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Gli anni Novanta attraverso l'industria del porno




Gli anni Novanta attraverso l'industria del porno
Immagine: opera di Esther Ferrer

Nella nostra «cartografia dei decenni smarriti», Mariella Popolla ci guida all’interno dell’industria del porno. Nonostante si tratti di un settore dell’intrattenimento estremamente marginalizzato e socialmente percepito come indecoroso, infatti, la storia del porno si intreccia e ci racconta la storia delle società, degli scenari culturali, dei luoghi in cui viene prodotto e fruito. Nel contesto italiano, in particolare, i Novanta sono un decennio «ponte» tra due fasi molto diverse di questa industria: la cosiddetta golden age del porno (a cavallo tra gli anni Settanta e gli anni Ottanta il cinema porno italiano ha una tale espansione da rappresentare una salvezza per l’agonizzante industria cinematografica tout court del paese) e la svolta digitale che, a partire dalla prima metà degli anni Novanta, ha poi investito la produzione e circuitazione di materiale pornografico.


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Poche donne che hanno lavorato nel porno hanno raggiunto una celebrità e una popolarità «diffusa» e imperitura come quella di Ilona Staller e Moana Pozzi. Questo è un fatto abbastanza curioso dal momento che l’industria pornografica del nostro paese (intesa come circuito produttivo e distributivo) ha perso la sua centralità ormai da diversi decenni e ben prima che la crisi del settore raggiungesse le case di produzione della San Fernando Valley. Poche donne che hanno lavorato nel porno sono divenute leader di partiti politici, arrivando addirittura al parlamento. Ilona Staller è stata eletta come deputata nel 1987 nelle fila del Partito radicale e si è poi candidata, cinque anni dopo, insieme alla stessa Pozzi, con il Partito dell’Amore (PdA), fondato da Riccardo Schicchi e Mauro Biuzzi. Anni, quelli a cavallo tra le decadi dell’Ottanta e del Novanta del secolo scorso, caratterizzati nel nostro paese da una fase di divismo delle pornostar, la cui popolarità le aveva rese una sorta di fenomeno di costume, travalicando i confini delle (sub)culture sessuali del periodo. Le due star avevano trovato spazio anche sulle poltrone dei maggiori e più popolari talk show (si pensi, a titolo di esempio, al Maurizio Costanzo Show) e, nel caso di Pozzi, la sua figura è talmente radicata nell’immaginario collettivo italiano che, trascorsi ventidue anni dalla sua prematura scomparsa nel 1994, la Walt Disney ha deciso di rinominare la versione italiana del film Moana con Oceania (e la sua protagonista, che dava il nome alla pellicola, come Vaiana). Per quanto non siano state rilasciate dichiarazioni ufficiali in merito, perfino la stampa estera ha interpretato la scelta come, da un lato, un distanziamento da una figura poco adatta a essere affiancata al prodotto Disney e, dall’altro, come un tentativo di ovviare a un problema tanto tecnico quanto eventualmente costoso da risolvere: l’indicizzazione dei risultati nei principali motori di ricerca alla digitazione della parola Moana nel contesto italiano. Nonostante, dunque, si tratti di un settore dell’intrattenimento estremamente marginalizzato e socialmente percepito come indecoroso, la storia del porno si intreccia e ci racconta la storia delle società, degli scenari culturali, dei luoghi in cui viene prodotto e fruito.

Ma perché gli anni Novanta sono così centrali per il tema della pornografia, tanto su scala nazionale che a livello globale? La risposta risiede nel fatto che si tratta di una decade che potremmo definire come «ponte» tra due fasi molto diverse dell’industria: la cosiddetta golden age del porno (a cavallo tra gli anni Settanta e gli anni Ottanta il cinema porno italiano ha una tale espansione da rappresentare una salvezza per l’agonizzante industria cinematografica tout court del paese) e la svolta digitale che, a partire dalla prima metà degli anni Novanta, ha poi investito la produzione e circuitazione di materiale pornografico.

Sono anni particolarmente vivaci dal punto di vista dei più ampi scenari culturali; soprattutto, riguardo alla presa di parola (e di sguardo) da parte delle donne all’interno della pornografia.

