Uno sguardo a volo d’uccello tra le «crepe» aperte nella confort-zone del cinema di fantascienza degli anni Ottanta. Qui, nei chiaroscuri della controrivoluzione capitalista, emergono paure, angosce e fragilità dell’umano.
Un materiale per la «cartografia dei decenni smarriti» in vista del festival «I sentimenti dell’aldiquà» il 9, 10 e 11 giugno a Bologna.
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Io ne ho viste cose che voi umani non potreste immaginarvi: navi da combattimento in fiamme al largo dei bastioni di Orione, e ho visto i raggi B balenare nel buio vicino alle porte di Tannhäuser. E tutti quei momenti andranno perduti nel tempo, come lacrime nella pioggia. È tempo di morire.
L’iconico monologo - pare di pugno dello stesso Rutger Hauer - col quale il replicante Roy Batty si congeda dalla vita nel 1982 stravolgendo al tempo stesso l’immaginario di un pubblico che a lungo terrà nella memoria quelle «lacrime nella pioggia», costituisce per noi tutt3 un vero e proprio spartiacque nel cinema di fantascienza. Sulla soglia che separa gli anni Settanta dagli anni Ottanta, il cinema come macchina dell’entertainment si appropria di questioni più abitualmente dibattute in ambiti colti o accademici, le rimastica, o in alcuni casi le intercetta mentre sono ancora in una fase nebulosa, le metabolizza, e le rielabora per somministrarle a una platea impigrita da pellicole che sostanzialmente miravano a non scomodarla dalla comfort-zone in cui si era acquartierata. Riassumendo sommariamente, negli Stati Uniti, culla della produzione cinematografica di intrattenimento, passato il periodo del maccartismo e della caccia alle streghe comuniste degli anni Cinquanta (L'invasione degli ultracorpi, 1956); archiviata malgrado sequel e remake la fantascienza sociale degli anni Sessanta in cui le utopie si trasformavano in regimi totalitari (Il pianeta delle scimmie, 1968) mentre una riflessione visionaria filosofeggiava a colpi di pellicola sul destino della specie umana (2001 Odissea nello spazio, 1968); esaurite le distopie post-apocalittiche degli anni Settanta (1975: Occhi bianchi sul pianeta terra del 1971, Arancia meccanica del 1971, Solaris del 1972); dopo tutto ciò, il successo di film come Star Wars e Incontri ravvicinati del terzo tipo sul finire degli anni Settanta sembrava indirizzare il cinema di fantascienza verso un orizzonte intriso di buoni sentimenti (E.T., l'extraterrestre del 1982).
Al contrario, Blade Runner (Ridley Scott, 1982) e una manciata di altre pellicole sospingevano invece lo stesso pubblico verso territori assai meno gratificanti, aprendo ben diverse prospettive su un futuro denso di interrogativi e angosce, finanche attraversato dall’inedito materno terrorizzante del corpo riproduttivo alieno e mostruoso. Prospettive in controtendenza non solo rispetto a ciò che stava accadendo nel cinema di fantascienza ma anche per quel che riguardava la situazione politica e sociale al di qua e al di la dell’Atlantico. Con l'elezione di Ronald Reagan alla Presidenza venivano inaugurate politiche fiscali espansionistiche, premiate da una forte crescita del PIL (4,2% annuo nel periodo 1982-1988), mentre la disoccupazione diminuiva[1] e l'inflazione scendeva al di sotto del 5%. Tutto ciò sicuramente pagato da una povertà crescente, dall'abbassamento dei salari reali e da un deficit spinto in alto dalla riduzione delle tasse. Resta però il fatto che grazie anche al disgelo dei rapporti con l'Unione Sovietica, il clima generale sembrava di grande ottimismo, anche se crepe ce n'erano e di profonde come si è visto.
Proprio su queste crepe si inserivano e lavoravano a sconvolgere e sovvertire l’immaginario, film come Alien (Ridley Scott, 1979) che sembrava aprire le porte al nuovo filone, marcato da pellicole come Blade Runner di cui abbiamo detto, La cosa (The Thing, John Carpenter, 1982) e Videodrome (David Cronenmberg 1983). Quattro film individuati e analizzati adesso da questa prospettiva in un saggio di Paolo Lago e Gioacchino Toni: Alle radici di un nuovo immaginario (Rogas Edizioni, 2023), che qui prendo come spunto per una discussione che coinvolge anche il nostro paese, dal momento che tali film sbarcavano con qualche mese di distanza sul mercato italiano all'inizio di un decennio come gli anni Ottanta, apparentemente pronto a far dimenticare i cosiddetti anni di piombo con il disimpegno e lo yuppismo della Milano da bere.
