cioè la discesa in campo di Berlusconi sulle ceneri della cosiddetta «prima repubblica» finita con tangentopoli. Se presso i suoi sostenitori l’ascesa del Cavaliere è presentata come l’emersione di un mondo nuovo bisognoso di nuove e meno numerose regole, che un ceto politico obsoleto e corrotto tiene sotto controllo, non può sfuggire che il tema del rinnovamento, della rivoluzione liberale, come la chiama lo stesso diretto interessato, ha un ruolo centrale nel consentire a un imprenditore fortemente legato al sistema di potere del pentapartito di presentarsi non solo come un innovatore, ma come l’erede della rivolta morale e civile di tangentopoli, nonostante il suo coinvolgimento nelle indagini. Paradossalmente la visione euforica degli anni Novanta si ritrova anche in molta dell’opposizione progressista a Berlusconi, sorpresa che la società civile, una volta liberata dalla tirannia dei partiti politici, avesse scelto come suo rappresentante un discusso imprenditore profondamente coinvolto con il vecchio sistema di potere crollato con tangentopoli e per di più sdoganatore di quei neofascisti che fino agli Ottanta occupavano una posizione marginale. Ne nacque una lettura del fenomeno berlusconiano come ritorno del fascismo, interpretato come sintesi delle malattie storiche italiane secondo una lettura di Gobetti totalmente destoricizzata, e dunque come manifestazione di arretratezza italiana rispetto ai modelli più avanzati del mondo anglosassone. Che accanto all’aspetto arretrato sussistesse anche la natura di laboratorio politico dell’Italia e che il berlusconismo fosse anche un prodotto profondamente avanzato delle tendenze innestate con la deregulation prima e con la globalizzazione poi, non poteva essere compreso, perché avrebbe significato mettere in discussione il presupposto, euforico, di vivere una stagione straordinaria di pace, crescita e sviluppo. Nella letteratura naturalmente non mancano esempi di questa euforia, anche se forse l’opera più riassuntiva di questo clima è un film come Full Monthy con la sua edificante vicenda di riscatto di disoccupati tramite la loro riconversione allo spogliarello. I testi, però, a mio avviso più interessanti sono quelli che vanno a costituire una costellazione disforica che in virtù della sua distanza dallo spirito del presente, di quella che in fondo potremmo chiamare la loro inattualità, probabilmente riescono a coglierne meglio alcuni caratteri. Mi limito a proporne alcuni senza alcuna pretesa non dico di esaustività, ma nemmeno di antologizzazione del decennio, nel semplice tentativo di rendere per approssimazione il senso della mia osservazione. Vorrei dunque citare in primo luogo un ampio romanzo come Underworld ( 1997) di Don De Lillo, che rielabora alcuni momenti della storia statunitense del secondo Novecento in un’ottica demifisticatoria e critica. Il libro presenta una struttura narrativa stratificata, corale, senza un vero e proprio protagonista con un intreccio a montaggio, tipico sia delle avanguardie sia dei postmoderni. Non è possibile, in questa carrellata, soffermarsi sui numerosi e complessi motivi che animano il romanzo, ma basterà citare le prime parole dell’epilogo che si intitola Das Kapital, in tedesco: «Il capitale elimina le sfumature di una cultura. Investimenti esteri, mercati globali, acquisizioni societarie, il flusso di informazioni dei media transnazionali, l’influenza attenuante del denaro elettronico e del sesso virtuale, denaro mai passato di mano e sesso sicuro al computer, la convergenza del desiderio dei consumatori- non che la gente voglia le stesse cose, necessariamente, ma vuole la stessa gamma di possibilità di scelta» (trad.it p.835). Perfino analizzare compiutamente questo frammento comporterebbe uno spazio che esorbita quello di questo scritto, ma mi sembra chiaro che in questo passaggio abbiamo una rappresentazione sintetica di ciò che sono la globalizzazione e la deregulation senza fronzoli, senza retorica, in una parola senza euforia. Personalmente penso che un romanzo del genere non abbia avuto una circolazione da catacomba solo grazie