Recensione a Cultura, formazione e ricerca
Nella recensione di Cultura, formazione e ricerca (DeriveApprodi 2023) che presentiamo, le studentesse del collettivo Refresh di Trento si confrontano con i ragionamenti e le acute provocazioni che Romano Alquati condivise con il movimento della Pantera. La fotografia dell’odierno ambiente accademico che emerge dalla riflessione delle autrici ci restituisce l’immagine di una complessiva perdita di senso della formazione universitaria e della ricerca, che è accompagnata ad una polverizzazione dei rapporti intersoggettivi. Tuttavia alcuni dati emersi da un’inchiesta già pubblicata su Machina (qui e qui) complicano questa immagine, stratificandola maggiormente. Se è vero infatti che da un lato assistiamo ad una complessiva perdita di senso della formazione, dall’altro lato riscontriamo anche una domanda di sapere professionalizzato da parte degli studenti e delle studentesse che supera l’offerta di conoscenza già trasformata in sapere tecnico-operativo dai processi di aziendalizzazione dell’università. Infine, la recensione ha anche il merito di allargare lo sguardo critico sui circuiti digitali della formazione esterni a quelli istituzionali e sempre più utilizzati ma generalmente poco trattati quando si parla di formazione. È in questo difficile contesto che occorre inventare nuove prassi organizzative.
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Nota sul linguaggio
In questo testo utilizzeremo la forma femminile universale per due motivi principali. Il primo è perché crediamo fermamente nell’importanza di un linguaggio inclusivo che scardini l’utilizzo della sola forma maschile. Il secondo motivo è legato al fatto che questo testo è stato scritto da una grande maggioranza di persone socializzate come donne e solo in minor parte da persone socializzate come uomini. Precisiamo infine, che sono presenti termini mutuati dalla teoria che mantengono la forma maschile universale, per mantenere una coerenza teorica.
Introduzione
A distanza di 30 anni, riprendiamo in mano il dialogo che Alquati ebbe con il Movimento della Pantera per cercare di calarlo nell’attualità e contemporaneamente indagare osservazioni e intuizioni suggerite nel testo. Se quel dialogo si radicava in un contesto di cambiamento, che poneva le basi per un’università in trasformazione, l’università di oggi è il risultato delle riforme che si sono susseguite negli anni successivi. Ci proponiamo quindi di guardare all’ambiente accademico odierno, dalla sua struttura alla composizione delle soggettività che lo attraversano e che soprattutto si producono all’interno di esso. Ci muove la necessità di riuscire a scomporre e inchiodare al muro l’articolazione del sistema formativo attuale, caratterizzato oggigiorno dalla perdita di senso rispetto al sapere appreso. Ci focalizzeremo anche sulle altre sfere della formazione che, pur non appartenendo alle istituzioni dure, potenziano il sapere senza però portare un reale incremento di capacità attiva umana.
Dal discorso di Alquati emerge una critica all’alternatività dei movimenti e alla loro limitata efficacia, mettendoci di fronte ad una realtà di cui noi stesse siamo parte integrante. Spesso agiamo e pensiamo all'interno delle nostre «bolle» sociali, intrappolate in circuiti avversi che ci tengono confinati in una posizione marginale. Questa situazione è aggravata dalla crescente mancanza di teoria, studio, analisi e riflessione nelle realtà politiche. Il senso di smarrimento è ben presente anche negli spazi che attraversiamo: la massima flessibilità della tattica si traduce in una reiterazione di pratiche che di fatto è incapace di rimescolare le carte in tavola; la massima rigidità della strategia risulta annebbiata dall’enfatizzazione dei numeri e dalla ricerca di egemonia locale.
Tuttavia il nostro scopo non è quello di puntare il dito ma di suggerire che, alla luce degli errori del passato, è fondamentale analizzare la situazione attuale dentro e fuori di noi. Solo così possiamo visualizzare e affrontare il problema che abbiamo di fronte.
In Cultura, formazione e ricerca, Alquati si concentra sul rapporto università-impresa e sul ruolo del sapere e della formazione. Questi temi sollevano ulteriori questioni quali la riproduzione delle capacità, la mercificazione della cultura e il suo consumo ai fini della valorizzazione del capitale e dell’impoverimento delle capacità individuali. Per comprendere il capitalismo contemporaneo e i suoi cambiamenti in relazione alle esigenze dell'industria, è essenziale analizzare il contesto formativo in cui si formano le soggettività da cui il capitale può estrarre valore.