Cosa ci rende umani
Ciascun film, a suo modo e con trame e personaggi/e assai diversi, metteva a fuoco una serie di nodi cruciali che, rimbalzando da una pellicola all'altra, si trasformano e si rafforzano a vicenda creando un insieme in grado di infondere, del tutto in contrasto col clima di febbrile ottimismo imperante, il suo veleno nella mente del pubblico.
Un primo di questi nodi può essere individuato nella preoccupazione relativa a che cosa significhi essere umani nel mondo contemporaneo[2]. Per Alien il nodo centrale attorno a cui si articolava la trama era la relazione tra essere umano e paura, come e se la paura potesse definirci e come e se fosse possibile di conseguenza organizzare (o non organizzare) le nostre strategie di risposta, fuori dal controllo del materno (sul materno alieno ritornerò più avanti), in rotta verso la vita e i suoi pericoli, alla ricerca di una conradiana (l'astronave sulla quale si svolge la vicenda si chiamava Nostromo) esperienza dell'universo, verso la maturità e la sopravvivenza.
Blade Runner[3] metteva a tema il rapporto tra identità e memoria: una relazione profondamente alterata, nel film come nella vita reale, dalle memorie prostetiche studiate da Alison Landsberg nel 1995[4], memorie di tipo indotto che ci rendevano tutt3 cyborg sulla scia delle riflessioni di Donna Haraway[5] sulle implicazioni della tecnologia nella vita umana: riflessioni che confutavano la pretesa naturalità dell'uomo visto all'opposto come costruzione culturale; tema questo che innerverà tanta fantascienza a venire.
Per quel che riguardava invece La cosa di Carpenter, il film rielaborava il concetto di nemico già messo a fuoco da La cosa da un altro mondo, di Christian Nyby del 1951 di cui quello di Carpenter era un rifacimento. Il film di Nyby/Hawks[6] si inseriva nel clima di guerra fredda dell'epoca col comunismo percepito come una minaccia incombente e incontrollabile. Al contrario Carpenter lavorava sulla solitudine che avvolge i personaggi del film che si percepiscono vicendevolmente presenze rischiose e letali; contava anche la percezione della fragilità di tutti e la possibilità di esposizione al contagio attraverso il sangue e i liquidi corporei contaminati, il che portava nel film l'eco di quanto stava succedendo negli USA dove l'AIDS, individuato finalmente come pandemia nel 1981 dal Centers for Disease Control and Prevention, cominciava a mietere le sue vittime.
La figura del cyborg veniva ripresa da Cronenberg in Videodrome, a mio parere il film più angosciante tra i quattro per la frantumazione che subisce l'identità del suo protagonista, e con essa quella di tutt3 noi. Giustamente Antonio Caronia sottolineava come Cronenberg inaugurasse un nuovo tipo di cyborg, che definiva «cyborg del codice»: un ibrido dato dalla fusione del corpo biologico dell'uomo con i sistemi di comunicazione del pianeta[7].
Più in dettaglio, secondo Paolo Lago e Gioacchino Toni, Cronenberg «pone lo spettatore di fronte allo sconvolgimento dei piani di realtà determinato dal ruolo che stanno assumendo le immagini e in particolare l'apparecchio televisivo all'interno della vita degli esseri umani». Il film, infatti, racconta la vicenda di un uomo la cui mente era totalmente risucchiata dalle immagini televisive che inducevano allucinazioni e deliri. I due studiosi non mancano di sottolineare l'interesse di Cronenberg per l'inner space ballardiano che attraverso la contaminazione tecnologica assume il controllo di un corpo che avverte di non avere più confini e le cui certezze identitarie vengono travolte dalle pulsioni più nascoste. L'alterazione completa della realtà minaccia, anzi devasta completamente la capacità di agency del protagonista e questa ansia terribile che la storia scatena si allunga minacciosa su un pubblico che guarda se stesso perdere la presa sulla propria vita. Infine, se è vero che i personaggi messi in scena dal regista spesso non sono collocabili entro una netta distinzione tra bene e male (come Hollywood vorrebbe) pure, a mio parere - e contro la pretesa e generalmente riconosciuta amoralità cronenbergiana[8] - sembrerebbe affiorare un elemento etico in Videodrome e cioè che non finisce bene per chi si diletta degli snuff-movies, che il protagonista del film vorrebbe commercializzare attraverso la sua tv privata.
