di Stefano Ammirato, Gianmarco Cantafio, Alessandro Gaudio, Gennaro Montuoro
È al carattere che la militanza assume in questo delicatissimo periodo storico che guardano tutte le voci del Controdizionario approntato da «Malanova». Il cantiere aperto di ricerca su nuove ipotesi politiche e orizzonti praticabili è giunto alla decima uscita nella sezione Freccia tenda cammello di «Machina» e include le voci Sinistri, Smart cities, Sottoterritorio e Spossessamento, incentrate sulle questioni intrecciate di territorio e crisi della militanza. Sono state scritte in fasi differenti ma poi aggiornate, provando a coniugare lo sguardo sull’attualità con un orizzonte di analisi più ampio. Anche queste, come le precedenti, non devono in nessun caso essere lette come lemmi e vanno ad arricchire il nostro controdizionario, ossia un dizionario che mette in discussione la sua stessa forma.
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Sinistri
Si odono concetti stridenti provenienti dai sinistri. Concetti manettari e a sostegno delle procure. Una doppia morale aleggia come uno spettro nei territori. Quando i teoremi della magistratura colpiscono il «movimento» è tutto un gridare al complotto, alla repressione, allo sbirro boia e assassino. Quando lo stesso meccanismo di potere colpisce gli altri, il dizionario cambia e perde il filo del garantismo e l’avversione per il carcere. Ma non ci sono due meccanismi: il potere è unico e ha dinamiche complesse.
Ci si stupisce che un sindaco o un parlamentare vengano pescati con le mani nella marmellata o che qualcuno utilizzi il loro potere per il proprio personale tornaconto. Ci si stupisce nonostante la lunga storia «democratica» − da Mani pulite a oggi − abbia dimostrato che a non funzionare è proprio la democrazia rappresentativa con il meccanismo autoassolvente della delega. Chi darebbe il proprio stipendio a un tizio (uno qualsiasi tanto uno vale uno) eletto proprio per gestirlo nel migliore dei modi possibili? La domanda è evidentemente retorica. Ma per quale motivo le risorse pubbliche dovrebbero essere affidate a un manipolo di usurpatori che da sempre ne ha fatto un uso irrazionale e funzionale solo ai suoi interessi?
Fa male vedere a quale livello di ragionamento siamo costretti ad assistere quotidianamente. Si ciancia di «sistemi» e consorterie, utilizzando però lo stesso gergo antimafia e antipolitico degli altri. Si divide il potere in buono e cattivo per tirare la volata a se stessi, «gli onesti» che, se votati, saranno sicuramente migliori degli altri, «i disonesti», non considerando minimamente i meccanismi istituzionali e sociali che generano e innervano questi «sistemi».
«Diffondere saperi senza fondare poteri», diceva Primo Moroni e, parafrasando Peppino Impastato, potremmo aggiungere che il potere è una montagna di merda. A cosa serve, dunque, denunciare il politico farabutto, il sindaco imbroglione o l’assessore della cosca? Notizie spesso scontate che da decenni sono al centro delle tante tribune politiche; uomini e donne di potere che continuano a calcare il palcoscenico della politica decidendo delle nostre vite. Fintanto che la critica è uniformata a una logica da stadio non facciamo altro che garantire spazio a questo o quell’altro gruppo politico-mafioso, non facciamo altro che costruire poteri senza fondare saperi.
Non ci riusciamo proprio ad accalorarci per un referendum che ti invita a scegliere tra un Sì per risparmiare lo «zerovirgolaqualcosa» della spesa pubblica e un No che difenderebbe nientepopodimeno che la stessa democrazia rappresentativa. Non riusciamo ad accapigliarci per l’ultimo politico trovato con le mani in pasta: eserciti di sostituti saranno pronti a prenderne il posto. Magari, ironia della sorte, lo sostituirà uno di noi, uno che ha fatto le nostre stesse lotte, uno che, una volta insediatosi nella stanza dei bottoni, dimenticandosi delle tante battaglie sostenute, andrà a inaugurare qualche diavoleria sputa veleni con tanto di fascia tricolore.