Proviamo a ripercorrere le tappe più rilevanti. Nel 1983, in quella che per quantità e qualità dei materiali prodotti può essere definita la golden age del porno, un gruppo di donne, appartenenti alla prima vera generazione di pornostar, fonda il Club 90, un luogo di confronto che, a cadenza settimanale, tenta di mettere a tema il significato e il ruolo dell’essere donne e femministe che lavorano in quello che viene descritto come il settore maschile e maschilista per eccellenza. L’anno seguente, Candida Royalle, co-fondatrice del Club 90, si propone sul mercato con la casa di produzione Femme Productions con l’obiettivo di dare spazio alle donne sia dietro la macchina da presa che davanti agli schermi, pensando dunque a prodotti fatti dalle donne per le donne. Nello stesso anno, a San Francisco, nasce Fatale Media, casa di produzione di film porno fondata da donne lesbiche per un pubblico di donne lesbiche. Per quanto concerne l’Italia, è interessante ricordare che già prima, nel 1981, Giuliana Gamba, sotto lo pseudonimo di Therese Dunn, gira il primo film che cerca, con una regista donna, di modificare le convenzioni del genere, Pornovideo e, nello stesso anno, Claude e Corinne un ristorante particolare.

Occorre fare una premessa: il rapporto tra industria pornografica e tecnologie è sempre stato circolare, ovvero di reciproca influenza. Come ricorda Renato Stella[1], alla fine degli anni Settanta l’industria pornografica decide, con un certo anticipo rispetto ai settori più generalisti e decorosi dell’intrattenimento, di scommettere sul VCR, il videoregistratore. Questo segna un cambiamento epocale, tanto nelle pratiche che nei soggetti di consumo. Dove prima la fruizione di pornografia avveniva in una dimensione collettiva (i cinema a luci rosse), la sessualità tornava nella dimensione domestica, privata e, potenzialmente, individuale. Questo permetteva una maggior libertà nella pratica di consumo, venendo meno il vincolo dei luoghi e degli orari della programmazione e, almeno in linea teorica, un allargamento della potenziale audience. Prima della diffusione del VCR, la fruizione di pornografia audiovisiva era infatti possibile solo in luoghi pubblici, presso cinema e sale. Soprattutto nelle grandi città degli Stati Uniti, queste venivano isolate, tramite piani regolatori, in zone specifiche delle città, spesso difficili da raggiungere o percepite come poco sicure dalle donne[2], limitandone di fatto l’accesso a un solo pubblico maschile o di sexworker. Nel caso italiano, invece, l’apertura delle sale non si concentrava su zone specifiche della città ma si estendeva dal centro fino alle periferie. Tuttavia, essendo cinema esplicitamente riconducibili a una determinata programmazione, la presenza di fruitrici era assolutamente risibile. Con la diffusione del VCR, la domanda di tali luoghi precipita: la pornografia si poteva acquistare o noleggiare nei negozi di video «tradizionali» che le dedicavano delle aree apposite.

L’espansione dell’utilizzo dei videoregistratori ha contribuito, dunque, al declino dell’era del porno nelle sale cinematografiche. Alcuni imprenditori hanno scelto di distribuire film sia nei cinema che su supporti video, mentre altri, come Riccardo Schicchi, hanno focalizzato le risorse sul mercato dell’home video e dei locali di spettacoli dal vivo, estremamente popolari nel territorio nazionale, dal quale si sono imposte negli immaginari proprio figure come Pozzi o Ilona Staller.

