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Fanon l’inattuale

Rileggere I dannati della terra nelle metropoli del «primo mondo»


Tornare a Fanon, ancora e ancora, per leggere la violenza nelle metropoli postcoloniali.

La violenza della razzializzazione, sempre attuale, e la violenza rivoluzionaria che si declina per smantellare le gerarchie sociali e della razza. Un tema, quest’ultimo, che gli scritti dello psichiatra martinicano continuano a illuminano con una radicalità potente e irrinunciabile. Jack Orlando ne ripercorre gli insegnamenti cogliendo l’urgenza politica di mettere a lavoro Fanon nel presente. Di Frantz Fanon DeriveApprodi ha pubblicato: Scritti politici. Per la rivoluzione africana. Vol. I (2006), Scritti politici. L'anno V della rivoluzione algerina. Vol. II (2007).


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Nel 1961, nella intemperie della guerra di liberazione algerina, Frantz Fanon scrive un testo, I dannati della terra, destinato da subito a diventare una pietra miliare nella formazione politica, non solo dei militanti delle lotte di liberazione del terzo mondo ma per tutta la componente antagonista e rivoluzionaria della stagione Sessanta/Settanta.

È abbastanza noto il forte influsso che ebbe questo scritto sul movimento afroamericano. Preso a modello dal Black Panther Party che ne coniugò gli assunti con quelli di Malcolm X e della pedagogia maoista del Libretto Rosso, fu punto di partenza per l’elaborazione di una teoria del colonialismo interno che avrebbe poi influenzato tutto il pensiero nero radicale, di lì a venire: una prima emersione esplicita del problema coloniale dentro le metropoli occidentali e la risposta dei subalterni in seno agli Stati Uniti.

Nel medesimo frangente storico, anche in Italia ed Europa, il pensiero di Fanon entra in contatto con l’esperienza concreta di formazioni politiche rivoluzionarie come i NAP in Italia e la tedesca RAF, per citare due esempi. Pure in assenza di una centralità della linea del colore, come negli USA, Fanon riesce comunque a entrare nelle pieghe del discorso radicale; senz’altro per l’importanza del concetto di «imperialismo» ma soprattutto per la capacità di inanellare un rosario teorico che muovendosi dalla dimensione macroscopica dei fenomeni sociali, arriva giù in fondo al cuore dell’esperienza psichica e individuale del subalterno. In questo senso, la violenza è l’elemento che caratterizza e accomuna su scala globale, a differenti sfumature, l’universo capitalista e Fanon sa offrire lo sguardo e le parole per coglierne la portata.

Alla stessa maniera, la fertilità e inattualità del suo pensiero, resta sullo sfondo di molti degli studi teorici e delle riflessioni sviluppate oggi a partire dal tema del dominio coloniale e dei suoi lasciti. Fanon è inattuale nella misura in cui non si riesce a perimetrare la sua opera teorica a una parentesi storica, data e ormai liquidata; al contrario, ne trascende i confini e continua a enunciare una verità che persiste in una società imperniata sul dominio dell’uomo sull’uomo, sull’estrazione selvaggia di valore da ogni ambito della vita. C’è una rimanenza del sistema-colonia che continua a vivere, sottile e strisciane, sul fondo delle democrazie tardocapitaliste.

È proprio per questa sua cosiddetta inattualità che riproponiamo un estratto da Della violenza, il primo capitolo de I dannati della terra, convinti che abbia ancora da offrire spunti di riflessione e possa ancora illuminare aspetti del presente non limitabili all’interno di quella fase tragica e contraddittoria che è stata la decolonizzazione dei territori extra occidentali.

L’elemento della violenza, in quanto architrave su cui si regge l’intero assetto coloniale, permea la realtà e produce il suo proprio soggetto, il colonizzato per l’appunto. Ma questo apprendistato alla violenza, non solo è un dispositivo di disciplinamento collettivo, è anche un serbatoio di energie che emergono in date condizioni e riescono a cambiare di segno violenza, attraverso una sua riappropriazione e controutilizzo che mutano il colonizzato in rivoluzionario.

Se certo il frammento è scritto con davanti agli occhi la realtà algerina e nella mente le altre colonie in lotta, nondimeno possiamo scorgere in questo ritratto una realtà a noi ben vicina.

