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Donne del Terzo Mondo e la politica del femminismo




Questo testo del 1991, è stato pubblicato come introduzione al volume collettaneo: Third World Women and the Politics of Feminism [1], che ha, tra altri, contribuito a imporre alla teoria femminista euroamericana uno sguardo critico sul concetto stesso di femminismo, veicolando l’impegno politico e militante delle donne del Terzo Mondo. Aprendo il volume, Mohanty mette a fuoco e contestualizza il soggetto «femministe del terzo mondo» e la sua agency nel quadro dei nascenti processi di globalizzazione, all’intersezione tra la storia del colonialismo, della razza e l’opposizione delle donne al dominio capitalista nei Sud del mondo. Per questo offre uno sguardo specifico e irrinunciabile sulla produzione teorica e politica femminista nei «decenni scomparsi», sulla sua ricchezza e diversità.

Ne riproduciamo un’estratto dalla traduzione italiana pubblicata nel volume Femminismo senza frontiere, (ombre corte 2012, 2020).



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Gli Stati Uniti e l’Unione Sovietica sono i paesi più potenti nel mondo ma sono solo 1/8 della popolazione mondiale.

Il popolo africano è anch’esso 1/8

della popolazione mondiale.

Di questo ¼ è nigeriano.

½ della popolazione mondiale è asiatico.

½ di esso è cinese.

Ci sono 22 nazioni in Medio Oriente.

La maggior parte delle persone nel mondo sono gialle,

nere, marroni, povere, donne, non-cristiane

e non parlano inglese.

Entro il 2000 le 20 città più grandi del mondo avranno una cosa in comune

nessuna di esse sarà in Europa nessuna negli Stati Uniti.

Audre Lorde, 1 gennaio, 1989



Ho voluto iniziare con le parole di Audre Lorde, come un tributo al coraggio che dimostrò nell’attaccare in modo così deciso le strutture istituzionali e di potere che de terminano e circoscrivono le vite delle donne del Terzo Mondo [2]. Questa poesia ha per me anche un profondo significato personale: Lorde la lesse come parte del discorso pronunciato in occasione della cerimonia di conferimento delle lauree che tenne all’Oberlin College, dove all’epoca insegnavo, nel maggio del 1989. Le sue parole cartografano poeticamente la posizione storica e politica delle popolazioni del Terzo Mondo e documentano il valore della nostra condizione in un mondo eurocentrico. Il linguaggio di Lorde delimita con accuratezza, forza e intensità i contorni della realtà in cui viviamo oggi: un mondo che è definibile solo in termini relazionali e che è attraversato da linee incrociate di potere e resistenza, un mondo che può essere inteso solo nei termini distruttivi delle divisioni tra i generi, le razze, le classi, i diversi orientamenti sessuali e le appartenenze nazionali, e che deve essere necessariamente trasformato «spostando il centro» (per usare l’espressione di Bettina Aptheker), poiché quello che è considerato il centro (l’Europa e gli Stati Uniti) non sarà più tale. Eppure, questo è anche un mondo caratterizzato da potenti storie di resistenza e rivoluzioni che prendono forma nella vita quotidiana così come attraverso i movimenti di liberazione organizzati. Questi sono i contorni che delineano il complesso terreno in cui può emergere e consolidarsi la politica femminista delle donne del Terzo Mondo (uso il termine «Terzo Mondo» per designare una specifica posizione geografica e una serie di congiunture storico-sociali. Tale definizione incorpora, di conseguenza, sia le cosiddette minoranze, sia le persone di colore negli Stati Uniti).

Di fatto, una delle caratteristiche distintive delle società contemporanee è l’internazionalizzazione delle economie e della forza lavoro. Nelle società industriali, la divisione internazionale della produzione economica consisteva nella separazione geografica dell’estrazione di materie prime (principalmente nel Terzo Mondo) dalla produzione industriale (nelle capitali coloniali). Con l’emergere delle imprese transnazionali che oggi dominano e organizzano il sistema economico, tuttavia, le industrie sono migrate alla ricerca di lavoro a basso costo, e lo Stato-nazione ha smesso di essere un’unità appropriata per l’analisi socio-economica. Inoltre, la migrazione di massa da parte delle popolazioni ex-coloniali verso le metropoli industriali europee, al fine di soddisfare il bisogno di forza lavoro a basso costo, ha creato nuove formazioni sociali multietniche e multirazziali, simili a quelle presenti negli Stati Uniti. Sono allora le stesse società post-industriali contemporanee a stimolare analisi di tipo transnazionale e interculturale che siano in grado di spiegare le loro caratteristiche interne e la loro costituzione socio-economica. Ciò implica, poi, che le definizioni contemporanee di Terzo Mondo identifichino contorni e confini geografici molto diversi rispetto a quelli che lo caratterizzavano nelle società industriali. Nel mondo post-industriale, processi socio-economici e ideologici sistemici collocano in un’analoga relazione con lo Stato le popolazioni dell’Africa, dell’Asia, dell’America Latina e del Medio Oriente, così come le «minoranze» (le persone di colore) negli Stati Uniti e in Europa.