Se proprio dobbiamo parlare di referendum, ne servirebbe uno per azzerare del tutto il numero di rappresentanti e dare voce veramente al «popolo» che, dal canto suo, dovrebbe iniziare a schiodarsi dal divano psichedelico su cui si è adagiato e capire che non esiste miglior amministratore dei propri interessi che se stesso.
Ne servirebbe un altro, poi, per eliminare il pareggio di bilancio in Costituzione e ridare ossigeno alla spesa pubblica, senza doversi ogni volta indebitare con i mercati o con l’Europa, trasformando i servizi essenziali in spese da contenere. Non c’è da diminuire o aumentare i rappresentanti, non occorre schierarsi con il politicante più in voga. Occorre eliminare dalla logica comune la necessità di delegare ad altri il proprio futuro. Non c’è da fidarsi dell’amministratore onesto, non c’è da sperare; c’è da rimboccarsi le maniche e costruire ora, pezzo per pezzo, il mondo che vogliamo: dobbiamo farlo collettivamente pensando nuove istituzioni dal basso, disposte ad autogovernarsi e capaci di farlo.
Smart cities
È già da tempo che si parla di smart cities, declinandole come città «intelligenti» ossia informatizzate, integrate, a misura d’uomo e sostenibili. Capaci di rispondere alle esigenze della contemporaneità, garantendo servizi personalizzati che, grazie alla gestione informatizzata, dovrebbero limitare gli sprechi e garantire l’ottimizzazione e la massimizzazione delle risorse, da quelle energetiche a quelle umane. Queste città smart tendono a somigliare a macchine sofisticate, interconnesse con altre città in una gigantesca rete, flussi di dati che contribuiscono alla gestione di impianti energetici, idrici, di smaltimento rifiuti, ma anche ospedali, scuole e trasporto pubblico.
Città sempre più informatizzate, ambienti agili e flessibili, pronti a modificarsi per tenere il passo con l’evoluzione tecnologica, che, come metronomi in accelerazione, pongono non pochi problemi a chi deve pianificare, prevedere e trasformare lo spazio urbano in qualcosa di mutevole. La smart city, a ben guardarla, somiglia sempre più a un sistema integrato che deve essere continuamente aggiornato per assolvere compiti e ruoli sempre nuovi. Da qui la necessità di aggiornamenti continui, la ricerca di prestazioni sempre migliori. In sintesi si chiede alle aree urbane di essere competitive in sé.
Tempi addietro un agglomerato urbano era competitivo per il livello di produzione di ricchezza legato alle attività produttive che vi si insediavano: più fabbriche c’erano, più persone si attiravano, più persone arrivavano, più attività secondarie si attivavano, più attività secondarie richiamavano altre persone e altre attività. Si innescava un processo attraverso il quale la complessità del sistema produttivo garantiva un abbattimento dei costi inter e intra-industriali che fungeva da richiamo per ulteriori aziende (le economie di agglomerazione sono tutti quei vantaggi di ordine economico che le imprese ottengono da una localizzazione concentrata; per un’analisi più dettagliata sull’argomento si rimanda ai testi di economia urbana di Alberto Camagni o di Alan W. Evans).
Dopo l’avvento della deindustrializzazione, almeno nei paesi a capitalismo avanzato, il richiamo si è spostato dalla manifattura ai servizi, le aree metropolitane sono divenute centrali operative di aziende e corporation di ogni genere: il servizio alla manifattura si è trasformato in servizi all’impresa, quindi in servizi finanziari, bancari, legali, ecc. L’impiegato ha via via sostituito l’operaio. Queste nuove spinte economiche hanno gettato le basi per quelle che Saskia Sassen definisce «global cities» (S. Sassen, Le città nell’economia globale, Il Mulino, Bologna 2004).
Il fatto stesso di dover aggiornare l’impianto e la struttura dell’economia urbana apre le porte a una serie di operazioni e investimenti che vedono nelle partnership tra pubblico e privato la strategia migliore per massimizzare gli utili e minimizzare i rischi, avendo capitali garantiti o da mutui stipulati da enti pubblici o da obbligazioni statali. Dopo questa brevissima sintesi, non potendo qui per ragioni di spazio addentrarci oltre nelle specificità di una tematica tanto complessa, si può in qualche maniera ravvisare come l’essere smart degli ambienti urbani abbia giocoforza una doppia veste.
