Continuano le pubblicazioni di Machina volte ad analizzare quello che abbiamo definito «Caos Usa».
Nell’articolo che pubblichiamo oggi, Andrew Ross discute le ragioni dell’affermazione di Trump. Un fattore decisivo, ci dice l'autore, è stato sicuramente quello socio-demografico: non ha retto la coalizione su cui il Partito Democratico pensava di fondare la propria vittoria, ovvero quella tra benestanti delle grandi città e gruppi minoritari a basso e medio reddito disgustati dal razzismo dei sostenitori di Trump. Più che la suddivisione tra Stati in blu e Stati in rosso a contare, scrive Ross, è stata la suddivisione geografica tra città e periferie. Anche il genocidio in corso a Gaza, sostenuto nei fatti da Biden e dal Partito Democratico, ha fatto perdere molti voti a Kamala Harris.
Quali effetti produrrà l’elezione di Trump? Se i difetti del sistema democratico degli Stati Uniti erano evidenti già da prima del voto, l’illiberalismo del tycoon sarà sicuramente una minaccia, a cui rispondere rafforzando il lavoro di organizzazione e mobilitazione.
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Sono rimasto sorpreso, come molti e come il suo stesso partito, dalla magnitudine del supporto per Donald Trump. La sua personalità stravagante è così lontana dal profilo istituzionale dei politici nazionali che era davvero difficile immaginare come esso potesse vincere alle urne. Al contrario, è stato più semplice individuare i nodi che hanno portato alla sconfitta di Kamala Harris: entrata tardi nella corsa elettorale, la candidata democratica ha assunto posizioni di destra su quasi tutte le questioni politiche, tranne che sull’aborto. Facendo campagna elettorale con celebrità ultra-ricche e con falchi repubblicani come Liz Cheney, ha completato quella «torta» neoliberale che i Democratici hanno iniziato a cuocere sin dall'amministrazione Clinton, negli anni ’90. Sulle questioni economiche che contano nella vita quotidiana della gente comune, era invece evidente da molto tempo che Harris avesse poco da dire. Per la maggioranza delle persone al di fuori delle classi professionali, che sono diventate l’eco del partito, i salari reali sono stagnanti da diversi decenni; la casa, la salute, l’assistenza all’infanzia e altri beni di base sono inaccessibili; inoltre, i debiti delle famiglie sono in crescita; i tagli ai servizi continuano a colpire i più vulnerabili: infine, spendere soldi pubblici per uccidere bambini a Gaza in fin dei conti non è poi così popolare. Tutti sanno chi ha tratto vantaggio dal festino neoliberale. È la stessa classe di persone che finanzia il Partito Democratico e che ha versato un miliardo di dollari nella campagna di Harris, che ha racimolato e speso molto più dello stesso Trump. Questi donatori aziendali rendono sconveniente per i loro candidati alla Casa Bianca o al Congresso parlare di redistribuzione della ricchezza, e questo è esattamente il punto delle donazioni.
Dopo aver digerito i risultati elettorali, Bernie Sanders, unico portabandiera della sinistra al Senato, ha preso le distanze dal partito di Harris. Ha dichiarato: «non dovrebbe sorprendere che un Partito Democratico che ha abbandonato la classe lavoratrice debba scoprire che la classe lavoratrice lo ha abbandonato» aggiungendo che «prima era la classe lavoratrice bianca, ora anche i lavoratori latini e neri». Ha concluso con una domanda provocatoria: «Impareranno i ricchi e i consulenti ben pagati che controllano il Partito Democratico qualcosa di reale da questa campagna disastrosa? Probabilmente no».