Di conseguenza, definire il terreno per una riflessione sulle donne del Terzo Mondo e sulla politica femminista diviene compito non facile. In primo luogo, ci sono problemi di definizione: chi/cosa è il Terzo Mondo? Le donne del Terzo Mondo sono in sé un gruppo costitutivo? Su che base? Possiamo considerare le lotte politiche delle donne del Terzo Mondo come necessariamente «femministe»? Come definiamo/definiscono il femminismo? E, in secondo luogo, ci sono problemi legati al contesto: a partire da quali storie, o dalle storie di chi, noi cartografiamo l’impegno femminista delle donne del Terzo Mondo? Quale intersezione tra genere, razza e nazione caratterizza i femminismi del Terzo Mondo? Chi produce il sapere attorno alle popolazioni colonizzate e da quale luogo/posizione? Che politica viene prodotta da questo particolare sapere? Quali sono i parametri disciplinari di questa conoscenza? Quali sono le metodologie usate per posizionare e definire il sé e l’agency delle donne del Terzo Mondo? Chiaramente, le questioni relative alla definizione e al contesto si sovrappongono: quando, infatti, le domande che ci poniamo divengono più complesse e sfaccettate e il sapere scientifico di un numero rilevante di discipline inizia a considerare indissolubilmente interrelate le storie del colonialismo, del capitalismo, della razza e del genere, siamo necessariamente costrette a ridisegnare e trasformare le nostre mappe concettuali. Come scegliamo definizioni e contesti, su quale base ne poniamo in primo piano alcuni piuttosto che altri e che valore diamo agli spostamenti continui nelle nostre mappe concettuali – sono tutte questioni di grande rilevanza per questo tipo specifico di cartografia dei femminismi del Terzo Mondo.

Rispetto ad essa, la particolare posizione politica, storica e intellettuale che occupo è quella di una femminista del Terzo Mondo formatasi negli Stati Uniti, interessata alle questioni della cultura, della produzione di sapere, e dell’attivismo in un contesto internazionale. Le mappe che traccio sono necessariamente ancorate alla discontinuità dei contesti in cui vivo. (…) Questa riflessione si origina dalle sfide che la razza e gli studi postcoloniali hanno lanciato alla seconda generazione dei femminismi bianchi occidentali e da quelle che la critica femminista anti-capitalista ha posto alla globalizzazione economica e al neoliberismo. Credo, infatti, che esse invitino la storiografia e l’epistemologia femministe a porsi nuove domande, e le spingano verso la necessaria riconcettualizzazione delle idee di resistenza, comunità e agency nella vita quotidiana.


