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Heinz Kissinger, l’arte europea al servizio del principe America



Kissinger
Immagine: Samuele Arcangioli

Il 29 novembre 2023 è morto Henry Kissinger, già Consigliere per la sicurezza e Segretario di Stato degli Stati Uniti e una delle figure che hanno più determinato le politiche estere del Novecento della superpotenza a stelle e strisce.

Rita di Leo ne ricostruisce il ritratto, a partire dalle origini tedesche e quindi da una formazione ispirata dal Seicento europeo, dove i problemi si risolvevano con l’uso della forza. La sua cultura politica ha spinto gli Stati Uniti ad avere visioni più ampie del business, passando dall’isolazionismo all’interventismo, e a sviluppare le loro strategie di dominio sul mondo nel Novecento, facendo di Kissinger uno dei maggiori responsabili delle vittime delle guerre statunitensi.


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I media italiani, europei, americani, cinesi hanno commentato la fine della sua vita a 100 anni, con articoli e saggi dove prevale l’ammirazione per il genio sulle critiche che tuttavia non sono mancate. Documenti del governo e dei servizi segreti, intanto desecretati, testimoniano le sue responsabilità per un non ancora precisato numero di vittime del suo agire destruens/costruens.

Dai vietnamiti ai cileni, il conto è così alto che supera la voglia di farlo. 

Quella sua capacità di distruggere paesi, civili e soldati, governi e stati, dovrebbe essere affidata a Freud e Jung, Bettelheim e Bloch perché con i loro specialismi forse sarebbero in grado di farci capire l’uomo Heinz Kissinger.

L’uso della forza come soluzione dei problemi appartiene alla storia europea, al Seicento, all’epoca dei cavalieri di ventura, i quali assoldati dai principi, combattevano le loro guerre. Nel Seicento con le spade, nel Novecento con le bombe.

I morti vietnamiti, cambogiani, i «nemici» dei kmer rossi, rientrano nella parte destruens di Kissinger, ispirata appunto al Seicento europeo. Per gli studenti cileni, fatti volare dagli aerei in mare, in quanto dissidenti politici del XX secolo, la motivazione tutta politica serve a completare l’altra metà del suo agire, quello costruens, dove teorie e ideologie si integrano l’un l’altra.

Per quale obiettivo Heinz Kissinger si è immedesimato nell’America? Per più di mezzo secolo ha ispirato l’America a riconoscersi come super potenza, ad abbandonare il suo passato isolazionista, ad assumersi la responsabilità di controllare l’intero mondo. Un obiettivo che aveva maturato non nell’immediato del suo arrivo come profugo adolescente, ma da soldato Usa quando era tornato nella sua Germania vinta e giudicato l’Europa sconfitta per sempre.

A vincere era una società dove Hegel e Shiller non si studiavano a scuola, insieme al latino di Cicerone e al greco di Platone.

Nel suo nuovo mondo dopo qualche difficoltà, da ex soldato, si può immatricolare ad Harvard, l’università che sino a pochi anni prima non accettava studenti ebrei.

È da quella sua esperienza, in un ambiente di conservatori bianchi protestanti ricchi, che bisogna ripartire per mettere insieme i pezzi del suo costruens.

Quell’ambiente è stato per Heinz Kissinger l’equivalente del rapporto che si instaurava tra le élite ebree e i principi dei piccoli regni tedeschi del passato pre-Germania unita: i principi, solitamente ignoranti e indolenti, andavano aiutati a governare, finanziandoli e consigliandoli; in compenso, si prestavano a difendere gli ebrei professionisti, intellettuali, artisti, dall’odio del proprio popolo, ferocemente antisemita.

Gli ebrei laici, tedeschi, austriaci, cechi, vivevano in città, ed erano socialmente e culturalmente estranei agli ebrei ortodossi dei villaggi, polacchi, moldavi, galiziani, rumeni, ungheresi, chini sui loro testi sacri, alla mercè dei progrom contadini.

Il padre di Heinz era preside di liceo e aveva fatto in tempo a scappare nel 1938, non aveva subito le traversie di una Hanna Arendt, e in America era andato a vivere non a Brooklyn tra gli immigrati europei centro-orientali, ma in un quartiere abitato da tedeschi, con l’ambizione di assimilarsi il più velocemente possibile, lui e i suoi figli.