Queste parole infuocate sono state ampiamente diffuse e ben accolte come commento post-elettorale. Alcuni hanno sottolineato che Sanders, in effetti, ha fatto una dura campagna per Harris, ma c’era senza dubbio una ragione dietro questa scelta. I sondaggisti avevano stimato che Sanders, grazie alla sua capacità di attrarre le famiglie ancora sofferenti per la deindustrializzazione, nel 2016 avrebbe potuto battere Trump. Quando nel 2020 la sua candidatura fu bloccata dal Comitato Nazionale Democratico (DNC), egli fece un accordo con Biden per attuare alcune di quelle misure di sinistra per le quali l'attuale presidente si è preso il merito. Fino al giorno stesso delle elezioni, Sanders ha seguito lo stesso approccio con Harris. La maggior parte dei giovani socialisti della DSA (Democratic Socialists of America), eletti sulla scia delle campagne di Sanders, è sopravvissuta alla scorsa settimana, ma almeno due sono stati spazzati via da un’ondata di denaro da parte di AIPAC, il colosso sionista che attacca senza pietà qualsiasi politico disposto a parlare per i diritti umani dei palestinesi. Come prevedibile, i sopravvissuti sono stati usati come capro espiatorio dai Democratici per la sconfitta di Harris.
Ma i dati elettorali raccontano una storia diversa. Gli elettori che Harris ha perso non sono stati spaventati dalle idee di sinistra del gruppo «Squad»[1]. Per ragioni differenti, questi elettori superstiti sono stati solo gli ultimi ad unirsi alla massiccia disaggregazione della classe sociale di riferimento della sinistra che avviene da quando i «Reagan Democrats» hanno cambiato rotta negli anni ’80. I votanti della classe professionale e della classe lavoratrice si sono sostanzialmente scambiati di posto, incrociandosi nel buio mentre migravano, rispettivamente, verso sinistra e destra. Le mappe elettorali mostrano chiaramente il risultato. Non è la suddivisione tra rossi e blu a contare negli Stati Uniti, ma, piuttosto, quella tra città e il resto. Le enclavi blu dei grandi centri urbani, dove l’economia della conoscenza è florida, sono circondate da un mare rosso di piccole città, periferie estese e aree rurali, dove lo spettro della povertà è onnipresente. I Democratici pensavano di poter prevalere costruendo una coalizione tra benestanti urbani e suburbani e gruppi minoritari a basso e medio reddito disgustati dal razzismo dei sostenitori di Trump. Ma questa fragile coalizione interclasse si è disgregata la scorsa settimana. Il carro armato di Trump ha attratto un numero significativo di latini non laureati e abbastanza uomini neri della stessa classe sociale, risultato che suggerisce un cambiamento storico. Al contrario, le famiglie appartenenti ad una minoranza, e con componenti perlopiù laureati, sono rimaste con Harris. La misoginia non può essere esclusa come fattore che ha portato al voto per Trump, specialmente considerando che una donna nera era l’obiettivo critico del tycoon, ma anche in questo caso questa percezione sembra avere una connotazione di classe.
Il processo di riforma delle classi che ha trasformato il sistema bipartitico americano non è affatto un fenomeno specifico del paese a stelle e strisce; esistono versioni simili di questo processo in quasi tutti i paesi industrializzati, dove i partiti di sinistra si allontanano dalle loro radici proletarie. Anche l’istinto più affidabile di Trump, quello di demonizzare gli immigrati, è condiviso dai movimenti di destra populista ovunque (AfD in Germania, Fidesz in Ungheria, Fratelli d’Italia, Vox in Spagna, Rassemblement National in Francia, Chega in Portogallo, Diritto e Giustizia in Polonia, i Finlandesi, Reform UK, tra gli altri). Anche in paesi con limitata immigrazione, il nazionalismo di sangue e suolo è un insieme di valori comuni che si estende globalmente, dal Texas fino a Delhi e Mosca.
Il genocidio a Gaza è stato l’unico punto su cui le elezioni americane hanno prodotto uno scarto. AIPAC è riuscito a mettere in riga la classe politica, considerando che ci sono stati pochissimi dissidenti tra i candidati, ma non ha potuto influenzare direttamente il voto. L’incapacità di Harris di prendere le distanze dal sionismo di Biden le è costata una perdita di innumerevoli voti. In alcune circoscrizioni con grandi popolazioni arabe o musulmane, ha perso malamente. Ma Gaza ha allontanato la candidata del Partito Democratico anche dai giovani e da una parte significativa della popolazione adulta. Ben prima delle elezioni, i sondaggi mostravano che la stragrande maggioranza dei Democratici era favorevole a un immediato cessate il fuoco o a un embargo sulle armi, ma i leader del partito non hanno ascoltato. Su nessuna altra questione si è manifestato un tale divario tra l’opinione pubblica e la politica del partito.