Linguaggi e metalinguaggi
Nel saggio di Paolo Lago e Gioacchino Toni, il concetto di spazio diventa una modalità di analisi filmica utile a estrarre dalle scene significati ulteriori. La contrapposizione tra spazio liscio e spazio striato (spazialità elaborate nel tempo da studiosi come Gilles Deleuze, Félix Guattari), gli assalti dell'uno ai territori dell'altro, oltre a manifestare un preciso valore estetico si affermano come linguaggio attraverso il quale è possibile raccontare la storia messa in campo: una simbologia efficacissima nel suo uso di luoghi inconsistenti e spettrali che assumono di volta in volta la consistenza di superfici desertiche, di ghiacciate distese antartiche, o di profondità dello spazio galattico. Da questi spazi lisci, viene solitamente la minaccia, alla vita o all'integrità fisica e identitaria dei personaggi, e uso appositamente il maschile perché Alien, Blade Runner, La cosa e Videodrome vivono soprattutto di personaggi maschili, sono loro che portano avanti l'azione, fa eccezione la sola Ellen Ripley. Mentre gli spazi striati emanano da un potere che organizza, come è la città di Blade Runner con le sue griglie labirintiche alla maniera di Piranesi: canalizzate, divise, irrigidite, in cui gli esseri umani trovano rifugio e al tempo stesso ne vengono controllati[9]. I film stessi sono delle eterotopie (Foucault), aperte solo sulla quarta parete del nostro futuro, come le navi e gli spazi apparentemente chiusi su se stessi dai quali si esce solo con la morte (Videodrome).
Muoiono i protagonisti, non solo Roy Batty - ricordate: «È tempo di morire». Muore anche tutto l'equipaggio dell'astronave Nostromo (si salvano solo Ripley e il gatto), muoiono tutti in La cosa (il finale aperto non lascia comunque molte speranze in proposito), muore il protagonista di Videodrome, e non doveva finire bene neanche per Rick e Rachel di Blade Runner se i produttori non avessero impedito a Ridley Scott di montare il suo finale[10].
Se lo spazio è un linguaggio, un metalinguaggio che corre lungo i quattro film è costituito dalla riflessione sul rapporto tra visione e conoscenza: la minaccia fantasma, quasi incorporea benché letale, non può essere individuata con lo sguardo[11] ma solo attraverso indagini con strumenti tecnologici come rilevatori di movimento, analisi del sangue, sismografi, registratori; così il futuro diventa incerto se non possiamo più fidarci di noi, di quello che vediamo, della costruzione, evidentemente illusoria, di certezze scientifiche o identitarie. Incertezza e dubbio si allungano in avanti verso il futuro e investono anche il passato, dal momento che le immagini che fissiamo nella memoria, le fotografie che sembrano testimoniare eventi trascorsi, sono inficiate dalla realtà delle memorie prostetiche[12]. Chi siamo noi se non possiamo dire da chi e da dove veniamo? Ecco che questi film al confine tra gli anni Settanta e Ottanta spalmano il dubbio sul nostro passato, presente e futuro consegnandoci all'incertezza, e quindi all'angoscia, più totale.
Il materno alieno terrorizzante
Sembra che la decisione di centrare la trama di Alien attorno a una personaggia[13] sia dovuta al successo riscontrato dalla principessa Leila di Star Wars[14], anche se alcune caratteristiche di Ellen Ripley andranno ben al di là di quanto immaginato dalla produzione. Ora l'idea di un gruppo di esseri umani in balia di un mostro proteiforme era già stata ampiamente sfruttata in passato, ma l'avere buttato in quel calderone una trattazione terrorizzante del materno è tale da aggiornare di colpo la fantascienza più tradizionale alle teorie del corpo riproduttivo come mostruoso femminile. Barbara Creed, dando di Alien una interpretazione fortemente impregnata delle teorie psicoanalitiche[15], ha riletto la pellicola di Ridley Scott come un riattraversamento del mito della madre arcaica, in tutto il suo potere devastante (acuito da una non-presenza che rende la percezione del pubblico ancora più angosciante), rappresentata qui dall'entità generatrice delle uova che l'equipaggio dell'astronave Nostromo scopre all'interno dell'enorme relitto alieno. Ma tutto il film Alien è fitto di inquadrature che rimandano alla scena primaria di Freud e a una presenza cannibalica della madre arcaica tramite il figlio alieno. Contro questa diade e la sua alleanza con le mire capitaliste della Compagnia[16] che gestisce il traffico commerciale di cui anche la Nostromo è parte, si erge Ellen Ripley, mostrando che razionalità e determinazione possono essere il corredo di una donna che riesce a trasformarsi da vittima designata in icona vittoriosa. Ora Ellen Ripley è la vera novità del cinema di fantascienza del periodo. Una novità longeva visto che darà vita a una saga di ben nove film prodotti dal 1979 al 2017, mentre si chiacchiera di un ulteriore sequel che dovrebbe vedere il ritorno sulle scene di Sigourney Weaver.