Se da un lato abbiamo le immense opportunità fornite dalla tecnologia, con la quale riusciamo a gestire e ottimizzare il consumo di risorse preziose, dall’altro c’è il muro del profitto che tende a distorcere alcune necessità e che, di fatto, arresta l’economicità introdotta dai sistemi tecnologicamente avanzati. Su un piatto della bilancia vi sono le necessità di città salubri, servizi essenziali garantiti e ambienti meno alienanti o degradanti. Sull’altro piatto vi è la «necessità» di sostenere un circuito economico che si è dovuto reinventare nella produzione di servizi, avendo trasferito buona parte della produzione di beni altrove e ciò che è rimasto è in via di automazione (Automazione, robotica e intelligenza artificiale cambieranno per sempre il lavoro (che non c’è), «Malanova», 13 maggio 2020, l’articolo è consultabile all’indirizzo https://www.malanova.info/2020/05/13/automazione-robotica-e-intelligenza-artificiale-cambieranno-per-sempre-il-lavoro-che-non-ce).
Una spinta poderosa, quella delle trasformazioni urbane, che riesce a fungere da puntello per un’economia industriale in affanno. Con il consenso di una popolazione altrettanto in affanno, per carenze croniche di servizi e lavoro, il concetto di smart è associato a qualcosa di positivo, tanto quanto quello di green che appare in tutta la sua narrazione salvifica. Viene letto come uno strategico passo indietro dell’economia su temi vitali, una presa di coscienza delle aziende, l’inizio dell’era del capitalismo etico, ecc. e la narrazione va avanti aggiungendo complessità a una tematica già di per sé delicata.
Altri concetti, altrettanto complessi, affiancano quelli di smart e green e, in un certo qual modo, dovrebbero coadiuvarli, fornendo loro una struttura e un processo al quale aderire. Parliamo di innovazione e resilienza. Ora, se prendiamo la letteratura scientifica che ha trattato (e continua a trattare) questi temi, troveremo che gran parte degli articoli pubblicati su riviste scientifiche associano all’innovazione semplicemente il processo strettamente legato all’implementazione tecnologica. Seppur questa rappresenti il vettore principale di traino economico degli ultimi 25-30 anni, si tende spesso a spostare l’attenzione sulla mera capacità di un territorio di accedere (leggi acquistare o investire) alla tecnologia, piuttosto che sulla capacità di dare risposte strategiche per eliminare problemi decennali.
Se l’innovazione, per esemplificare al massimo, è concentrare gli sforzi per costruire veicoli per il trasporto individuale o portando agli estremi tecnologici il motore a scoppio estendendone la «sostenibilità» con i motori ibridi, be’, crediamo che non si stia tentando di dare nuove risposte al problema del traffico o dell’inquinamento (acustico, ambientale, di fine vita del prodotto, ecc.) né, più banalmente, al problema parcheggi.
L’innovazione di cui spesso si parla negli articoli scientifici è anche quella finanziaria, che mette in campo strumenti sempre diversi per moltiplicare i capitali investiti, spalmare debiti crescenti sui futuri cicli economici (tipico il caso dei derivati che ha portato al default comuni piccoli e grandi nella prima decade del 2000), sostenere i finanziamenti e gli investimenti per l’innovazione territoriale. Ma in cosa consista questa innovazione è arduo da spiegare, in quanto di innovativo c’è la dotazione di strumenti (normativi, tecnologici, finanziari, ecc.), ma applicati a qualcosa di assai poco innovato, ossia il valore dei suoli e le strategie immobiliari.
Altro «baluardo» del dibattito tecnico-scientifico attuale è il già citato concetto di resilienza, spesso declinato in chiave economica come capacità di reagire agli shock sempre più frequenti. Si innerva la resilienza economica a quella sociale e ambientale, ma ciò che si va a valutare sono sempre gli indici economici: la rapidità di ristrutturazione della domanda di beni e servizi è un insieme di fattori positivi che danno conto del comportamento resiliente del territorio considerato. È anomalo constatare quanti sforzi economici vengano profusi nella fusione di tecnologia, ingegneria finanziaria e innovazione dei processi di trasformazione urbana, per produrre spesso ambienti fruibili da alcune specifiche categorie di persone.