Molti hanno concluso che il principale sconfitto nelle elezioni della scorsa settimana sarà il clima, o, più tecnicamente, la vita su questo pianeta. Non c’è dubbio che la corsa alla decarbonizzazione sia diventata più difficile, ma è anche probabile che l’approccio di Trump all’energia differisca solo in termini di intensità rispetto a quello dell’amministrazione Biden, che già governava un’economia che estrae più petrolio e gas di qualsiasi altro paese della storia. Come la maggior parte degli altri paesi produttori di combustibili fossili, gli Stati Uniti sotto Trump continueranno a costruire la propria base tecnologica verde, aumentando al contempo la produzione di petrolio e gas per l’esportazione verso paesi privi di risorse e per sviluppare una propria autonomia energetica.
Infine, già si parlava molto prima delle elezioni di «salvare la democrazia» dal fascismo emergente di Donald Trump. Questi timori sono assolutamente credibili, sebbene l’ascesa di Trump, per quanto autoritaria, non possa essere ancora esplicitamente definita fascista: deve, infatti, ancora conquistare il sostegno delle aziende americane e piegare l’esercito alla sua volontà. In fondo Trump è un «transazionalista» e ha mostrato poco interesse per le guerre o per una politica estera espansionista, poiché non vi trova alcun tornaconto personale.
Le elezioni presidenziali mostrano chiaramente tutti i difetti dell’attuale democrazia americana. Viviamo ancora sotto l’insegna dell’SPQR. Chi scrisse la Costituzione fu esplicito nel modellare la nuova nazione secondo i corpi rappresentativi indiretti della Repubblica romana piuttosto che secondo le assemblee democratiche dirette dell’Atene di Pericle. La paura della «massa» e del potere plebeo, volubile e turbolento, presente nell’antica Roma era un’ossessione per i gentiluomini del XVIII secolo che scrissero le regole. Di conseguenza, la Camera dei Rappresentanti degli Stati Uniti è l’unico organismo nominalmente rappresentativo e soggetto al voto popolare, mentre il Senato è un club patrizio e il Collegio Elettorale che sceglie il presidente è un’istituzione fondamentalmente antidemocratica. A meno che non si abbia la fortuna di vivere in uno degli otto o nove «swing states», il proprio voto conta poco nella corsa per una presidenza che diventa ogni anno più imperiale. Nel frattempo, la Corte Suprema detiene un potere eccessivo per un organismo interamente non eletto. Il voto per la «normalità», ovvero ciò che hanno offerto i Democratici, non era solo un’espressione di fiducia per il consueto neoliberismo, ma anche un tacito avallo di un sistema politico corrotto che Trump non ha alcun interesse a riformare, soprattutto ora che per la prima volta ha conquistato il voto popolare.
Sicuramente l’illiberalismo sregolato di Trump è una minaccia. Se dovesse mantenere anche solo una piccola parte delle sue promesse vanagloriose, le conseguenze potrebbero essere devastanti per molte popolazioni. Sia negli Stati Uniti che altrove nel mondo. Ma il lavoro di organizzazione e mobilitazione è già iniziato e sarà più acuto e determinato con lui alla Casa Bianca. Per riprendere i cori che risuonano nelle strade da oltre un anno: non ci fermeremo, non ci riposeremo.
Note
[1] Gruppo interno al Partito Democratico alla Camera dei Rappresentanti.
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Andrew Ross è attivista e professore alla New York University. È autore o curatore di più di venticinque libri, l'ultimo dei quali è Abolition Labor: The Fight to End Prison Slavery .
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