L’ambiente di Harvard è stato la base su cui Kissinger –  con l’educazione avuta in famiglia – ha edificato il suo costruens a beneficio dell’America, che distanziandosi dal New Deal di Roosevelt stava imboccando la fase della guerra fredda. Ad Harvard come già prima nell’esercito, si era fatta una sua precisa valutazione della società americana, aveva ben chiaro che chi aveva cervello non lo «sprecava» sui libri come in Europa, ma si orientava verso business che assicuravano denaro e potere, nell’industria, nella finanza, negli studi legali mentre la gran maggioranza, la middle class era molto più facile da gestire di quella europea, priva di partiti e sindacati di tipo europeo. Dagli anni trenta in poi era stata via via riconosciuta l’utilità degli esuli europei, ebrei e non ebrei, che svolgevano attività di ricerca scientifica e tecnologica quasi sempre indirizzata a favore del business. Vi erano infine coloro che facevano politica e cioè erano impegnati nell’attività amministrativa locale, statale, federale del corrispondente business, locale, statale, federale.

 Heinz Kissinger vede la società nelle sue componenti: gli uomini del denaro e del potere, gli uomini del pensare scientifico e tecnologico, la massa-popolo-plebe e deve essersi chiesto ancora giovanissimo, ricco della sua cultura politica – Macchiavelli, Hobbes, Metternich – come agire per tenerla al riparo da influenze che arrivino dal comunismo sovietico o dal populismo latino-americano o da qualsiasi conflitto interno di tipo razziale. L’impossibilità di governare in prima persona per non esser nato in America, ma di dover stare un passo indietro a un Nixon, è stata la sua personale tragedia di ebreo assimilato, dei limiti della sua assimilazione. Limiti che Léon Blum non aveva avuto in Francia.

Nei moltissimi saggi che gli sono stati dedicati alla sua morte, non sono mancate analisi puntuali del lunghissimo periodo in cui era stato in grado di far fare a presidenti, servizi segreti, macchina militare, ciò che riteneva andasse fatto per l’affermazione del primato americano. Nonostante non potesse farlo direttamente la sua «arte» europea è stata utilizzata alla corte del principe America perché imparasse a comportarsi da principe, avesse visioni più ampie del business. Che amasse il potere politico, che perseguisse strategie di dominio al di là dei propri confini.

 Vi sono media come «Intercept» che hanno messo in rilievo il costo di vite umane sacrificate in conseguenza delle strategie suggerite da Kissinger, altri come il politologo Stephen Waltz hanno negato la convenienza di quelle strategie.

Nessuno però ha spiegato la quasi divinazione del personaggio, raggiunta al suo massimo nella cerimonia pubblica in occasione del suo centesimo anno. Potrebbe farlo solo lui che ha agito da Harvard in poi, come il rabbino capo del paese America. Un paese immaginato come una sinagoga dove i suoi membri commettono errori, hanno bisogno di consigli, avvertimenti, minacce, dove i loro primari interessi vanno difesi nella consapevolezza della  ignoranza di massa dei membri. È quello che fa il rabbino: consiglia i suoi fedeli sulle loro questioni, li aiuta a prendere decisioni, le più convenienti.   

Nel suo caso un grande aiuto per la sua funzione gli è venuto dalla competizione con Mosca, dalla diffusione del principio amico/nemico, imposto dalla guerra fredda.

Il suo impegno primario è stato difendere la sua «comunità» dall’esistenza dell’URSS, che nella seconda metà del Novecento appariva ancora un avversario potente. Con gran convinzione Kissinger ha sostenuto attività belliche, e conflitti «secretati», decisi da presidenti democratici e repubblicani, come indispensabili prove di forza il cui mittente era Mosca. Anche il suo gran colpo con la Cina di Mao aveva tra le sue motivazioni quella di mettere una spina nel rapporto tra il Cremlino e i cinesi, ansiosi come erano di mostrarsi autonomi, di mettere in cassaforte quello che avevano subito dai russi in attesa del momento in cui ribaltare il rapporto. Con la guerra in Ucraina il momento è arrivato e non a caso il centenario Kissinger è volato a Pechino a prendersi i ringraziamenti dai cinesi che ne stanno piangendo la morte.               

 Il gran rabbino Heinz Kissinger si è sempre mosso nella certezza di saper prevedere e di essere in grado di poter risolvere qualsiasi problema l’America dovesse affrontare per consolidare il suo primato. Sia nel periodo in cui era alle spalle del presidente alla Casa Bianca e sia nel resto della sua vita, grazie alla sua società di consulenza, cui ricorrevano finanzieri, industriali, politici, e dove elargiva idee per far loro affrontare i loro problemi. Con saggi, seminari, libri ha veicolato il suo obiettivo perché non solo le élite ma anche la massa-popolo-plebe si convincessero che la sconfitta europea nel 1945 aveva trasmesso all’America impegni di gestione degli affari del mondo.