L'università è un elemento integrato in questo sistema, così come la produzione di conoscenza in generale. In particolar modo, la formazione assume un ruolo centrale in questo processo poiché rappresenta la riproduzione allargata del valore e delle capacità umane come merce. Questa riproduzione interessa tutti gli aspetti della conoscenza individuale, inclusi quelli psichici ed emotivi. La lotta tra attore e soggetto, il potenziamento e l'arricchimento, nonché la separazione e la mercificazione delle capacità, riflettono un processo di proletarizzazione delle competenze umane in cui il sapere stesso diventa una merce. Di conseguenza, diventa fondamentale de-mercificare il sapere, superando l'idea che esso sia intrinsecamente critico.
Uno sguardo all’università di oggi
Da una trentina di anni assistiamo ad un mutamento del sistema capitalistico che vede prendere sempre più piede il cosiddetto capitalismo cognitivo. Questo nuovo modello di capitalismo porta in evidenza la sempre maggiore centralità del sapere e della cultura nei processi di accumulazione capitalistica. Per comprendere il capitalismo contemporaneo e i suoi cambiamenti in relazione alle esigenze dell'industria è essenziale analizzare il contesto formativo.
La riforma Berlinguer del 1999 ha portato degli elementi aziendalistici nell’università con l’introduzione dei Cfu e della laurea specialistica – il cosiddetto sistema del 3+2 – ispirato al modello anglosassone. La riforma Gelmini ha completato l’opera plasmando anche la dirigenza dell’università sull’immagine di quella delle imprese. Inoltre, emerge come la differenza tra pubblico e privato sia solo nominale: l’articolo 16 della legge 133/2008 prevede, infatti, la possibilità di trasformare le università in fondazioni di diritto privato.
Per quanto possa infastidire ammetterlo, forse la differenza tra pubblico e privato non è mai esistita: che sia l’università pubblica per cui tante hanno lottato nei decenni precedenti o l’università privatizzata che viviamo oggi, la realtà è che l’università è sempre stata un’azienda, solo che adesso si afferma senza remore.
Il sistema dei Cfu che ha spinto l’aziendalizzazione della didattica rende le studentesse delle lavoratrici a cottimo dettando il carico di lavoro per ogni esame. L’antifona è questa: l’esame da 6 crediti è un sassolino che incontri sul tuo percorso universitario, facilmente dimenticabile e aggirabile con un paio di giorni di studio; al contrario, l’esame da 12 crediti è la chiave di volta su cui si regge l’intero percorso universitario e fallire in questo significa fallire tutto il percorso di studi. L’apprendimento, dunque, non avviene per interesse personale ma è finalizzato alla conquista del valore numerico dell’esame. Ciò accade in particolar modo nei corsi di studio di indirizzo umanistico, in cui le conoscenze sembrano acquisire rilevanza soltanto nell’imminente pre e nell’immediato post esame, per poi essere sostituite dalle nozioni dell’esame seguente. Il modello dei Cfu ci detta inevitabilmente come rapportarci allo studio e all’apprendimento della conoscenza. La tanto professata libertà di scelta all’interno dell’università in realtà è solo apparente, in quanto ci indirizza verso un percorso prestabilito, oltre che verso dei corsi che rimangono asettici e finalizzati alla formazione di quello che Alquati definirebbe un «sapere freddo», impoverito, standardizzato e già mercificato. Alle studentesse vengono impartite nozioni slegate e ripetitive che le portano a non saper più affrontare problemi aperti e, nella maggior parte dei casi, a non saper nemmeno più porsi quesiti originali. Si delinea così la figura del «lavoratore cognitivo», a cui vengono fornite conoscenze incasellate dentro limiti ben precisi al fine di garantirne un’operatività organica. Dunque, il sapere prodotto è un sapere impoverito, monco e privo di qualsiasi capacità trasformativa e interpretativa della realtà.
Un senso di inadeguatezza e inettitudine domina sia nell’ambito universitario che al suo esterno: più studi, più ti senti stupida. L’apprendimento viene così individualizzato: non c’è più spazio per una discussione o per una dimensione di apprendimento condiviso. Le aule sono gremite di studentesse, ma non c’è alcuna interazione tra loro; ci si sente sole in mezzo alla folla. Le università private si vantano della relazione a tu per tu tra studentessa e docente, screditando l’affollamento delle aule tipico delle cosiddette università «pubbliche». In questo modo viene ancora più valorizzata la dimensione di iper-individualizzazione dell’apprendimento. È proprio questo il fulcro di un sapere distruttivo: un sapere che annulla la capacità umana e la capacità inter-soggettiva. Del resto, per l’evoluzione attuale dei mezzi di produzione, la capacità umana collettiva è inutile; ciò che è richiesto è l’abilità di inserire degli input in macchine che pian piano sostituiranno il lavoro vivo degli individui. Ciò è evidente nell’ambito della ricerca, isolata e meccanizzata, organizzata come una catena di montaggio e dove compie un lavoro per cui spesso si è sovra-qualificate. Le dottorande sono lasciate nel peggiore dei casi a calibrare strumenti, nel migliore a fare superflue analisi di laboratorio, completamente assoggettate ai capricci delle professoresse. Nella ricerca, paradossalmente, non si ricerca nulla.