La separazione ostile dello spazio è realtà quotidiana delle metropoli occidentali, anche senza la necessità di fili spinati e checkpoint. Ci sono facce che in determinati quartieri non possono passare impunemente, e quartieri che in certe altre facce suscitano smorfie di orrore e ribrezzo solo a sentirli nominare. Ci sono violenze tra pària che servono a perimetrare l’autorità e l’identità di una gioventù ai margini, che danno materiale ai media per produrre stigmi e politiche securitarie. Ci sono sentimenti di rabbia, frustrazione e rivalsa che producono nevrosi e cultura pop. Ci sono feste e possessioni che nei weekend permettono di esorcizzare lo spettro di una vita inabitabile e ne garantiscono il replicarsi continuo.

In sintesi, un complesso e fitto reticolo, in cui entrano razza, classe, religione, appartenenza territoriale e sociale, opera seguendo meccanismi e logiche che della colonia hanno perso la dimensione estetica e la ferocia esplicita ma ne hanno mantenuta invariabile la verità di fondo.

Come in un gioco di specchi deformanti, la colonia, vive e informa questo «primo mondo» emancipato, e ne restituisce una immagine ben lontana dalla sua pacificata autonarrazione; mostra il suo aspetto più brutale e indigesto, il lato scabroso che si cerca perennemente di rimuovere: il tabù della razza e dei processi di inferiorizzazione e gerarchizzazione a questa connessi.

È noto che la ricchezza dell’Occidente si è costruita sul saccheggio delle terre comuni in Europa e sulla spoliazione di immensi territori e popoli di Africa, Asia e delle Americhe. Ne porta un marchio originario che la caratterizza da ormai troppo tempo e non riesce, né potrebbe riuscire, a essere cancellato nemmeno dalla nuova moda del «politically correct» e dell’inclusività, perché è al centro stesso della sua anima storica e del suo modo di produzione.

La domanda che qui ci pone l’inattualità Fanoniana è allora se questa colonia sia un resto del passato, magari attivo ai margini dell’Occidente, dove il dominio del capitale opera con sfacciata e manifesta brutalità, o se sia una realtà ancora attuale che intreccia su differenti piani il vissuto collettivo delle metropoli del «primo mondo» democratico, allargando così le maglie dello schema con cui guardiamo ad esse.



Della violenza - Franz Fanon (1961)[1]

[…] Mondo a scomparti, manicheo, immobile, mondo di statue: la statua del generale che ha operato la conquista, la statua dell'ingegnere che ha costruito il ponte. Mondo sicuro di sé, che schiaccia colle sue pietre le schiene scorticate dalla frusta. Ecco il mondo coloniale. L'indigeno è un essere chiuso in un recinto, l'apartheid non è che una modalità della divisione in scomparti del mondo coloniale. La prima cosa che l'indigeno impara, è a stare al suo posto, a non oltrepassare i limiti. Perciò i sogni dell'indigeno sono sogni muscolari, sogni di azione, sogni aggressivi. Sogno di saltare, di nuotare, di correre, di arrampicarsi. Sogno di scoppiare dalle risa, di varcare il fiume con un salto, di essere inseguito da mute di macchine che non lo pigliano mai. Durante la colonizzazione, il colonizzato non cessa di liberarsi tra le nove della sera e le sei del mattino.

Tale aggressività sedimentata nei suoi muscoli, il colonizzato la manifesterà dapprima contro i suoi. È il periodo in cui i negri si divorano tra di loro e in cui i poliziotti, i giudici istruttori non sanno più dove battere il capo di fronte alla strabiliante delinquenza nordafricana. [...] Di fronte all'assetto coloniale il colonizzato si trova in uno stato di tensione continua. Il mondo del colono è un mondo ostile, che respinge, ma al tempo stesso è un mondo che fa gola. [...] Il colonizzato sogna sempre di impiantarsi al posto del colono. Non già di diventare un colono, ma di sostituirsi al colono. Quel mondo ostile, pesante, aggressivo, perché respinge con tutte le sue punte la massa colonizzata, rappresenta non già l'inferno da cui ci si vorrebbe allontanare il più presto possibile, ma un paradiso a portata di mano protetto da tremendi mastini.