Da un articolo recente (G. Santilli, Infrastrutture e spazi degradati, priorità delle città post Covid, «il Sole 24 Ore», 17 novembre 2020), si evince come un certo numero di persone intervistate nelle maggiori città italiane chieda esplicitamente un ambiente urbano diverso, con una mobilità più agile, tempi di spostamento di 15-20 minuti. Appare inoltre assai chiaro, sempre nello stesso articolo, come le richieste nelle varie città siano diversificate in quanto a consenso. Vi è, tuttavia, un dato ancor più interessante: tra le maggiori impellenze per la vivibilità urbana, la dotazione tecnologica viene avvertita come problema subordinato a questioni più tangibili, tipo le periferie degradate.
Quello che invece sembrerebbe il modello proposto va in un’altra direzione: una città più flessibile e verde e molto più smart, come quelle illustrate nelle riviste di architettura, ordinate ma non schematiche, efficienti ma non oppressive, grandi ma non aggressive. Si cercano soluzioni di prossimità per lo smart working che per inciso dopo la pandemia rimarrà come valida alternativa ai grossi e costosi spazi aziendali necessari per il coordinamento di vari uffici. Quello che giornali e riviste ci stanno raccontando è una sorta di rivoluzione urbana che viaggia con la velocità di un click. Ma sarà accessibile a tutti?
Crediamo che purtroppo la risposta sia comunque negativa. Non è semplice pessimismo, ma il frutto di una considerazione di base (aggiunta a qualche anno di esperienza sul campo). Se, come si accennava all’inizio, il meccanismo che tenta di trattenere nello stesso processo i concetti di smart, green, innovazione e resilienza ha comunque come ricaduta immediata il valore del suolo e il valore immobiliare di quello che ci sta sopra, allora vuol anche dire che, appena si accenna a una trasformazione, il mercato e il processo di messa a valore dell’esistente cominciano ad attivarsi.
Una nuova linea urbana di metropolitana o tram, ad esempio, comincia a consentire lo spostamento di persone, senza mezzo di trasporto proprio, da quartieri periferici. Questo, se da un lato dovrebbe incentivare la decongestione delle zone centrali, in realtà contribuisce ad allontanare alcune categorie sociali dai quartieri serviti dalle nuove linee. Non è un fenomeno paradossale, riguarda la semplice applicazione dei principi cardine dell’economia urbana orientata al mercato. Nuove fermate di mezzi veloci implicano zone di aumento del valore immobiliare. Il problema è che il fatto stesso di avere la comodità del mezzo di trasporto collettivo fa, sì, lievitare il valore immobiliare ma, di conseguenza, anche il costo di locazione. Quindi, chi già vive in zona e arriva a stento alla fine del mese, con un aumento anche minimo del costo della vita (casa in primis), dovrà allontanarsi in cerca di costi di locazione minori.
Senza entrare nel dettaglio delle operazioni economiche che portano all’effetto gentrificativo, possiamo però individuare qualche strategia di «sviluppo» che è orientata alla valorizzazione delle zone periferiche attraverso il processo definito Tod (Transit Oriented Development), ossia lo sviluppo economico basato sui sistemi di trasporto. I problemi nascono nel momento in cui non c’è un calmiere all’aumento dei costi nella zona, ma il calmiere non può esserci dal momento che l’effetto desiderato è esattamente l’aumento di valore immobiliare che in periodi di stallo contribuisce a mantenere attivi gli investimenti.
Sistemi complessi che integrano il Tod assieme ad altri investimenti sono stati utilizzati negli Stati Uniti per stabilizzare il mercato immobiliare in picchiata dopo la crisi del 2007; ingenti fondi pubblici sono stati indirizzati alla realizzazione di ferro-tramvie, di nuove linee di metropolitane o all’implementazione delle linee di autobus. Anche quei quartieri semideserti, a causa delle centinaia di sfratti effettuati in seguito all’impossibilità di onorare i mutui, hanno visto arrestare la corsa in picchiata del valore medio, per poi riprendere quota.