Definizioni: le donne del Terzo Mondo e il femminismo

A differenza della storia dei femminismi occidentali (bianchi e di classe media) che sono stati analizzati ampiamente negli ultimi decenni, le ricostruzioni sulle donne del Terzo mondo e il loro impegno nei riguardi del femminismo scarseggiano. C’è un’ampia letteratura riguardante le «donne nei paesi in via di sviluppo», ma essa non si occupa necessariamente delle questioni femministe. È stata raccolta una quantità consistente di letteratura accademica sulle donne nei movimenti di liberazione, o sul ruolo e lo status delle donne nelle singole culture. Tuttavia, anche quest’ultima non si occupa delle questioni legate alla storiografia femminista. Ricostruire queste storie richiede spesso una lettura in controluce di una serie incrociata tanto di discorsi progressisti (ad esempio, quello femminista bianco, quello del nazionalismo nel Terzo Mondo e quello socialista) quanto di discorsi politicamente regressivi, razzisti, imperialisti e sessisti propri della schiavitù, del colonialismo e del capitalismo contemporaneo. E, infatti, può sembrare ridicola l’idea stessa di «considerare insieme», quelle che sono le storie spesso intrinsecamente conflittuali dei femminismi del Terzo Mondo – specialmente se si pensa al fatto che è lo stesso significato di «femminismo» ad essere continuamente messo in discussione. Anche perché, si potrebbe affermare, non esiste un modo semplice di rappresentare queste storie e lotte nelle loro differenze e molteplicità. Se è complicato parlare di una singola entità chiamata «femminismo occidentale», è altresì difficile generalizzare i «femminismi del Terzo Mondo». Eppure, in molta della mia ricerca, ho posto in primo piano le «donne del Terzo Mondo» intendendo queste come categoria analitica e politica ed è proprio attraverso questa categoria che è mia intenzione riconoscere e analizzare le connessioni esistenti tra le storie e le lotte delle donne del Terzo Mondo – contro il razzismo, il sessismo, il colonialismo, l’imperialismo e il capitale monopolistico. Quel che voglio sostenere è l’esistenza di una «comunità immaginata» sorta dalle lotte antagoniste nel Terzo Mondo – «immaginata» non perché essa non sia «reale» ma perché rimanda ad alleanze e collaborazioni potenziali che tagliano trasversalmente le linee di separazione, e «comunità» in quanto, a dispetto delle gerarchie interne ai contesti del Terzo Mondo, essa evoca un impegno significativo e profondo verso ciò che Benedict Anderson, riferendosi all’idea della nazione, chiama «cameratismo orizzontale» [3].

L’idea della comunità immaginata è utile perché ci allontana da concettualizzazioni essenzialiste delle lotte femministe del Terzo Mondo, e suggerisce una base, politica e non biologica o culturale, per eventuali alleanze. Non è il colore o il sesso che costruiscono il terreno per queste lotte, ma il modo in cui noi concepiamo la razza, la classe e il genere – le connessioni politiche che abbiamo deciso di creare tra le lotte. In questo modo, a queste comunità immaginate possono potenzialmente allinearsi e partecipare donne di tutti i colori (incluse le donne bianche). Tuttavia, la nostra posizione in relazione a lotte particolari e il ruolo che in esse possiamo svolgere dipende dalle nostre differenti, spesso conflittuali, posizioni e storie. Ed è questo aspetto, in definitiva, che caratterizza in modo indelebile la riflessione sulle donne del Terzo Mondo e sulla politica del femminismo: le comunità immaginate sono composte da donne caratterizzate da storie e posizioni sociali divergenti, cucite insieme dai fili politici dell’opposizione a forme di dominio che non sono solo pervasive, ma anche sistemiche. Un esempio di costrutto simile è l’idea delle «comunità di resistenza», elaborata in riferimento all’ampia opposizione da parte di gruppi di rifugiati, migranti e neri in Gran Bretagna, all’idea di una nazione comune: Europa 1992 [4] (ora Unione Europea). «Comunità di resistenza», nel senso di «comunità immaginate», è una definizione politica e non essenzialista. Non si basa su di un’idea astorica di resistenza o di antagonismo intrinseca alle popolazioni del Terzo Mondo. Si basa piuttosto sull’analisi storica e materiale dei concreti effetti che la privazione dei diritti politici da parte di Europa 1992 ha avuto sulle comunità del Terzo Mondo in Gran Bretagna e sulla necessità di formare comunità «resistenti/antagoniste» che a ciò si opponessero. Tuttavia, se tali comunità immaginate sono storicamente e geograficamente definite, i loro confini sono però necessariamente fluidi, soprattutto dato il carattere fluido e cangiante delle dinamiche di potere. Non ipostatizzo, quindi, una configurazione omogenea delle comunità di donne del Terzo Mondo per via del fatto che esse condividono un «genere», una «razza» o una «nazione». Come la storia (e la recente letteratura femminista) ci insegnano, «razze» e «nazioni» non sono state definite sulla base di caratteristiche intrinseche e naturali, e nemmeno possiamo definire il «genere» come qualcosa di trans-storico e unitario [5]. Ora, dove ci porta tutto ciò?

Geograficamente, gli Stati-nazione dell’America Latina, dei Caraibi, dell’Africa subsahariana, dell’Asia meridionale e del sud-est asiatico, del Sud Africa e dell’Oceania segnano le misure del Terzo Mondo non-europeo. A ciò si aggiungano le popolazioni nere, latine, asiatiche e indigene negli Stati Uniti, in Europa e in Australia, alcune delle quali sono storicamente legate a quello che è geograficamente definito come Terzo Mondo e si identificano come appartenenti al Terzo Mondo. In un quadro di queste dimensioni, i con fini razziali, sessuali, nazionali, economici e culturali sono difficili da distinguere, modellati politicamente, come sono, da pratiche individuali e collettive.