Cinema (sempre meno), videocassette e, altrettanto importante, la televisione. Nel 1976, la Corte Costituzionale, con la sentenza numero 202, ha autorizzato la presenza delle televisioni locali, infliggendo un duro colpo al monopolio della Rai. Queste emittenti hanno introdotto nei loro palinsesti, inizialmente, film erotici vietati ai minori e in seguito anche contenuti hardcore. Ad esempio, Telereporter di Milano ha trasmesso spettacoli di spogliarello notturni, raggiungendo un pubblico di oltre 200.000 spettatori. Nel 1977, la Rai ha dato spazio nelle sue trasmissioni a un personaggio che poi è diventato un'icona nel panorama nazionale come la prima vera pornostar: Ilona Staller, nota come Cicciolina. Successivamente, due anni dopo, film esplicitamente hard hanno occupato la programmazione di TeleMilano International, sfidando le restrizioni della censura ministeriale. L’inclusione di contenuti erotici e pornografici, estesi oltre le televisioni locali, specialmente con l’avvento di Silvio Berlusconi, è continuata fino all’approvazione della legge 6 agosto 1990, n. 223 (detta anche legge Mammì dal suo promotore Oscar Mammì) che ha esplicitamente proibito la trasmissione di film vietati ai minori di 18 anni. A seguito dell’intervento legislativo, i produttori, al fine di ottenere l’autorizzazione ministeriale, elaborarono alcune strategie di modifica di una stessa pellicola, talvolta camuffando o cancellando scene compromettenti e generando una situazione piuttosto singolare, ovvero, la circolazione di tre edizioni diverse dello stesso film: una vietata ai minori di 18 anni, una vietata ai minori di 14 anni e una terza fruibile senza limiti di età.

A colmare parzialmente il vuoto imposto dalla legge n. 223 erano anche gli spot delle linee telefoniche erotiche (le cosiddette linee 144) che occupavano le ore notturne delle programmazioni delle tv private locali e la cui diffusione era talmente estesa da attirare l’attenzione del grande pubblico e da occupare gli immaginari di tutta una generazione di persone all’epoca adolescenti. Note anche con il termine di party-line, erano state ideate per rispondere a diversi bisogni; come si legge in un articolo apparso su «Repubblica» nel 1993: «Sos, telefono caldo, scandalo 144. L’eros corre via cavo, le chiacchiere s’accendono di luci rosse, le party-line diventano porno-line. Sommersa dalle critiche, apertamente sbeffeggiata da Beppe Grillo, la Sip fa pulizia nel caos dei salotti telefonici. Il 144 è sotto accusa. Quel numero passe-partout, rigidamente “casto e puro”, che serve a fare amicizia e a imparare ricette di cucina, che racconta oroscopi e fiabe della buonanotte, può diventare, a sorpresa, un telefono sexy. Anzi, una vera propria linea porno. A dispetto di tutti i proclami della Sip, che aveva assicurato: “Attenzione, le party-line non sono telefoni erotici”. Ma qualcuno, non ha rispettato le regole. E la Sip, incalzata dalle proteste, corre ai ripari».

Nello stesso anno della promulgazione della legge Mammì, viene fondata la prima piattaforma televisiva a pagamento, Tele+. Poiché i televisori in commercio non includevano il supporto per decriptare il segnale televisivo utilizzato per i servizi a pagamento, era richiesto un dispositivo separato, noto come decoder. Questo apparecchio, collegato al televisore, aveva il compito di decodificare il segnale proveniente dall'antenna. Il decoder veniva fornito in comodato d’uso agli abbonati al servizio. Tele+, almeno inizialmente, non prevedeva la trasmissione di film porno ma il suo arrivo ha aperto la strada a delle omologhe che, al contrario, hanno deciso di inserire nella programmazione tali materiali. A titolo di esempio, ricordiamo la seppur breve storia di Pay TV Italian Network. Il 28 febbraio 1990 nacque a Bientina, in provincia di Pisa, il Pay TV Italian Network, avviato da Alfonso Cassin, Paolo Tambini e Roberto Artigiani. Alfonso Cassin era già proprietario di Piemonte Elettronica, azienda specializzata nella codifica delle trasmissioni per questa che fu inizialmente denominata semplicemente Pay TV, successivamente ampliata con l’aggiunta di Italian Network al nome.

La programmazione giornaliera consisteva in circa due ore di trasmissioni, dalle 01:00 alle 03:00, che spaziavano da contenuti erotici a quelli pornografici. I programmi venivano diffusi attraverso un network composto da circa venti emittenti locali affiliate sparse su tutto il territorio nazionale. Il segnale veniva trasmesso in maniera codificata e per poter accedere ai contenuti, proprio come nel caso di Tele+, gli spettatori dovevano essere maggiorenni e dotati di un decoder, fornito in seguito alla sottoscrizione di un abbonamento annuale al costo di 250.000 lire.

