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Da alleati a compagni


Sergio Bianchi, Linee, 2016


Jodi Dean, docente di scienza politica all’Hobart and William Smith Colleges, è una delle più note e apprezzate marxiste americane, con il suo strano tentativo di combinare l’«orizzonte comunista» con tematiche vicine al dibattito postmoderno. Tra i suoi vari libri, negli ultimi anni si è impegnata soprattutto a definire la figura del «compagno» e della «compagna». In questo testo (tradotto da Gianluca Pozzoni) si concentra proprio sulla differenza tra l’essere «alleati» e l’essere «compagni». La prima parte che qui proponiamo offre delle riflessioni utili al nostro dibattito sulla crisi della militanza, sia perché ci permette di inquadrarlo in un contesto diverso dal nostro, quello statunitense, sia perché molte delle critiche che Dean muove a ciò che chiama «alleatismo» risuonano anche alle nostre latitudini, ad esempio rispetto all’attivismo legato alla identity politics, al neomutualismo e alle pratiche incentrate sull’umanitarismo.


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Nonostante sia associato ai rapporti militari tra nazioni sovrane in tempo di guerra, il termine «alleato» è diventato influente nei circoli dell’attivismo della sinistra statunitense. Prestare attenzione ai dibattiti su cosa significhi essere un alleato rivela i limiti della politica dell’alleatismo, e offre l’opportunità di riflettere sulla differenza tra alleati e compagni. L’alleatismo è ancorato alla politica liberale. Le persone impegnate nella politica rivoluzionaria sono compagne.


I limiti dell’alleatismo

Nel corso dell’ultimo decennio si sono svolte intense discussioni sui social media e tra gli attivisti delle comunità locali su chi possa essere definito un alleato. Genericamente parlando, si definiscono alleate quelle persone di condizione privilegiata che vogliono attivarsi contro l’oppressione. Possono non considerarsi esse stesse sopravvissute o vittime di oppressione, ma vogliono dare il loro contributo. Gli alleati possono quindi essere persone etero che difendono i diritti delle persone Lgbtq, bianchi che sostengono i neri o i latinos, uomini che difendono le donne, e così via. Non mi è ancora capitato che il termine venisse usato per riferirsi a persone ricche che difendono le lotte della classe lavoratrice. Gli alleati non vogliono immaginarsi come omofobi, razzisti o sessisti. Vogliono vedersi come i «buoni», come parte della soluzione.

Come si fa spesso notare nei dibattiti sull’alleatismo, affermare di essere un alleato non fa di qualcuno un alleato. Essere alleato richiede tempo e sforzo. Le persone ci si devono impegnare. Gran parte del lavoro scritto e audiovisivo sull’alleatismo ha perciò uno scopo didattico, spesso in forma di guida operativa o di lista puntata su come essere un alleato, sulle cose da fare e da non fare, ecc. Le istruzioni per essere buoni alleati sono piccoli manuali di vita, tecniche per districarsi in contesti di privilegio e di oppressione (ma non per demolirli). Gli individui possono imparare le cose da non dire e quelle da non fare. Possono sentirsi impegnati in assenza di qualunque lotta politica organizzata. In questi manuali di alleatismo la «politica» è fatta di interazioni interpersonali, sentimenti individuali e affetti mediati.

Gli articoli che circolano online su come essere un buon alleato (post sui blog, video, editoriali, opuscoli) si rivolgono allo spettatore o al lettore in quanto individuo con un’identità privilegiata che vuole agire in solidarietà con le persone marginalizzate e oppresse. Questo potenziale alleato si pone come una persona che vuole sapere cosa fare immediatamente, per proprio conto e nella propria vita personale, per combattere razzismo, sessismo, omofobia e altre forme di oppressione. Si immagina spesso che il campo di azione dell’alleato siano i social media (per sapere come rispondere correttamente ai commenti omofobi e razzisti su Twitter, ad esempio), il sostegno benefico (attraverso donazioni e organizzazioni di campagne su GoFundMe), le interazioni professionali (con l’assunzione di persone marginalizzate e la promozione di quelle oppresse), le conversazioni a scuola o in università (conoscendo cosa non bisogna dire) e, a volte, le proteste in piazza (non sovrastando gli eventi altrui). Più spesso ancora ci si concentra sull’attitudine e il comportamento individuali dell’alleato. Le guide operative istruiscono gli alleati su come sentirsi, cosa pensare e come agire se vogliono considerarsi persone che stanno dalla parte degli oppressi. Quel che deve cambiare è la loro consapevolezza.