Tutto ciò che abbiamo descritto è la cifra di una società iper-industrializzata. L’avanzamento tecnologico dettato dai ritmi della società capitalista porta alla perdita della forza dei rapporti inter-soggettivi, fondamento del potere contrattuale delle classi iper-proletarizzate, appiattendo così una delle ultime dimensioni di resistenza al capitale. Se la mercificazione del sapere è un dato di fatto sin dalla nascita del capitalismo, quella dei rapporti umani all'interno delle classi non lo era affatto. Ormai la sussunzione capitalistica sta raggiungendo anche la vita inter-soggettiva, com'è ravvisabile nell'esistenza di una formazione parallela a quella dell'istituzione scolastica.
Oltre il mondo accademico
Dopo aver preso in esame la formazione accademica, vorremmo focalizzarci su un tipo di formazione che non passa dai canali istituzionali e/o familiari, ma attraverso mezzi come podcast, social network e, più in generale, il mondo digitale. La televisione e la radio nascono come mezzi d’informazione, iniziando poi un graduale passaggio a mezzi di formazione: ma è con l’avvento di internet e l’avanzamento tecnologico che questo passaggio diventa definitivo. I mezzi mediatici da sempre producono informazioni, tuttavia, esse negli ultimi anni sono diventate accessibili on demand, cioè quando un individuo le richiede. Ogni informazione che cerchiamo è facilmente reperibile su internet, o comunque da un dispositivo tecnologico. Ciò ha fatto sì che questi strumenti siano diventati anche dei mezzi di formazione. Questa formazione parallela deriva da un consumo distruttivo tale per cui gli individui hanno da un lato delle risposte temporanee ai loro problemi e, dall’altro, un costante impoverimento del loro sapere. Basti pensare alla sempre minor capacità di orientarsi che si nota da quando, prima i navigatori, e poi applicazioni come Google Maps sono entrati nelle nostre vite. Da un lato abbiamo la possibilità di andare da punto x a punto y facilmente, dall’altro senza tali strumenti non siamo in grado di arrivare nemmeno in un luogo che frequentiamo abitualmente.
Il mondo digitale dei social network ha visto nascere delle figure professionali – le influencer – che ormai detengono un potere formativo, oltre che persuasivo, parallelo o addirittura maggiore alle istituzioni che storicamente formavano gli individui, come le scuole o le università. Un’altra figura professionale partorita dal mondo digital, soprattutto grazie a video e podcast, è la divulgatrice scientifica. Le divulgatrici nascono come esperte di un ambito particolare di studio, ma sempre di più finiscono per essere tuttologhe, con l’obiettivo di rendere la formazione accessibile a tutte attraverso i loro contenuti. Queste nuove figure si stanno pian piano sostituendo alle professoresse, o peggio ai libri. A chiunque voglia «formarsi» su un tema particolare basta cercare online la sua divulgatrice preferita e subito può ottenere una gran quantità di video che in pochi minuti riassumono i contenuti necessari per superare un’interrogazione o un tema. Ci siamo interrogate molto su come questi attori riescano ad attirare l’attenzione delle persone che ormai prediligono questa formazione a quella istituzionale. Questo è chiaramente un problema aperto e non abbiamo la pretesa di risolverlo in questa sede; crediamo però che sia fondamentale aprire un dialogo su questo tema.
Per quanto risulti evidente che sia più facile accedere su richiesta ad un contenuto formativo dalla propria camera da letto, piuttosto che andare in università o a scuola, non pensiamo che questo ragionamento si riduca ad una scelta di comodo. A parere di chi scrive, l’attrattiva deriva dalla fruibilità delle nozioni quando queste vengono esposte, già preconfezionate, da un’oratrice che però non ricopre alcun ruolo istituzionale. Le influencer, ma ancor di più le divulgatrici, appaiono più come l’amica che ti spiega un concetto perso durante la lezione che come una professoressa. Il ruolo di questi attori, aggiunto alla fruizione di un concetto già ragionato, alleggeriscono l’attenzione e l’impegno che le persone devono mettere sul piatto. Questi contenuti on demand non richiedono infatti alcuna riflessione: un’oratrice spiega la sua opinione su un concetto che viene preso per buono ed immagazzinato senza alcuna lente critica.