al fatto che De Lillo era già uno scrittore molto affermato quando viene pubblicato. Cionondimeno la ricezione di questo libro, almeno in Italia, è stata caratterizzata da un tentativo quasi inconscio di ometterne gli aspetti più radicali sottolineando piuttosto il grande affresco storico sulla società americana. Un altro, breve in questo caso, romanzo di De Lillo è Cosmopolis, che pur essendo del 2003 parla in un certo senso della fine degli anni Novanta, essendo ambientato in una giornata del 2000 a New York, quando esplode la bolla della new economy in un’anticipazione di quella che sarà la grande crisi del 2008. Il protagonista, un miliardario, nonostante la giornata in questione segni la sua rovina, sembra in realtà poter sopravvivere a quelle illusioni, che gli si ritorcono contro, e se non sopravviverà lui personalmente, altri personaggi analoghi ne prenderanno il posto. Possiamo leggere questo testo anche come una sorta di saggio sull’euforia che ho citato prima e sulla mentalità sociale che sta alla sua base. Un saggio lo scrive anche Josè Saramago con Cecità (1995), il cui titolo originale portoghese è Saggio sulla cecità (Ensaio sobre a Cegueira). Romanzo contro lo spirito dei tempi, ambientato in una generica città occidentale sconvolta da un’epidemia che produce cecità, si riallaccia alla tradizione camusiana della malattia come metafora politica. Eppure ritengo che le ragioni dell’indubbio fascino del libro non stiano tanto nell’allegoria politica dei rischi dell’individualismo proprietario per la società, ma nella rappresentazione della sua fragilità estrema, in cui il cosiddetto cammino del progresso può scoprirsi reversibile in tempi molto rapidi. Insomma una nota disforica nel «ballo Excelsior» collettivo di quegli anni. Prendiamo un passo come questo: «Poverini i tuoi genitori, poverina te quando vi incontrerete, ciechi negli occhi e ciechi nei sentimenti, perché i sentimenti con i quali abbiamo vissuto e che ci hanno fatto vivere come eravamo sono nati perché avevamo gli occhi, senza di essi i sentimenti si trasformeranno, non sappiamo come, non sappiamo in quali, tu dici che siamo morti perché siamo ciechi, dunque, Tu ami tuo marito, Sì, quanto me stessa, ma se diventassi cieca, se dopo esserlo diventata non fossi più quella di prima, chi sarei per continuare ad amarlo e di che amore….». ( trad.it. 2016, p.214). In questa conversazione tra la moglie dell’oculista, l’unica vedente restata, e una giovane paziente del marito che fa parte di un piccolo gruppo di contagiati che sono i protagonisti del romanzo perché non smarriscono un po’ di umanità e spirito di collaborazione, è possibile leggere anche le trasformazioni a livello affettivo che la costruzione di soggettività del neoliberismo produce. Michel Houellebecq negli anni Novanta non ha ancora assunto quel ruolo mediatico di cattivo soggetto che le sue posizioni a favore della pornografia e contro l’islam gli varranno negli anni successivi. Nei due romanzi del decennio L’estensione del dominio della lotta (1994) e il più noto La particelle elementari (1998) abbiamo la messa in scena di personaggi che sono fortemente in crisi per la difficoltà di trovare delle partner sessuali. Sebbene il tema a prima visto siano le difficoltà delle complesse dinamiche relazionali umane, aumenta dalla natura bifida e contraddittoria del desiderio, che da un lato va verso il classico amore romantico e dall’altro verso un’aspettativa di un’intensa attività sessuale promiscua, i due personaggi, e il narratore con loro, preferiscono attribuirle rispettivamente alla competitività del liberismo che si introduce anche nelle dimensioni più private della vita, togliendo appeal ai perdenti, nel primo caso, e al movimento hippie e al Sessantotto che hanno introdotto una dimensione sessuale consumistica ed egoista che pregiudica le possibilità dei timidi sentimentali a vantaggio dei soggetti più sfacciati, nel secondo. Eppure Houellebecq, nonostante questo punto di partenza un po’ sconclusionato, ma non privo di un pubblico che vi si riconosce, riesce nel rendere i tratti dell’esperienza