Le donne del Terzo Mondo come categoria sociale

(…) le studiose spesso definiscono le «donne del Terzo Mondo» nei termini del sottosviluppo, delle tradizioni oppressive, dell’alto grado di analfabetismo, della povertà urbana e rurale, del fanatismo religioso e della «sovrappopolazione» che caratterizzano particolari paesi asiatici, africani, mediorientali e latinoamericani. Analisi equivalenti in riferimento alle donne nere «matriarcali» con sussidio statale, alle contadine chicana «analfabete» e alle «docili» lavoratrici domestiche asiatiche abbondano anche nel contesto statunitense. Oltre ad essere normate da una gerarchia che polarizza l’occidentale bianco (leggi progredito/moderno) e il non-occidentale (leggi arretrato/tradizionale), queste analisi congelano le donne del Terzo Mondo nel tempo, nello spazio e nella storia. Prendiamo, ad esempio, gli indicatori d’analisi degli status e dei ruoli delle donne del Terzo Mondo stabiliti da Momsen e Townsend (1987) [6]. Essi identificano le seguenti categorie d’analisi: aspettativa di vita, sesso/genere, alimentazione, fertilità, attività che generano reddito, istruzione e nuova divisione internazionale del lavoro. Tra queste, gli indici di fertilità e dell’inclusione delle donne del Terzo Mondo come forza lavoro nelle industrie multinazionali sono identificati come due degli aspetti più significativi della vita delle donne nel Terzo Mondo. Se è vero che queste informazioni di carattere descrittivo sono utili e necessarie, gli indicatori presunti come «oggettivi» non possono essere certamente esaustivi nel rappresentare il significato complessivo della vita quotidiana delle donne. La natura quotidiana, fluida, fondamentalmente storica e dinamica delle vite delle donne del Terzo Mondo è ridotta qui a pochi, e cristallizzati, «indicatori» del loro benessere. Momsen e Townsend affermano che, di fatto, la fertilità è l’aspetto più studiato delle vite delle donne nel Terzo Mondo [7]. Ciò, in particolare, la dice lunga sulle rappresentazioni egemoniche delle donne del Terzo Mondo nella produzione del sapere sociale e scientifico, e su come le rappresentazioni finiscano per influire, limitandola, sulla nostra capacità di analizzare e comprendere il femminismo e le lotte quotidiane che le donne intraprendono in queste circostanze.

Confrontiamo, ad esempio, l’analisi sulla fertilità proposta da Momsen e Townsend (come indicatore sociale dello status delle donne) con lo studio delle politiche demografiche e del dibattito sulla sessualità tra le donne povere del Brasile offerto da Barroso e Bruschini (1991). Analizzando le politiche di pianificazione famigliare nel contesto del movimento delle donne brasiliane, ed esaminando il modo in cui le donne povere costruiscono un sapere collettivo in materia di educazione sessuale e sessualità, Barroso e Bruschini collegano le politiche statuali e i movimenti sociali alla politica del quotidiano, presentandoci quindi una visione dinamica, storicamente specifica delle lotte delle donne brasiliane nei barrios. Affronterò più avanti e in modo più dettagliato alcune di queste questioni metodologiche. Per ora sia sufficiente dire che le nostre definizioni, descrizioni e interpretazione del rapporto tra le donne del Terzo Mondo e il femminismo devono essere necessariamente specifiche in senso storico e, al contempo, dinamiche, ossia non congelate nel tempo come se descrivessero uno scenario sempre uguale.

Di conseguenza, se, alla fine, gli «indicatori sociali» di cui sopra descrivono e interpretano in modo piuttosto inadeguato la vita delle donne, su quale base le donne del Terzo Mondo formano un gruppo distinto? Prima di tutto, al pari delle donne occidentali o delle donne bianche – che non possono essere definite gruppi di interesse omogenei – le donne del Terzo Mondo non costituiscono automaticamente nessun gruppo unitario. Le alleanze e le divisioni di classe, religione, orientamento e storia, per esempio, sono caratteristiche ineludibili di tutti questi gruppi. In secondo luogo, sono le diverse posizioni ideologiche ad orientare e spingere le analisi del sociale verso l’ipotesi che esista un legame naturale tra le donne. Dopo tutto, non c’è una connessione logica e necessaria tra l’essere femmina e il divenire femminista [8]. Infine, una definizione delle donne del Terzo Mondo in base ai loro «problemi» o «risultati» in riferimento ad un modello astratto di democrazia – una democrazia immaginata come liberale, bianca e libera – le rimuove effettivamente (insieme alla stessa democrazia liberale) dalla storia, congelandole nel tempo e nello spazio.