Il colonizzato sta sempre in ansia, perché, decifrando con difficoltà i molteplici segni del mondo coloniale, non sa mai se ha oltrepassato o no il limite. Di fronte al mondo sistemato dal colonialista, il colonizzato è sempre supposto colpevole. La colpevolezza del colonizzato non è una colpevolezza assunta, è piuttosto una specie di maledizione, di spada di Damocle. Ora, nel più profondo di sé stesso il colonizzato non riconosce nessuna istanza. È dominato, ma non addomesticato. È reso inferiore, ma non convinto della sua inferiorità. Aspetta pazientemente che il colono allenti la sua vigilanza per saltargli addosso. Nei suoi muscoli, il colonizzato è sempre in attesa. Non si può dire che sia allarmato, che sia terrorizzato. In effetti, è sempre pronto ad abbandonare il suo ruolo di preda per assumere quello di cacciatore. Il colonizzato è un perseguitato che sogna continuamente di diventar persecutore. I simboli sociali - gendarmi, suoni di tromba nelle caserme, riviste militari e la bandiera lassù - fungono insieme da inibitori e da eccitanti. Non significano affatto: «Fermo! non ti muovere», ma: «Prepara bene il colpo». E infatti, se il colonizzato avesse tendenza ad addormentarsi, a dimenticare, la spocchia del colono e la sua preoccupazione di sperimentare la saldezza del sistema coloniale, essi gli ricorderebbero cento volte che il gran confronto non potrà essere indefinitamente procrastinato. Tale impulso a prendere il posto del colono mantiene un tono muscolare continuo. È noto, infatti, che in date condizioni emotive, la presenza dell'ostacolo accentua la tendenza al movimento.

I rapporti colono-colonizzato sono rapporti di massa. Al numero, il colono oppone la forza. Il colono è un esibizionista. La sua preoccupazione di sicurezza lo porta a ricordare a voce alta al colonizzato che: «Il padrone, qui, sono io». Il colono mantiene nel colonizzato una collera che arresta quando fuoriesce. Il colonizzato è preso nelle maglie strette del colonialismo. Ma abbiamo visto che all'interno il colono non ottiene se non una pseudo-pietrificazione. La tensione muscolare del colonizzato si libera periodicamente in esplosioni sanguinarie: lotte tribali, lotte di congregazioni, lotte tra individui.

Al livello degli individui, si assiste a una vera negazione del buon senso. Mentre il colono o il poliziotto possono, per intere giornate, picchiare il colonizzato, insultarlo, farlo mettere in ginocchio, si vedrà il colonizzato tirar fuori il coltello al minimo sguardo ostile o aggressivo di un altro colonizzato. Poiché l'ultima risorsa del colonizzato è di difendere la sua personalità di fronte al proprio simile. Le lotte tribali non fanno altro che perpetuare vecchi rancori conficcati nella memoria. Lanciandosi a pieni muscoli nelle sue vendette, il colonizzato tenta di persuadersi che il colonialismo non esiste, che tutto si svolge come prima, che la storia continua. Qui afferriamo in piena luce, al livello delle collettività, quei famosi comportamenti elusivi, come se il tuffo in quel sangue fraterno permettesse di non vedere l'ostacolo, di rimandare a più in là l'opzione pure inevitabile, quella che sfocia nella lotta armata contro il colonialismo. Autodistruzione collettiva concretissima nelle lotte tribali, è dunque questa una delle vie per le quali si libera la tensione muscolare del colonizzato. Tutti quei comportamenti sono riflessi di morte di fronte al pericolo, comportamenti-suicidio che permettono al colono, la cui vita e il cui dominio risultano tanto più consolidati, di verificare nella stessa occasione che quegli uomini non sono ragionevoli.

Il colonizzato riesce ugualmente, tramite la religione, a non tener conto del colono. Tramite il fatalismo, ogni iniziativa è tolta all'oppressore, giacché la cagione dei mali, della miseria, del destino appartiene a Dio. L'individuo accetta così la dissoluzione decisa da Dio, si appiattisce davanti al colono e davanti alla sorte e, per una specie di riequilibrio interno, accede a una serenità di pietra.

[…] L'atmosfera di mito e di magia, facendomi paura, si comporta come una realtà incontrovertibile. Terrificandomi, essa mi integra alle tradizioni, alla storia della mia contrada o della mia tribù, ma nello stesso tempo mi rassicura, mi rilascia uno statuto, un certificato di stato civile.[…] Circuendomi in tale reticolo inestricabile in cui gli atti si ripetono con permanenza cristallina, la perennità di un mondo mio, di un mondo nostro si trova così affermata. […] E il problema, da quel momento, non è più di mettersi in regola col mondo bardato di ferro del colonialismo, ma di riflettere due volte prima di orinare, di sputare o di uscire nella notte.