Cosa potrebbe accadere alle nostre latitudini e nelle nostre aree urbane? Possiamo intanto immaginare che tra i fondi che giungeranno con il recovery plan e la potenza di fuoco messa in campo con il green deal, possiamo attenderci un periodo che vedrà concentrarsi sulle aree urbanizzate una serie di programmi di rinnovamento. Il problema risiede nel tipo di intervento: se da un lato non ci sarebbe nulla di male nel vedere periferie ammalorate, finalmente servite da servizi di base di qualità, se persiste la visione del lavoro precario e una redditualità sostanzialmente bassa, l’effetto di aumento del costo della vita innescherà una migrazione verso zone più accessibili.
Senza voler estremizzare le proiezioni verso visioni apocalittiche di nuovi ghetti o altro, rimane il fatto che a reddito basso corrispondono zone con scarse dotazioni di servizi, ossia la riproposta di quartieri dormitorio, anche se distanti da quelli tirati su dagli anni Sessanta in poi. Si tratterà verosimilmente di frazioni periferiche dei grossi centri urbani che nel giro di poco tempo vedranno aumentare la popolazione, senza che di pari passo vi sia la necessaria dotazione di servizi. Una creazione di periferie.
Dall’altro lato, vi è in atto una tendenza che prevede la riattivazione dei centri minori, ma solo ben definite categorie di persone che possono migrare in queste realtà rurali. Si tratta di lavoratori che accedendo al lavoro a distanza possono distanziarsi fisicamente dall’azienda: sono impiegati, consulenti, dirigenti e altro. Categorie con contrattazione diversa da un cassiere, da una commessa o da un artigiano che sono funzionalmente legati allo spazio fisico del loro lavoro.
In conclusione, la tendenza attuale vede nelle trasformazioni urbane uno dei punti di forza per l’economia, dal momento che la produzione di merci ha subito un progressivo rallentamento, per tutta una serie di fattori (delocalizzazione e automazione in primis), ed è stata soppiantata dalla produzione di servizi, di cui la logistica è uno dei principali. Così, ci ritroviamo con aree da recuperare, da ricollocare sul mercato. Se la tipologia di valorizzazione che sembra andare per la maggiore è quella che transita dall’innovazione che, come prima accennato, fruisce di una visione molto ristretta, è verosimile attendersi che i modelli messi in cantiere siano molto simili alle sperimentazioni degli ultimi due o tre lustri.
Parliamo di aree ad alto valore aggiunto trapuntate di edifici hi-tech e della rimozione progressiva dell’economia di quartiere fatta di botteghe artigiane (le poche che ancora sopravvivono), di attività di varia natura (mercerie, ferramenta, piccole riparazioni, ecc.) soppiantate dalla cosiddetta main street: la strada che alterna shopping e movida ma che difficilmente crea un tessuto socialmente ed economicamente duttile. Zone nelle quali il lavoro è precario e non specializzato, scarsamente remunerato (addetti alle friggitrici, commessi, cameriere, banconisti, ecc.), secondo una tendenza che ha ampiamente dimostrato i suoi limiti. Sono attività intimamente legate a una certa disponibilità a spendere, situazioni di consumo voluttuario, non connesse direttamente all’economia di prossimità o a esigenze residenziali (piccoli interventi di manutenzione o riparazione di oggetti o indumenti, ecc.) che risentono immediatamente di provvedimenti restrittivi e del calo dei redditi.
Se il modello ipotizzato è quello della città scintillante e illuminata dai touchscreen, con servizi tagliati su un target di consumatori propensi a spendere o ben disposti a indebitarsi, se, insomma, parliamo di un modello che tiene a distanza la dinamica di quartiere e il rapporto di vicinato, è verosimile attendersi una rimodulazione degli abitanti, allontanati tanto dall’aumento del costo della vita quanto da eventuali interventi normativi sul decoro, che semplicemente spostano mendicanti e questuanti fuori dalle zone più agiate rispedendoli in periferia magari con un daspo urbano. Un modello del genere di smart e green ha molto poco.