Nel rivedere alcuni di questi film, sono stata colpita da aspetti e caratteristiche molto diverse che da una pellicola all'altra vengono assegnata a Ellen Ripley. In Alien, è un'ufficiale la cui freddezza e autonomia di giudizio acquista ancora più risalto se paragonata all'altra personaggia presente, la timoniera Lambert, che invece è impressionabile e nevrotica. Ripley non sembra avere o cercare relazioni sentimentali o affettive se non con il gatto che le consente di esprimere atteggiamenti di cura ma senza che questi prendano il sopravvento sul suo essere complessivo.
Non sono d'accordo con l'analisi di Boris Battaglia quando ritiene che l'intero equipaggio della Nostromo manchi di caratterizzazione sessuale e che l'unica sessualità venga espressa dallo Xenomorfo alieno[17]. Non è così e basterebbe la scena nella sala motori dell'astronave con Ripley alle prese con i due ingegneri fricchettoni e rivendicativi, Parker e Brett, a rivelare la misoginia dell'atmosfera della Nostromo, come anche la facilità con la quale l'androide Ash ignora gli ordini di Ripley. Ma Ripley, non ha bisogno di nessuno che venga a salvarla, caratteristica che manterrà anche nella seconda puntata della saga pur se le caratteristiche della personaggia verranno profondamente alterate. Ripley si sottrae al ricatto del materno sia nella sua versione di intelligenza artificiale obbligando Mother a rispondere delle cause di quanto sta avvenendo; sia nella sua versione aliena che si manifesta come mostruoso ciclo di nascita e maternità surrogata di una specie dall'aggressività terrificante. Passati sette anni, nel film successivo Aliens. Scontro finale, del 1986 di James Cameron, Ripley si vede attribuire una figlia e essendo quest'ultima nel frattempo morta, si trova affiancata da una ragazzina con la quale potrà rinsaldare un legame di tipo materno; mentre nel frattempo, in attesa di regolare definitivamente i conti con gli Xenomorfi (regina compresa) chiede aiuto, per essere uccisa in caso di cattura, al caporale Hicks, col quale sembra flirtare. Possiamo dedurre che probabilmente, nelle riunioni di produzione il vento fosse cambiato e che alcune caratteristiche particolarmente radicali di Ripley siano state volutamente «ammorbidite». Resta che Ellen Ripley di Alien innova profondamente la scena perché finalmente una final girl non ha bisogno di mostrare caratteristiche sexy o di apparente fragilità per rappresentare sullo schermo una personaggia in cui anche le spettatrici possano immedesimarsi[18]. E questo mentre in USA il femminismo della seconda ondata perdeva slancio, fino a esaurirsi proprio nel 1982 nella vana battaglia per far ratificare l’Equal Right Amendament. A sottolineare, se ce ne fosse ulteriore bisogno, come le molteplici relazioni tra fantascienza, anche nella sua forma cinematografica, e realtà, vivano di infiniti rimandi e non sempre è chiaro chi preceda e chi segua.