soggettiva nella società neoliberista atomizzata. Ciò gli varrà la nomea del pessimista, destino in fondo ovvio per chi vive in tempi d’euforia. Nel contesto italiano vorrei citare un romanzo di Nanni Balestrini Una mattina ci siam svegliati (1995), che si svolge durante la manifestazione a Milano del 25 aprile 1994, diventata una manifestazione nazionale in risposta al successo elettorale di Berlusconi con l’entrata al governo di Alleanza Nazionale, erede del MSI, che aveva nel programma di cambiare la costituzione. Costruito con il tipico montaggio balestriniano di materiali orali, Una mattina ci siam svegliati si basa sulle registrazioni della diretta radiofonica fiume che Radio Popolare di Milano dedicò all’avvenimento. Tra le parole dei manifestanti e quelle dei giornalisti della radio riportate in un flusso continuo come era quello che effettivamente si viveva, Balestrini coglie una dimensione di partecipazione e di lotta che si ricollega all’esperienze del passato e che, pur rappresentata in tutte le sue contraddizioni, va in direzione opposta al discorso dominante. Non incontriamo un’analisi, né un invito all’impegno, né tanto meno una ricostruzione storica, ma c’è l’energia del momento storico, così dalle mille voci che attraversano il romanzo si possono scegliere queste parole di una manifestante «mi sembra che si sono ottenute due cose importanti il primo che l’opposizione c’è e comunque che le piazze se vuole sono della sinistra e non della destra» ( ed.2011, pag.206) che rappresentano il senso esatto di un patrimonio politico che è stato dilapidato in nome delle ruggenti illusioni degli anni novanta, che ha la forza di un epitaffio perché non è parola d’autore, che è solo il tramite, ma è una voce dentro una coralità. Vorrei concludere citando una poesia di Andrea Zanzotto dal titolo Currunt, risalente agli anni 91-93 e inserita nella raccolta Meteo (1996): non si tratta di una delle poesie più note dell’autore veneto, ma è forse quella che coglie meglio il lato oscuro di quel decennio. «Papaveri, ovunque, oggi, ossessivamente essudati,/ sudori di sangui di un/ assolutamente/ eroinizzato slombato paesaggio/ sudore spia/ di chissà quale irrotta malattia/ - mala mala bah bah tempora currunbah bah/» sono i primi versi che evocano il papavero come fiore del colore del sangue simbolo del sonno e dell’oblio degli orrori passati, da cui nasce la guerra civile nella ex Jugoslavia; allo stesso tempo i papaveri selvatici sono fiori molto comuni, considerati però degli infestanti delle coltivazioni cerealicole, sui quali si usano dei pesticidi e dei fitofarmaci, il che provoca quel fenomeno di un loro affollamento ai bordi dei campi, evocato nel verso iniziale. Ci troviamo dunque di fronte a una duplice dimenticanza: quella del timore per la guerra, per far nascere delle nuove patrie che traggono origine dalle matrie attraverso le stuprie, neologismo zanzottiano a indicare gli stupri etnici, e quella dell’indifferenza per l’ambiente, che porta a nascite di zanzare tigri e altri insetti pericolosi nelle nostre campagne non ancora urbanizzate e già deindustrializzate. Il refrain del vecchio detto moralistico mala tempora currunt parodizzato nel testo allude anche a un senso di impotenza non solo della poesia, ma anche di ogni azione di denuncia, che è uno dei tratti che gli anni Novanta portano con sé. E forse i papaveri rossi potrebbero essere eletti, anche se non so se questa sia la sede più idonea per avanzare una simile candidatura, a fiori del decennio.


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Giorgio Mascitelli ha pubblicato due romanzi Nel silenzio delle merci (1996) e L’arte della capriola (1999), e le raccolte di racconti Catastrofi d’assestamento (2011) e Notturno buffo (2017) oltre a numerosi articoli e racconti su varie riviste letterarie e culturali. Un racconto è apparso su volume autonomo con il titolo Piove sempre sul bagnato (2008). È stato redattore di «alfapiù», supplemento in rete di «alfabeta2», e attualmente del sito letterario «Nazione Indiana».

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