Ai nostri occhi europei del secondo Novecento appare incredibile che fosse necessario dover veicolare un tale messaggio, non così per chi ha sa del

primo Novecento americano, e conosce le difficoltà di Roosevelt, dopo i fallimenti di Wilson, l’ostilità della provincia per qualsiasi elemento di novità rispetto alla propria esperienza locale. Invero il «peso» del primato è un percorso cominciato grazie all’arrivo nelle città degli emigranti europei negli anni venti, sancito poi dalla vittoria nella seconda guerra mondiale europea, dal confronto con il comunismo europeo, quello di Mosca e quello italiano, francese, inglese, della socialdemocrazia nordica europea e infine per il risveglio arabo, turco, iraniano.

Il gran rabbino Kissinger ha contribuito al passaggio dall’isolazionismo all’interventismo, ripetendo e ripetendo che deve esistere uno stato-impero-popolo-governo più forte di tutti gli altri, che si arroghi la responsabilità di assicurare la stabilità nelle relazioni internazionali. E lo possa fare solo dotandosi di un apparato militare senza pari. Che sia la società americana ad esser divenuta una super potenza militare con le peculiarità del suo sistema politico e il culto del business è uno scherzo della storia, duro da accettare per l’ebreo tedesco, nato e istruito in Germania, centro di quella Europa dove il potere politico era simbolo di un dominio basato sulla forza, una forza che veniva dalle armi ma anche dal pensiero, da teorie, ideologie, utopie. In America il potere viene dal successo nel business sia del singolo imprenditore, e sia delle élite finanziarie che operano attraverso lobby al Congresso, al Senato. Il potere del business porta con sé il controllo politico dell’ambiente in cui opera il business, un ambiente che nel primo Novecento aveva in gran misura confini «locali».

Nel secondo Novecento l’élite ha ampliato il proprio orizzonte, si è data strategie globali di egemonia politica, alcune suggerite da Kissinger come nel caso Cina, altre imposte dal confronto con avversari. Avversari con alternative laiche e/o fondamentalismi etnico-religiosi. In tal senso vi è stato un taglio netto con l’isolazionismo nelle relazioni internazionali e ancor più in quelle economiche.   

La convinzione – ormai accettata in provincia come in città – del primato del paese America con responsabilità di controllo sul resto del mondo rappresenta la vittoria sul passato, sul disinteresse culturale di massa verso tutto ciò che non è America.

La scomparsa dell’URSS e le guerre del XXI secolo – dalla Yugoslavia all’Iraq e all’Afganistan –  sono state un intreccio di vittorie e di sconfitte nella valutazione del gran rabbino. Le sconfitte sono in gran parte militari, in Iraq e in Afganistan, conseguenza dell’incapacità di capire che esistono altri modelli di vita e di civiltà. Il gran rabbino l’aveva già sperimentato quando da soldato era stato inviato nella sua Germania, nella sua Europa, che il primato l’aveva appena perso.

Heinz Kissinger è scomparso senza vedere i sintomi della caduta del primato americano per il quale tanto si era speso. Rimane da chiedersi il perché della sua integrazione in una società così lontana da quella sua europea.


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Rita di Leo è professore emerito di Relazioni Internazionali, Università Sapienza di Roma. Protagonista della stagione dell’operaismo italiano, ha contribuito alla nascita dei «Quaderni rossi» e di «classe operaia». Ha investito il suo lavoro intellettuale da un lato sull’operaismo sovietico e sulle cause del suo fallimento, dall’altro sull’apparente vittoria degli Stati Uniti e del capitalismo occidentale. Tra i suoi numerosi libri segnaliamo Lo strappo atlantico. America contro Europa (2004), L’esperimento profano. Dal capitalismo al socialismo e viceversa (2012), Cento anni dopo. Da Lenin a Zuckerberg (2017), L’età della moneta. I suoi uomini, il suo spazio, il suo tempo (2018). Ha recentemente pubblicato per DeriveApprodi L'età dei torbidi. Il ritorno delle trincee tra Stati Uniti, Europa e Russia.

  

 

 

 

 

   

 

 

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