Prendiamo ad esempio questo post su Buzzfeed intitolato How to Be a Better Ally: An Open Letter to White Folks (Come essere un alleato migliore: lettera aperta alla gente bianca)[1]. Il testo è tratto da una lettera inviata da un produttore della serie video di Buzzfeed Another Round, in risposta alla domanda di una persona bianca sull’essere alleati. «Ti è mai capitato che una conversazione con un uomo femminista si interrompesse perché l’uomo inizia a lamentarsi di come le femministe usino un linguaggio che esclude gli uomini, anche quelli femministi? (“Ma non tutti gli uomini…”) A me sì! Spesso essere un buon alleato significa non essere incluso nella conversazione, perché la conversazione non ti riguarda. È bene ascoltare. Se ti senti a disagio o escluso perché sei bianco, devi dominare queste sensazioni». Di nuovo, l’alleatismo è una disposizione, uno scontro non con lo Stato o con il potere capitalistico ma con il proprio disagio. Essere un alleato significa sforzarsi di essere un bravo ascoltatore, farsi da parte e capire le vite e le esperienze degli altri.


Il saggio di Karolina Szczur The Fundamentals of Effective Allyship (I fondamenti di un alleatismo efficace) [2], in origine una conferenza al Tech Inclusion Melbourne, considera l’alleatismo in termini di intensità delle sensazioni dell’alleato e di quanto l’alleato sia disposto e capace a svolgere il necessario lavoro su di sé: «È responsabilità nostra riconoscere, individuare e agire sul privilegio che abbiamo. Uno dei modi per farlo è impegnarsi in una costante azione di introspezione, riflessione e apprendimento. Ti sentirai sfidato, a disagio, magari messo sulla difensiva, ma più queste sensazioni saranno intense, più è probabile che tu sia sulla strada giusta». Agire sul privilegio appare qui essere qualcosa che si fa nei confronti di se stessi. La politica che si fa potrebbe essere interamente nella testa. Sotto questo aspetto, l’alleatismo riflette la restrizione dello spazio della politica alle sensazioni individuali. Il campo di azione si è ridotto, ma l’alleato sente il bisogno di agire disperatamente, intensamente e subito. Gli alleati agiscono dentro e su quello che hanno a disposizione – i social media e se stessi.

La rivista online «Everyday Feminism» fornisce una lista di Dieci cose che un alleato deve sapere [3]. La numero 5 recita: «Gli alleati si autoformano costantemente». Spiegato: «Una delle modalità di autoformazione più importanti è l’ascolto […] (vedi #1), ma esiste una quantità sterminata di risorse (libri, blog, testate, speaker, video di YouTube ecc.) che ti aiuta nell’apprendimento. Non puoi, però, aspettarti che siano le persone con cui ti vuoi alleare a insegnarti. Non è responsabilità loro. Certo, puoi prestare loro ascolto quando decidono di offrire qualche conoscenza o prospettiva, ma non puoi andare da loro e aspettarti che ti spieghino la loro oppressione per te». Ovviamente, lo studio è cruciale per i rivoluzionari. Ma la visione dell’autoformazione associata all’alleatismo è isolante. L’apprendimento è modellato come consumo di informazioni, non come discussione, raggiungimento di un’intesa comune, o studio dei testi di una tradizione politica. Il formare se stessi è così scollegato dalla pratica critica collettiva, viene separato dalle posizioni o dagli obiettivi politici. I criteri per valutare libri, blog, speaker e video sono assenti. Gli alleati individuali devono arrivarci da soli. In pratica, si ha punizione senza disciplina. L’aspirante alleato può essere rimproverato o colpevolizzato anche quando chi rimprovera è sollevato da ogni responsabilità nel fornire una guida e una formazione (per essere chiari, dire semplicemente a qualcuno di «googlare» è un gesto vuoto). Considerando il fatto che «alleato» non è un appellativo – non sostituisce «Sig.», «Sig.ra», «Dott.» o «Prof.» – il termine sembra designare un limite, un’allusione al fatto che non sarai mai uno di noi, e non una denominazione che denota solidarietà. Il rapporto tra alleati e persone con cui ci si allea è un rapporto tra persone con interessi, esperienze e pratiche separate.