Spostando lo sguardo su una scala più internazionale, negli anni Novanta, alcuni esempi di canali televisivi dedicati alla trasmissione di contenuti per adulti includevano: Playboy TV, che offriva spettacoli originali, film e serie televisive soft porn; Hot Network, che trasmetteva contenuti per adulti, compresi film erotici, spettacoli e programmi softcore; The Adult Channel, un canale televisivo a pagamento che offriva una varietà di film erotici e programmi di intrattenimento per adulti.

Si trattava di canali generalmente disponibili tramite abbonamenti televisivi via cavo o satellitari e che richiedevano un costo aggiuntivo per l’accesso ai contenuti per adulti. Sia nel contesto nazionale che in quello internazionale, dunque, la presenza di tali costi escludeva quelle categorie di persone prive di una tale disponibilità economica.

Nel 1989 viene ideato da Tim Berners-Lee (presso il Cern) il World Wide Web (www), reso poi accessibile nel 1991 alla comunità scientifica dallo stesso Berners-Lee e a chiunque, nel 1993, tramite la pubblicazione del codice sorgente. Da quel momento, il rapporto tra pornografia e innovazioni tecnologiche si rafforza ulteriormente e sfumano i confini tra un contesto nazionale specifico e quello internazionale.

Secondo la ricostruzione di Giovanna Maina e Federico Zecca[3], il principale strumento per la fruizione gratuita di materiale pornografico nel web 1.0 era attraverso i «thumbnail gallery posts» (Tgp), siti che offrivano immagini o brevi video hard accessibili tramite portali specifici. I Tgp solitamente collaboravano con siti a pagamento attraverso programmi di affiliazione, un modello di marketing online che consentiva ai siti gratuiti di promuovere quelli a pagamento, ottenendo ricavi da click sui banner pubblicitari o da acquisti interni. I portali Tgp massimizzavano il traffico attraverso varie strategie come il cross-linking, esponendo link ad altri portali all’interno della loro homepage, spesso in finestre pop-up. Un’altra strategia era il webring, una struttura di collegamenti circolari intorno a un tema specifico. Ogni Tgp nel webring beneficiava del traffico del precedente, incoraggiando gli utenti a passare da un sito all’altro in modo seriale. Le pratiche di consumo, dunque, erano completamente differenti sia rispetto alla fruizione di pornografia tramite proiezioni nei cinema prima e tra le pareti domestiche poi, sia rispetto a quelle del 2.0 e a quelle contemporanee, caratterizzate dall’imporsi nel settore di un nuovo imprevisto attore: i porn tubes.

Gli anni Novanta, quindi, non sono stati solo una fase di transizione, ma un momento di costante e audace adattamento del settore pornografico alle evoluzioni culturali, sociali e tecnologiche. Questo periodo ha rappresentato la trama su cui si è tessuta la nuova identità e la versatilità di un’industria che, nonostante le critiche e le sfide, ha dimostrato una sorprendente capacità di adattamento, rispecchiando la fluidità e la mutevolezza della società stessa.



Note

[1] R. Stella, L’osceno di massa. Sociologia della comunicazione pornografica, FrancoAngeli, Milano 1991.

[2] J. Juffer, At home with pornography: Women, sex, and everyday life, NYU Press, New York 1998.

[3] F. Zecca – M. Giovanna, All you need is hand. I tubes pornografici e l’adult business nel web 2.0, in Streaming media. Distribuzione, circolazione, accesso, Mimesis, Milano 2017, pp. 189-212.



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Mariella Popolla è assegnista di ricerca e professoressa a contratto in Sociologia dei processi economici e del lavoro presso l’Università di Genova. Fa parte del comitato editoriale di «AG About Gender – Rivista internazionale studi di genere». Nel 2021 ha pubblicato con DeriveApprodi Eppur mi piace… Immaginari e lavoro tra femminismi e pornografie.

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