Molti studiosi negli Stati Uniti hanno descritto il carattere intrinsecamente politico del termine «donne di colore» (un termine spesso usato in modo intercambiabile con «donne del Terzo Mondo», come sto facendo io in questa sede) [9]. Il termine designa, infatti, un gruppo politico, non un gruppo biologico, né tanto meno sociologico. È una designazione socio-politica per le persone di origine africana, caraibica, asiatica e latinoamericana e per le popolazioni native degli Stati Uniti. Si riferisce anche ai «nuovi immigrati» arrivati negli Stati Uniti durante gli ultimi tre decenni: arabi, coreani, tailandesi, laotiani e così via. Ciò che sembra costituire le «donne di colore» o le «donne del Terzo Mondo» nel senso di un’alleanza antagonista praticabile è il comune contesto di lotta piuttosto che l’identificazione in un colore o razza. Analogamente, è l’antagonismo politico contro le strutture sessiste, razziste e imperialiste, posto in essere dalle donne del Terzo Mondo, a costituire il nostro comune potenziale. E, di conseguenza, è questo stesso contesto comune – delle lotte contro specifiche strutture e sistemi dello sfruttamento – a determinare nel passato come nel presente le nostre potenziali alleanze politiche (…).



Note [1] C. T. Mohanty - A. Russo - L. Torres (a cura di), Indiana University Press, 1991 trad. it. Cartografia delle lotte. Donne del Terzo Mondo e la politica del femminismo. in C.T. Mohanty, Femminismo senza frontiere (ombre corte 2012, 2020). Si ringrazia ombre corte per la possibilità di ripubblicare. [2] L’epigrafe che apre questo capitolo è tratta da un poema inedito di Audre Lorde, citato nel suo discorso pronunciato all’Oberlin College il 29 maggio 1989. [3] Si veda Anderson (1983), in particolare pp. 11-16), trad. it. Comunità immaginate. Origini e fortuna dei nazionalismi, manifestolibri, Roma 1996. [4] Si tratta del progetto che porterà alla stesura del trattato di Maastrict nel 1992 [N.d.C.]. [5] Si veda J.W, Scott, A Useful Category of Historical Analysis, «American Historical Review» 5/91, 1986 e M. E. Hawkesworth, Knowers, Knowing, Known: Feminist Theory and Claims of Truth «Signs» 14 1989. [6] J.H. Momsen - J.G. Townsend, Geography of Gender in the Third World, State Univ of New York Pr, 1987 [N.d.C.]. [7] Ivi, p. 36. [8] Discuto approfonditamente questo punto nel capitolo Sorellanza, coalizione e politica dell’esperienza. [9] Si veda, ad esempio il lavoro di Chela Sandoval sulla costruzione della categoria «Donne di Colore» negli Stati Uniti e la sua teoria della coscienza antagonista (Sandoval 1983, 1991 e 2000). Norma Alarçon propone un’importante concettualizzazione delle donne del Terzo Mondo nel saggio The Theoretical Subject(s) of This Bridge Called me Back and Anglo-American Feminism, contenuto in Calderon e Saldivar (1990). Anche Moraga e Anzaldùa (1981), Trinh (1989), hooks (1984) e Anzaldùa (1987) propongono concettualizzazioni analoghe.


Immagine: Foto e composizione di Sergio Bianchi da disegni murali p.le Prenestino, Roma


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Chandra Talpede Mohanty, insegna Women's and Gender Studies e Cultural Foundations of Educatio alla Syracuse University nello Stato di New York. Studia la teoria e la prassi del femminismo transnazionale, il colonialismo, l’imperialismo e la razza, unendo l’impegno intellettuale alla pratica militante nel campo della produzione dei saperi e delle «pedagogie del dissenso». Tra le sue pubblicazioni, in italiano: Femminismo senza frontiere (ombre corte 2012, 2020).

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