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Gli spettri di Chiara Fumai. Una rilettura circolare e non egemone della Storia



Pubblichiamo un articolo che descrive il pensiero e l’arte di Chiara Fumai, del suo rapporto con il tempo, con il linguaggio, con la Storia.


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«Burial risogna il passato, condensando i cimeli di generi caduti in disuso all’interno di un montaggio onirico; il suo sound è pervaso dal lutto piuttosto che dalla malinconia, giacché desidera ancora raggiungere l’oggetto perduto, rifiutandosi di abbandonare la speranza che esso possa un giorno tornare». Con queste parole Mark Fisher descrive la poetica del producer musicale Burial, in un’intervista del 2007 rifacendosi al concetto di Spettrologia di Jaques Derrida. Quest’ultima, attraverso l’analisi dei fenomeni di ritorno dei fantasmi del passato, ci pone di fronte all’impossibilità di dichiarare morti e sepolti eventi trascorsi e tramuta il terreno della Storia in un oceano di eventualità: storie plurali, inedite, dimenticate o incompiute e futuri perduti, restati in sospeso nella mente di chi ha avuto il coraggio di immaginarli.

Cosa accomuna, quindi, musica, discontinuità temporale e arte contemporanea?

Chiara Fumai inizia la carriera artistica come dj negli anni ’90 col nome di Pippi Langstrumpf e sfocia poi nel mondo dell’arte come artista performativa. I vinili dell’Italo Disco degli anni ’80, nei quali l’artista è cresciuta, entrano a far parte dell’arte contemporanea con il nome in copertina di Nico Fumai. Un personaggio fittizio, che l’artista dice essere suo padre, usato come metafora per criticare l’informazione contemporanea, concentrata sul divertimento e sulla visione, la quale non mette in discussione le notizie, potenzialmente false, ricevute.

Fumai ha una concezione estremamente personale e visionaria del tempo e del linguaggio: nelle sue performance utilizza il corpo come medium, ospitando in sé stessa le parole e le storie di donne marginalizzate e ribelli del passato. Eusapia Palladio, Valerie Solanas, Annie Jones, Zalumma Agra, Ulrike Meinhof, sono alcune. In questi termini si può dire che l’artista non parla di, ma è parlata dalle figure femminili che l’hanno ispirata durante i suoi dieci anni di lavoro. L’artista utilizza, perciò, il proprio corpo come contenitore di storie, solo apparentemente compiute, cosicché queste – risvegliate – ritornino ad infestare, come fantasmi, il presente e acquistino un nuovo riverbero, mettendo in crisi la linearità del tempo così come è concepita. Nelle sue performance è spesso presente un doppio binario di lettura nel quale l’artista viene agita, posseduta, da altre entità alle quali fa intelligentemente recitare parole di altri. È il caso, ad esempio, di Annie Jones e Zalumma Agra, sorelle di Fumai, che l’artista ha portato a dOCUMENTA(13) all’interno della Moral Exhibition House. Entrambe le donne erano delle attrazioni nell’ ottocentesco Museo Americano di PT Barnum.

Durante la performance, Annie Jones – la più famosa donna barbuta dell’Era Vittoriana – legge lettere a lei stessa indirizzate, scritte da artisti filosofi e scrittori contemporanei ai quali Fumai ha chiesto esplicitamente di dedicarle lettere di apprezzamento, che la riscattassero come donna e soggetto, non più come oggetto. A Zalumma Agra – conosciuta come «La stella dell’est», una schiava, zittita per lungo tempo – l’artista fa interpretare, urlando come fosse posseduta, le parole di Carla Lonzi in Lo dico io, il Manifesto di Rivolta Femminile del 1977. In un'altra azione successiva, I did not say or mean warning del 2013, realizzata alla fondazione Querini Stampalia a Venezia, l’artista impersona una guida museale che, mentre accompagna i visitatori, viene controllata, a tempi alterni, da un’altra entità che parla con il linguaggio dei segni e traduce in gesti alcuni messaggi anonimi, lasciati in una segreteria. Tra questi:

«E così guardo dentro me stessa e cerco di smettere di pensare a cosa è buono e cosa è cattivo, cosa è giusto e cosa è sbagliato. E sento il bisogno di distruggere me stessa, di esplodere, di non pensare sempre in continuità con la mia storia personale. Forse perché non ho storia, forse perché tutto quello che vedo essere la mia storia sembra altrimenti essere come un completo messomi addosso che non riesco a togliermi. E così poi comincio a pensare all’atto di esplodere, all’atto di andare in frammenti. Significa: se non posso sconfiggere la mia rassegnazione e subordinazione, se non sconfiggo i nemici che ho smascherato, se non riconosco la mia ira e se non la faccio esplodere con la mia violenza contro l’ideologia e l’apparato di violenza che mi opprime, se non trovo in altre donne lo stesso desiderio di andare oltre, di attaccare, di distruggere, di abbattere tutti i muri e le barriere...».