Sottoterritorio
Si tratta di una definizione di ordine prettamente architettonico che indica un non-luogo fatto di quartieri privi di identità, estremamente frammentato e quasi esclusivamente devoluto a dormitorio. Al suo interno si sopravvive ridotti a un popolo di pazienti, ricattabile, del tutto incline all’individualismo e, con paradosso soltanto apparente, privo della possibilità di scegliere. Sul sottoterritorio è calato un oscuramento culturale che lo ha consegnato definitivamente all’informe e alla distruzione paesaggistica oppure, ma è la medesima cosa, all’intrattenimento turistico. Nei diversi sottoterritori (l’Alto Ionio, si sa, non è il solo presente sul suolo calabrese) si è arrivati, così, ad assuefarsi al mostruoso.
Il mostruoso ha in qualche modo a che fare con l’indiscrezione che, poi, è il contrario della discrezione o, in altre parole, della politica, della bellezza della vita in comune. Nel suo regno vige una rigida compartimentazione che spersonalizza ogni singola esperienza. Ed è appena il caso di precisare come nell’autosegregazione l’insicurezza e la paura nei confronti del diverso, dell’esterno, del globale finiscano per trionfare. Non bisogna aspettare troppo perché l’autosegregazione si consumi in un bisogno, compulsivo ma sterile, di affermare e di dispensare opinioni, allontanandosi, però, dall’azione e dalla realtà che, nei sottoterritori, è disoccupazione, inabilità, grandi opere inutili, rifiuti tossici e cancro.
E patologica è anche quell’onnivisibilità − fatta di machismo, populismo, disprezzo per i deboli e da una neolingua poverissima sul piano lessicale e dalla sintassi elementare − che, nell’informazione così come nelle relazioni individuali, oscura lo spirito del tempo, il senso dei luoghi, ha detto qualcuno, così come gli spazi di riflessione, di discussione e di resistenza. Perché il sottoterritorio è regolato da un’amministrazione che riesce a essere provvisoria e, allo stesso tempo (non si sa come), è confitta in un eterno presente, che non protegge più chi vi abita e che, in assenza di assemblea, non deve dare conto a nessuno.
Già, l’assemblea. Perché nel sottoterritorio dell’Alto Ionio non si dà fiato, né consenso ai pochissimi movimenti attivi. Nella migliore delle ipotesi, si raccatta per loro qualche voto se hanno l’idea strampalata e perdente di presentarsi alle elezioni; quando, invece, ci sarebbe bisogno di altre dimostrazioni, anche clamorose, di partecipazione operosa, di disobbedienza civile, di solidale umanità, che vadano ben oltre le leziose canzonette elettorali.
In un quadro così delineato − fondato su un governo cinico a sua volta edificato su un sistema economico (e non di certo genetico) spietato −, sempre meno persone sono in grado di accorgersi che, pur ergendosi fittiziamente a intenditori specializzati (o, forse, proprio in misura di ciò), scelte e conclusioni si rivelano semplicemente sbagliate. Tale mancanza di metacognizione porta l’uomo del sottoterritorio a ignorare la propria ignoranza e, d’altro canto, fa sì che le conoscenze di base di ognuno restino largamente incomplete. Per questa via nel sottoterritorio dell’Alto Ionio un problema individuale gravissimo è diventato, presto, sociale: in esso non si riesce più a dare forma ai desideri, ragion per cui − come ammoniva Italo Calvino nelle Città invisibili, parlando di Anastasia − essi finiranno per cancellare il territorio o magari, come sta già accadendo, saranno del tutto cancellati da esso.
Spossessamento
L’antagonismo tra istituzioni locali, da una parte, e Stato e Capitale, dall’altra, per quel che attiene la realizzazione delle grandi opere, si consuma quasi sempre sulla possibilità di realizzare le cosiddette «opere compensative». È quello a cui stiamo assistendo nei comuni dell’Alto Ionio cosentino i cui territori saranno interessati, nei prossimi anni, dall’attraversamento del terzo megalotto della S.S. 106. Un dibattito surreale, tutto incentrato sulla possibilità di raccogliere qualche spicciolo che scivolerà dal forziere del nuovo colosso italiano delle costruzioni, Webuild, per poter così assolvere alle copiose promesse fatte ai cittadini circa le ricadute occupazionali che quest’opera avrà su una porzione di territorio già di fatto svenduto agli interessi del capitale.