Note [1] Negli USA, dal 1982 al 1983, la disoccupazione diminuì dall'11% all'8,2%. [2] Sul ruolo della paura, sul suo legame con la questione di che cosa ci rende umani, si può leggere di Cristina Demaria: Materie dell'immaginario: narrare le paure, postfazione al volume G. Giuliani, Zombie, alieni e mutanti. Le paure dall'11 settembre a oggi, Le Monnier, 2015, pp. 143-153. [3] Su Blade Runner e sulle differenze il contrasto tra il testo di Philip K. Dick e la trasposizione cinematografica di Ridley Scott interviene Domenico Gallo (Blade Runner, il sogno dell’androide in tre atti) sulla rivista online «Pulp Libri», l’8 dicembre 2020 (https://www.pulplibri.it/blade-runner-il-sogno-dellandroide-in-tre-atti/) [4] Si può leggere il saggio di Alison Landsberg, Memoria prostetica: Atto di forza e Blade Runner, in V. Codeluppi, a cura di, Blade Runner Reloaded, FrancoAngeli, 2017, pp. 31-54. [5] Nel 1985, Donna Haraway pubblica il saggio Manifesto for Cyborgs: Science, Technology, and Socialist-Feminism in the 1980s in «Socialist Review». Ne aggiorna le tesi in Simians, Cyborg and Women: the Reinvention of Nature (Routledge 1991), pubblicato in Italia col titolo di Manifesto cyborg. Donne, tecnologie e biopolitiche del corpo, trad. di Liana Borghi (Feltrinelli 1995). [6] La cosa da un altro mondo (The Thing from Another World) è un film firmato da Christian Nyby ma girato in realtà da Howard Hawks; prende spunto dal racconto omonimo di John W. Campbell. [7] A. Caronia, Il corpo replicato, in V. Codeluppi, a cura di, Blade Runner Reloaded, cit., pp. 55-75. [8] Idea condivisa anche dal saggio di Lago e Toni. [9]Alberto Libera sulla rivista online di cinema «Lo specchio scuro», il 29 maggio 2023 ha proposto un’altra interpretazione che vede le ambientazioni di Alien e Blade Runner come contaminate dagli stilemi del gotico e - riprendendo l’analisi di Gianni Canova (in L’alieno e il pipistrello. La crisi della forma nel cinema contemporaneo, Bompiani, Milano 2004) - da un’articolazione verticale dei movimenti filmici. Cfr. A. Libera, Il gotico teratologico: su Alien e Aliens - scontro finale, «Lo specchio scuro» (https://specchioscuro.it/il-gotico-teratologico-su-alien-e-aliens-scontro-finale/). [10]Esistono varie versioni del film Blade Runner. La versione originale (Workprint Version) venne proiettata durante degli screening selezionati a Denver e Dallas nel marzo 1982. L'accoglienza negativa del pubblico convinse la produzione a modificare la pellicola, aggiungendo un lieto fine e una voce narrante fuori campo. [11]Ricordo la definizione di Gianni Canova: «la crisi dell'egemonia dello sguardo nella società contemporanea, la perdita del legame ontologico fra immagine e realtà», in Canova, L'alieno e il pipistrello, cit. p. 12. [12]Questo metalinguaggio sul fallimento della visione e della riproduzione in quanto non garanti della conoscenza, coinvolge naturalmente anche altri film fino ad arrivare al Blade Runner 2049 di Denis Villeneuve del 2017. [13]Il termine «personaggia» è una forzatura grammaticale introdotta dalla Società italiana delle letterate; cfr. L'invenzione delle personagge, a cura di Bia Sarasini, Roberta Mazzanti e Silvia Neonato, Iacobelli, Roma 2016. [14] Cfr. Boris Battaglia, Alien. Nascita di un nuovo immaginario, Armillaria 2019, ed. elettronica. Si veda il capitolo Lt. Ripley c'est moi. [15] Barbara Creed, The Monstruos-Feminine. Film, Feminism, Psychoanalisis, Routledge, UK 1993. [16] La Weyland-Yutani Corporation è l'ente economico che gestiste il traffico commerciale tra pianeti sfruttando chi lavora per lei con regole di ingaggio capestro, disposta anche a sacrificare gli umani (come in Alien e in Aliens. Scontro finale) pur di portare nei suoi laboratori lo Xenomorfo, ricercato come fonte ipotetica di elevatissimi guadagni. Per una interpretazione marxista di Alien, si può leggere di Alejandro Bárcenas Corporate Greed and Alien/ation: Marx vs. Weyland-Yutani, in J. Ewing - K. S. Decker, a cura di, Alien and Philosophy. I Infest, therefore I Am, edited by, Wiley Blackwell, NJ 2017, pp. 48-54. [17]Cfr, Battaglia, Alien, cit. Si veda il capitolo La scelta di Ripley. [18]Ne parla Antonietta Buonauro in un saggio pubblicato su DWF nel 2008, Horror film e estetica masochistica: piacere visivo e dinamiche dell’identificazione (n. 77, gennaio - marzo, pp. 40-57).
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Giuliana Misserville si occupa di critica letteraria femminista e ha contribuito alla fondazione della Società Italiana delle Letterate (SIL). È autrice, tra altro, di Donne e fantastico. Narrativa oltre i generi (Mimesis 2020) e del podcast La mano sinistra. Storie fantastiche. Per «Machina» ha curato la rassegna sul fantastico femminista: In cerca di altre mappe.
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