Fumai è un esempio di artista che offre totalmente sé stessa a coloro che definisce «sue sorelle», attraverso una pratica che resta sulla soglia della follia e dell’occulto, oscillando tra verità e finzione, combinando femminismo, sorellanza, spiriti, temporalità e politica.

Mai come oggi si parla di assenza e di morte del futuro, ma è davvero così? Siamo davvero spacciati o esiste una via di fuga?

Forse il fulcro è proprio il passato come fonte di ispirazione alternativa alle tradizioni e alle memorie di un mondo ormai destinato a spegnersi. È qui, che lo stratificarsi e il destratificarsi senza sosta del tempo, attraverso eventi passati, o mai nati, offre nuove possibilità di cambiamento. L’Arte in questo gioca un ruolo fondamentale – e non utilizzo casualmente la A maiuscola – mi riferisco a tutti gli artisti che, come Chiara Fumai, sono in realtà profeti: coloro che non percepiscono mai completamente loro stessi, ma avvertono il sé come qualcosa che va oltre i limiti di qualsiasi identità definita, senso di appartenenza o ego individuale.

Per Fumai «L’arte deve stimolare domande che anticipano le trasformazioni culturali», ma lo fa mettendo in discussione la capacità messianica di rivelazione del futuro, perché l’intera sua opera ci permette di testimoniare, al contrario, la capacità redentiva del passato senza il quale nessuna politica di insurrezione sarebbe possibile. Estrarre dal dimenticatoio donne emarginate e ribelli significa, allora, mettere in discussione l’intera versione dominante e patriarcale della Storia.

La visione del tempo che ne deriva, pertanto, non è sicuramente quella di una linea retta,

di un vettore, ma assume piuttosto una forma circolare, come in un eterno ritorno Nietzschiano. L’immagine che emerge è di una materia ancora troppo oscura e in continuo divenire, quasi aliena, come un oceano di Solaris nel quale sono racchiuse tante piccole schegge, una «frantumaglia» di storie, futuri mai realizzati e passati incompiuti. È in questo mare che rivedo Leo e Thomas, i protagonisti di Camere Separate di Vittorio Tondelli; è qui che riscopro gli scatti di Claude Cahun e Marcel Moore nella fervente Parigi degli anni Venti e Trenta; si trova ancora tra queste acque il grande potenziale sovversivo di quello che è stato il Museo Travesti del Perù fondato da GiuCamp; ed è sempre qui, infine, che mi risuona ancor più forte questo frammento di Twenty one Love Poems di Adrienne Rich:


Nessuno ci ha immaginati. Noi vogliamo vivere come alberi,

sicomori ardenti nell’aria sulfurea,

screziati di cicatrici, ancora esuberantemente in fiore,

la nostra passione animalesca radicata nella città


È in questo bagaglio irrisolto, frammentato, disobbediente, ma ancora così pulsante che percepisco il futuro. Ancora non lo vedo, ma lo sento. Sta a noi riconoscere quei baluginii che hanno ancora qualcosa da dire, il cui potenziale non si è ancora pienamente esaurito e farli nostri, accogliendoli dentro come Chiara Fumai con le sue Muse, aggrappandoci a loro per sopravvivere.

Divenire molteplice, divenire legione, diventa il prerequisito necessario per annunciare il mondo che verrà.



Immagini:

1. Chiara Fumai, A Male Artist is a Contradiction in Terms, 2013. V-A-C collection

2. Il progetto Nico Fumai di Chiara Fumai

3. Chiara Fumai, Moral Exhibition House, dOCUMENTA (13) Kassel.

4. Chiara Fumai, Moral Exhibition House, dOCUMENTA (13) Kassel.


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Alessia Riva è una giovane curatrice e critica d’arte contemporanea, scrive per varie riviste tra le quali «Artribune» e ha recentemente curato «(Im)possible Ecolologies» all'orto Botanico di Roma. Studia alla NABA di Milano.

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