È innegabile che alcuni dei conflitti che interessano la contemporaneità sono mossi da un concetto chiave sotteso a questo binomio: la messa a valore dei territori o, per meglio dire, la convulsa e imponente operazione di neo-enclosures, molto più vasta dei processi di recinzione che hanno interessato le terre demaniali inglesi tra il 1700 e i primi anni dell’Ottocento e che diedero il via a un nuovo ciclo produttivo industriale.
Come in passato anche oggi ci troviamo di fronte a un processo violento di pura forza capitalistica: non è soltanto un atto di espropriazione di materie prime, terre, foreste e acqua, ma un vero e proprio meccanismo di accumulation by dispossession, per dirla con David Harvey (D. Harvey, La guerra perpetua, analisi del nuovo imperialismo, Il Saggiatore, Milano 2006); un saccheggio che si spinge su tutto il valorizzabile finanche su sementi e organismi viventi. Per quanto la traduzione italiana − accumulazione per espropriazione − del paradigma di Harvey non renda nell’immediato la modalità con la quale si svolge questa forma di accumulazione, il concetto di dispossession indica invece una spoliazione, uno spossessamento (come, ad esempio, quello che la Dieta renana impose nel 1842 con la legge contro i furti di legna e aspramente criticata da Marx nella «Rheinische Zeitung») come atto violento con il quale il capitale esercita la sua egemonia di classe. Un atto talmente violento che riesce a depauperare irrimediabilmente un territorio e a rompere i legami sociali e gli interessi collettivi di una comunità; elementi, questi ultimi, necessari, seppur non sufficienti, per caratterizzare fronti di resistenza e conflittualità. Il processo della deterritorializzazione, l’espianto di una struttura dei rapporti sociali per innestare qualcosa di più confacente alle dinamiche del capitalismo. La favola del progresso che marcia su nastri d’asfalto fa il paio con la competizione fra territori; competizione alla quale è stata estirpata tutta l’eticità del gareggiare per migliorare sé stessi, lasciando un significato vago di concorrenzialità attraverso la quale far passare ogni tipo di intervento sul territorio come unica possibilità per non essere tagliati fuori dai giochi. Ma di quali giochi si tratti e come si fa a capire se si è vinto qualcosa è difficile stabilirlo visti gli esiti finora ottenuti con mega cantieri e grossi appalti nel paese.
Così appaiono del tutto evidenti i nessi tra le cosiddette grandi opere e le tanto volute opere compensative: interventi funzionali (seppure su scale differenti) alla proprietarizzazione di un territorio mediante l’uso della violenza spossessante. Un’offensiva sistematica accompagnata da un progressivo depotenziamento e assorbimento capitalistico della funzione di democrazia deliberativa assolta in passato (e oggi sempre meno) dai consigli comunali e che, in un certo qual modo, garantiva un equilibrio tra interessi particolari e collettivi in una chiave interpretativa sempre tesa a un non meglio definito «sviluppo» e sempre più allacciata alla sacralità della proprietà privata.
Probabilmente ci troviamo di fronte a un salto concettuale la cui forma non rinvia più a un contenuto interpretabile con la teoria politica di marca novecentesca. Questo può, in una certa misura, essere letto come l’esito di quel meccanismo di spossessamento violento cui accennavamo all’inizio che, da una parte, spoglia le identità comunitarie e, dall’altra, crea i presupposti per scenari rivoluzionari che oggi però fatichiamo a cogliere nella loro interezza e potenzialità.
Forse sono altri i parametri che dovrebbero essere adottati per interpretare la fase storica nella quale stiamo annaspando. Sicuramente l’elaborazione teorica e le analisi di certa parte dell’intellighenzia di sinistra degli ultimi trent'anni non sono riuscite a scalfire la superficie del problema, in un continuo ondeggiare tra la costruzione del consenso a mezzo di narrazioni e di un nemico creato ad hoc verso cui indirizzare battaglie di scopo, perse le quali c’era solo da trovare un plausibile responsabile per il fallimento.