Le forze soprannaturali, magiche, si rivelano essere forze straordinariamente «egotiche». Le forze del colono sono infinitamente rimpicciolite, colpite da estraneità. Non c'è più veramente da lottare contro di loro, poiché ciò che conta altrettanto è la tremenda avversità delle strutture mitiche. Tutto si risolve, è chiaro, in uno scontro permanente sul piano fantastico.

Tuttavia, nella lotta di liberazione, quel popolo un tempo ripartito in settori irreali, quel popolo in preda a uno spavento indicibile ma felice di perdersi in una tormenta onirica, si sconnette, si riorganizza e genera, nel sangue e nelle lacrime, scontri molto reali e molto immediati. Dar da mangiare ai mujahiddin, appostare sentinelle, venir in aiuto alle famiglie prive del necessario, sostituirsi al marito fatto fuori o imprigionato: queste sono le mansioni concrete alle quali il popolo è chiamato nella lotta di liberazione.

Nel mondo coloniale, l'affettività del colonizzato è mantenuta a fior di pelle come piaga viva che rifiuta l'agente caustico. E la psiche si ritratta, si oblitera, si scarica in dimostrazioni muscolari che han fatto dire a uomini molto dotti che il colonizzato è un isterico. Tale affettività in erezione, spiata da custodi invisibili ma comunicanti senza transizioni col nucleo centrale della personalità, si compiacerà con erotismo nelle dissoluzioni motrici della crisi. Su di un altro versante, vedremo l'affettività del colonizzato fiaccarsi in danze più o meno estatiche. Perciò uno studio del mondo coloniale deve necessariamente attendere alla comprensione del fenomeno della danza e della possessione. Il rilassamento del colonizzato, è appunto quell'orgia muscolare nel corso della quale la più acuta aggressività, la più immediata violenza vengono incanalate, trasformate, cancellate. Il cerchio della danza è un cerchio permissivo. Protegge e autorizza. A ore fisse, a date fisse, uomini e donne si ritrovano in un dato luogo e, sotto l'occhio grave della tribù, si lanciano in una pantomima d'aspetto disordinato ma in realtà molto sistematica in cui, per vie molteplici, dinieghi del capo, curvatura della spina dorsale, rigetto all'indietro di tutto il corpo, si decifra a prima vista lo sforzo grandioso di una collettività per esorcizzarsi, affrancarsi, esprimersi. Tutto è permesso... dentro il cerchio. Il monticello su cui ci si è issati come per essere più vicini alla luna, la sponda su cui si è scivolati come per manifestare l'equivalenza della danza e dell'abluzione, del lavaggio, della purificazione, sono luoghi sacri. Tutto è permesso poiché, in realtà, non ci si riunisce se non per lasciare la libido accumulata, l'aggressività ostacolata, prorompere vulcanicamente. Messe a morte simboliche, cavalcate figurative, assassini molteplici immaginari, bisogna che tutto ciò venga fuori. I cattivi umori scolano via, fragorosi come colate di lava.

Un passo ancora e cadiamo in piena possessione.[...] Tali sfaldamenti della personalità, tali sdoppiamenti, tali dissoluzioni, adempiono a una funzione economica primordiale nella stabilità del mondo colonizzato. All'andata, gli uomini e le donne erano impazienti, scalpitanti, «coi nervi». Al ritorno, è la calma che torna al villaggio, la pace, l’immobilità.

Si assisterà, nel corso della lotta di liberazione, a un singolare disamore per queste pratiche. Le spalle al muro, il coltello sulla gola o, per essere più precisi, l'elettrodo sulle parti genitali, verrà intimato al colonizzato di non raccontarsi più delle storie.

[…] Il colonizzato scopre il reale e lo trasforma nel movimento della sua prassi, nell'esercizio della violenza, nel suo progetto di liberazione.

Abbiamo visto che questa violenza, per tutta la durata del periodo coloniale, benché a fior di pelle, gira a vuoto. L'abbiamo vista incanalata dalle scariche emozionali della danza o della possessione. L'abbiamo vista esaurirsi in lotte fratricide. Si pone ora il problema di cogliere tale violenza nell’atto di orientarsi. Mentre essa si compiaceva nei miti e si ingegnava di scoprire occasioni di suicidio collettivo, ecco che condizioni nuove le permetteranno di cambiare direzione.


Note [1] Estratto da F. Fanon, I dannati della terra, Einaudi, Torino 2007, pp. 16-21.


Immagine: Boris Nieslony


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