L’ottavo punto nella lista di cose che un alleato deve sapere secondo «Everyday Feminism» recita: «Gli alleati si rivolgono a coloro con cui condividono un’identità». «Oltre che ascoltare, verosimilmente la cosa migliore che posso fare per essere solidale è coinvolgere altre persone con cui condivido un’identità». Le identità appaiono definite e fisse, inequivocabili e immutabili. Gli individui sono come dei piccoli staterelli sovrani che difendono il proprio territorio e uniscono le forze usando la massima prudenza e perseguendo esclusivamente il proprio interesse. Si presume che chi condivide un’identità condivida anche un orientamento politico, come se l’identità fosse scontata e l’orientamento politico non debba essere costruito. Chi vuole perseguire una linea politica diversa da quella legata a ciò che può essere facilmente attribuito alla sua identità viene trattato con sospetto, si diffida del suo presunto privilegio e lo si critica preventivamente per le ingiustizie che permettono a quel privilegio di esistere. Gli stessi termini dell’alleanza rafforzano quella diffidenza che le guide all’automiglioramento si propongono di affrontare: è del tutto ragionevole diffidare di persone che vedono la politica come gratificazione immediata, come pronto rimedio individuale alle lunghe storie di oppressione strutturale. Dal momento che gli alleati si uniscono a noi per il proprio interesse, è facile che rinuncino e ci abbandonino. Non possiamo contare sul loro impegno perché si basa sulle loro sensazioni individuali e sul loro sentirsi a proprio agio. Il punto 8 nell’articolo di «Everyday Feminism» ci spiega perché il femminismo faccia così tanta presa nei circoli progressisti: la diffidenza verso l’identità altrui diventa funzionale e gratificante nel nome di una politica che conserva e sorveglia la nostra identità, puntellando i confini labili e porosi di questa nostra cosa speciale e vulnerabile. L’alleato tiene lontana l’attenzione dalla sfida temibile dello scegliersi una parte, dall’accettazione della disciplina che l’agire collettivo comporta, dall’organizzazione della lotta per abbattere l’imperialismo capitalista e il sistema divisivo di intolleranza e oppressione che lo sorregge.

L’alleatismo non raccorda le identità politiche. È un sintomo del tentativo del capitale di rimpiazzare la politica con le tecniche di self-help e con il moralismo da social media. Alle spalle c’è una visione degli individui come individui che si auto-orientano, della politica come possesso, della trasformazione ridotta a cambio di atteggiamento, di una sfera fissa e naturalizzata di privilegio e oppressione. Ancorata in una concezione dell’identità come vettore primario della politica, l’enfasi sugli alleati sposta l’attenzione dalle questioni strategiche di tattica e organizzazione per concentrarla su cartine al tornasole degli atteggiamenti di partenza, precludendo alla base il collettivismo necessario a una politica rivoluzionaria. Ovviamente, le persone di sinistra hanno bisogno di alleati. A volte è necessario stringere alleanze temporanee per fare dei passi avanti. La lotta comunista necessita di una varietà di alleanze tattiche tra differenti classi, settori e tendenze. Il problema dell’alleatismo non sta nella pratica di allearsi, sarebbe assurdo rifiutare ciò a priori. L’alleatismo non è però la forma e il modello adeguato alla lotta rivoluzionaria contro lo sfruttamento e l’oppressione.


Note [1] Consultabile all’indirizzo https://www.buzzfeednews.com/article/anotherround/how-to-be-a-better-ally-an-open-letter-to-white-folks. [2] Consultabile all’indirizzo https://medium.com/@fox/fundamentals-of-effective-allyship-468bd0afe89b. [3] Consultabile all’indirizzo https://everydayfeminism.com/2013/11/things-allies-need-to-know/.

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