Senza voler enfatizzare alcunché e senza sminuire la portata delle pur molteplici esperienze provenienti dai territori, resta il nodo irrisolto delle identità comunitarie e territoriali che, da volàno insurrezionale, spesso diventano freno alla capacità di travalicare gli aspetti contingenti ed estendere la conflittualità sul piano generale e contro il capitale. Per fare ciò, il piano dell’agire militante deve rompere il rapporto dicotomico tra crescita economica ed emancipazione sociale, spiazzando la contrapposizione tra modernità e antimodernità, per individuare nello sviluppo capitalistico le sue criticità immanenti e la possibilità della rottura rivoluzionaria. Le lotte contro lo sfruttamento e lo spossessamento capitalistico ci indicano la centralità della riappropriazione della ricchezza sociale prodotta e dell’autonomia del lavoro vivo e non la conservazione o un ritorno a uno stato ancestrale, naturistico e neo-identitario.
Spesso però osserviamo che il ruolo dei militanti resta ambiguo e contraddittorio: se la pratica antagonista separa e bunkerizza in gruppi, comitati e controgruppi, non si fa altro che riprodurre il meccanismo dell’identificazione territoriale in sostituzione dell’altra identificazione necessaria, quella di classe, senza la quale alla lunga si produce autoreferenzialità, impotenza politica e autoesaltazione comunitaria con il paradosso di mettere al centro del proprio agire il gruppo di appartenenza e non appunto la composizione di classe.
Com’è possibile portare a soluzione l’equazione dell’identità comunitaria agendo sul diritto all’esistenza, sulla resistenza e sulla rivoluzione, facendo leva su quelle esperienze nelle quali si sta tentando di esprimere il diritto collettivo ad autodeterminarsi contro la violenza espropriatrice del capitale?
Qui diventa importante il tipo di soggettività che si va formando, sì, nelle lotte territoriali, ma specificatamente all’interno del complesso rapporto che intercorre tra la capacità di anticipare una tendenza e la produzione di una rottura che deve essere sistemica e strutturale. Non quindi una semplice incrinatura strategica per ottenere qualche vantaggio sul piano materiale. Un processo di completa disarticolazione del sistema, all’interno del quale non forgiare nuovi linguaggi, meta-dottrine o modi originali per incassare sconfitte dai nemici storici. Semmai la maturazione di una contro-soggettività che diviene tale non come risultato della linearità del processo, ma come salto che produce una rottura con il nemico di classe (ma anche contro noi stessi). Senza una consapevole costruzione del piano organizzativo, le immancabili occasioni di attivazione dei processi di rottura non saremo noi ad afferrarli. Questo è possibile solo se la necessaria rigidità del punto di vista di classe viene articolata e combinata con la flessibilità della tattica, per agire quello che c’è su un territorio senza però rinunciare a un suo cambiamento.
Romano Alquati commentando i fatti di Piazza Statuto del ’62 affermò: «noi non ce l’aspettavamo, però l’abbiamo organizzata!» e Mario Tronti, a proposito dell’esperienza dell’operaismo degli anni Sessanta disse: «Quando scopri una contraddizione fondamentale che ha fatto epoca, anche nel momento in cui ti trovi senza quell’epoca, ti rimane poi il gusto e la spinta di guardare il mondo alla ricerca dell’altra grande contraddizione, senza la quale il resto che accade ti risulta inessenziale. Puoi non trovarla, la nuova contraddizione fondamentale, ed è un dramma, puoi trovare che non c’è ed è una miseria dei tempi, puoi trovare che c’è e non si dà chi sappia affrontarla e organizzarla ed è una tragedia. Ma tu sei lì sul campo di battaglia del pensiero, che muovi le idee come il generale i suoi soldati: perché di una cosa sei sicuro, non banalmente l’avversario ma seriamente il nemico c’è, ed è il rapporto di capitale. Allora, vedete, c’è un punto di vista operaio, anche se non ci sono più gli operai, organizzati in potenziale classe antagonista». Anticipare una tendenza dunque, individuare le contraddizioni e provare a organizzarle.
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Stefano Ammirato, Gianmarco Cantafio, Alessandro Gaudio, Gennaro Montuoro fanno parte della redazione di «Malanova», progetto militante che si pone l’obiettivo di costruire una rete di informazione e approfondimento a partire dai territori del Sud.
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