Soggettività e contro-soggettività
Delineare la soggettività creata dalla formazione digitale è un compito particolarmente complesso: si tratta di processi in divenire legati alle trasformazioni della comunicazione digitale, terreno dai recenti natali e in costante cambiamento. È tuttavia possibile tracciare alcuni punti generali che possono sommariamente descrivere questa nuova soggettività. In primo luogo, l'atteggiamento di passività nei riguardi del sapere ne esce acuito: se precedentemente si parlava di «lavoratore cognitivo», qui si potrebbe parlare di «consumatore cognitivo». Il carattere di consumo distruttivo diviene palese: si genera una soggettività che è volta a consumare voracemente un sapere effimero, il cui fine è semplicemente quello di essere consumato. Nel solco di una generale perdita di senso, la ricerca di sapere proiettata nel mondo digitale diviene così una nuova forma di industria dell'intrattenimento.
Anche l’università concorre alla formazione della soggettività, in particolare alla creazione dei già citati lavoratori cognitivi. La formazione che offre l’università di oggi costruisce una soggettività destinata a rientrare nel processo produttivo. Tutto ciò costituisce quella macchina che vede noi studentesse come lavoratori cognitivi all’interno di un'università ormai totalmente aziendalizzata. Come accennato in precedenza, anche la formazione accademica, nonostante i suoi goffi tentativi di farsi portatrice di pensiero critico, fornisce un sapere completamente standardizzato, impoverito e banalizzato. È fondamentale osservare come la soggettività universitaria reagisca o, meglio, non reagisca, a questa mercificazione del sapere. Le studentesse sono sempre meno abituate a essere poste di fronte a dei problemi aperti e, le rare volte in cui ciò accade, si osserva un atteggiamento di passività che porta ad arrendersi al problema. Per comprendere e risolvere un quesito le studentesse sono abituate ad agire attraverso uno schema preimpostato; è sempre più raro che si ragioni su una soluzione originale al problema posto. Ciò non accade solo in ambito accademico, non sono più in grado di farlo neanche per ciò che le tocca e le interessa in prima persona.
La lotta contro la soggettività capitalista, e il conseguente sforzo di creare una contro-soggettività da parte dei gruppi politici che sono, o quanto meno si professano, anticapitalisti è sicuramente centrale. Tuttavia, troppo spesso, il lavoro di creazione di contro-soggettività è subordinato alla cooptazione di lotte e nuovi soggetti. I movimenti finiscono per agire alla stregua di centri che riproducono una forma di relazione mercificatoria; il soggetto avvicinato non è un soggetto, ma un oggetto, uno strumento di potere politico. La creazione di contro-soggettività passa attraverso un processo di contro-formazione, che al momento, noi stesse che scriviamo, riteniamo carente. Senza di esso è impossibile pensare ad una contrapposizione forte: l’analisi politica che proviamo a imbastire spesso arranca lacunosa. È necessario ripartire dalla soggettività del soggetto umano, tanto più come soggetto collettivo.
Riteniamo che la pratica dell'auto-formazione richieda una seria riflessione sulla sua validità. Sebbene possa essere un metodo pregevole per acquisire conoscenze, presenta alcune limitazioni. Spesso, nei contesti dei movimenti, si intraprendono percorsi di auto-formazione che sembrano inizialmente promettenti, ma che si rivelano inefficaci a lungo termine. Questo perché mancano gli strumenti strategici adeguati che siano in grado di accompagnare questi percorsi ad una prassi dinamica. Tali strumenti si acquisiscono attraverso un confronto collettivo organico inquadrato storicamente. È dunque necessario tornare ad una formazione militante sistematica e coordinata.
Lasciamo quindi il problema aperto: la decisione di non trovare un punto fermo nelle questioni dibattute nasce dalla necessità, sempre più pressante, di non voler fornire risposte che ormai risultano scontate e stantie. La nostra volontà è quella di formulare interrogativi che possano essere l'inizio di una nuova discussione. Speriamo che l'interrogarsi collettivo possa rinascere in maniera originale e che in futuro si possano formulare risposte e strategie che siano realmente alternative.
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Collettivo Universitario Refresh (CUR) nasce a Trento nel 2013. Negli ultimi anni si sta interrogando su come strutturare una militanza all'altezza delle soggettività, delle relazioni sociali e dei cambiamenti strutturali che attengono all'Università di oggi, a partire dall'osservazione e dall'analisi.
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